Dieci anni dopo le Primavere arabe, cosa è cambiato? Intervista ad Alessia Melcangi

Dopo dieci anni dall’inizio delle proteste in Tunisia, cosa è cambiato nel Mediterraneo e nei paesi arabi? L’analisi di Alessia Melcangi

Nel mese di dicembre 2010, con l’avvio delle proteste in Tunisia, avevano inizio le Primavere arabe, che in poche settimane dal paese del Nord Africa coinvolsero larga parte dei paesi confinanti e del resto della Regione, dalla Libia all’Egitto, alla Siria, fino al Sahel e la Penisola Araba. A dieci anni di distanza cosa resta di quelle proteste, nella memoria dei paesi coinvolti, e cosa è cambiato, nella regione mediterranea e mediorientale? Ne abbiamo parlato con Alessia Melcangi, docente di Storia contemporanea del Nord Africa del Medio Oriente e di Golobalizzazione e relazioni internazionali presso l’Università di Roma La Sapienza.

Professoressa Melcangi, con le prime proteste in Tunisia 10 anni fa, ebbe inizio quella serie di manifestazioni di piazza che sono state ribattezzate “primavere arabe” e che coinvolsero quasi tutti i paesi del Medio Oriente e Nord Africa. Quali furono le cause che scatenarono le proteste?

Le proteste avevano radici profonde che vanno rintracciate nei sistemi politici, sociali ed economici creati dai regimi che per decenni hanno governato in maniera disfunzionale e autoritaria i paesi arabi. Parliamo di crepe profonde del sistema, di crisi strutturali degli Stati arabi post-coloniali che per decenni hanno promosso l’adozione di programmi di liberalizzazione politico-economica soltanto “di facciata”. Una modernizzazione e una promessa di riscatto dal sottosviluppo mai perseguita realmente ma che nei fatti alimentava l’autoritarismo di quei regimi.  Bisogna andare un po’ indietro nel tempo, agli anni ’80 quando la maggior parte dei paesi arabi attraversava una profonda crisi economica: il loro debito estero aumentava in modo esponenziale, mentre la crescita economica, che era stata esuberante nella fase storica precedente, crollava ai livelli più bassi al mondo, più bassi persino di quelli dell’Africa sub-sahariana. Per uscire dalla crisi economica e contenere il debito, molti Paesi arabi furono costretti a chiedere nuovi prestiti, o la rinegoziazione di quelli esistenti, alle due maggiori istituzioni finanziarie internazionali – il Fondo monetario internazionale (FMI) e la Banca mondiale (BM). In cambio degli aiuti, queste due istituzioni internazionali imposero ai Paesi arabi, come già avevano fatto coi Paesi indebitati dell’America Latina, l’adozione di riforme economiche dettate dall’approccio neo-liberista alla globalizzazione, e volte a ridurre il ruolo dello Stato nell’economia e ad aprire i mercati. Le riforme economiche di tipo neo-liberista, adottate dalla maggioranza dei Paesi arabi negli anni ’80 e ’90, produssero risultati positivi in termini macro-economici: il deficit fu ridotto, così come l’inflazione e il livello del debito estero, mentre la crescita economica ripartì. Vi fu un relativo miglioramento macroeconomico, ma di breve durata e accompagnato da un continuo peggioramento delle disparità sociali e delle condizioni di vita della maggioranza della popolazione. Alle liberalizzazioni economiche si affiancarono quelle politiche, sostenute dagli Usa e i Paesi europei all’interno della cosiddetta “promozione della democrazia”. I regimi arabi alternarono dunque momenti di apparente apertura politica, attraverso elezioni multipartitiche o mostrando tolleranza nei confronti dei movimenti islamisti, ma senza implementare realmente queste misure. L’esistenza di un vero processo di democratizzazione dei sistemi politici arabi fu in sostanza un mito, una falsa narrativa creata nell’interesse dei regimi, e dei loro sostenitori internazionali. Quando nel 2011 arrivarono le cosiddette Primavere arabe, ci si rese conto che non era stata realizzata nessuna liberalizzazione sostanziale, ma solo una ristrutturazione delle forme dell’esercizio del potere politico ed economico: la sperequazione sociale erano aumentate e la situa­zione socio-economica della popolazione continuava un processo di lento degradamento. La modernizzazione tanto promessa delle strutture politiche ed economiche si era rivelata una sorta di maquillage che toccava solo gli aspetti tecnici. Il tanto decantato riscatto dal sottosviluppo aveva fatto ripiombare la popolazione in una situazione di profonda indigenza mentre l’economia statale virava verso una gestione sempre più patrimoniale. La società civile continuava ad essere relegata ai margini della partecipazione politica, e nei confronti degli attivisti e delle opposizioni (sia laiche che islamiste) i regimi rispondevano con misure di repressioni sempre più violente, imbavagliando e arrestando la dissidenza. Questa situazione non poteva di certo reggere ancora a lungo.

Le proteste, in poco tempo, si spostarono anche negli altri paesi. Perché fu possibile questa sorta di effetto dominio, che coinvolse uno dopo l’altro partendo dalla Tunisia tutti i paesi della regione?

Ciò che il gesto disperato di Mohammed Bouazizi provocò il 17 dicembre 2010 a Sidi Bouzid in Tunisia fu un vero e proprio seismic shift, una scossa sismica: Egitto, Yemen, Bahrein, Libia e Siria seguirono presto l’esempio della Tunisia. Partendo dalle premesse fatte sopra, e normale immaginare che le condizioni di disagio politico e sociale, presenti in molti paesi arabi, avrebbero presto portato a reazioni simili alla Tunisia. L’immediata diffusione delle notizie, grazie alle stazioni televisive satellitari arabe come Al-Jazeera e ai social network come Facebook e Twitter, di certo ha concorso ad accelerare il processo, trasmettendo rapidamente immagini, idee e slogan attraverso i confini dei paesi coinvolti. I regimi che erano ben preparati a reagire a disordini locali e isolati furono sopraffatti da queste rivolte di massa e diffuse. Le vittorie dei rivoluzionari in Tunisia ed Egitto, dove le proteste furono in grado costringere alle dimissioni (se non alla fuga) gli autocrati al potere da decenni, galvanizzarono i manifestanti in altri paesi arabi. Di certo anche la capacità dei rivoltosi di comunicare le proprie richieste e di manifestare, molto spesso in modo non violento, spinse a credere che le rivolte potessero essere applicate anche in altre realtà. La rivolta egiziana del 25 gennaio 2011, pur essendo stata pre­ceduta da quella tunisina, rimane senza dubbio la più simbolica e anche quella in cui c’è stato il maggiore sforzo da parte dei rivoluzionari di comunicare all’esterno le proprie richieste, di mostrare e diffondere un tipo di protesta non-violento che aveva il suo epicentro proprio nella Piazza Tahrir, la Piazza della Liberazione, del Cairo. Nella foga del momento rivoluzionario di dieci anni fa, sembrava che la regione fosse cambiata per sempre. Il muro autocratico della paura si era infranto e cittadini arabi sembravano destinati a non tollerare mai più un governo autoritario. La storia presentò dopo un conto molto diverso.

Quale era la natura dei movimenti di protesta che le animavano? Che ruolo hanno avuto, se lo hanno avuto, nelle proteste e nelle crisi successive ai disordini, i movimenti islamisti?

Le manifestazioni del 2011 sono state perlopiù presentate come dei moti capitanati soprattutto da giovani urbanizzati e istruiti, considerazione vera, poiché da essi partì certo l’iniziativa; ma tale considerazione non deve eliminare la natura di questi movimenti che furono popolari, trasversali, privi di leader o di ideolo­gie dominanti, soprattutto nelle prime fasi. Le rivendicazioni erano socioeconomiche: si invocava la libertà di rappresentanza e di espressione ma anche un miglioramento della condizione di vita delle classi più disagiate che in massa parteciparono alle rivolte. In questo quadro, partiti e movimenti islamisti rimasero inizialmente estranei alle manifestazioni di piazza del 2010-2011, per poi accompagnare da vicino la turbolenta fase post-Primavera araba riprendendosi lo spazio che inizialmente sembrò essere occupato da un movimento sostanzialmente laico o comunque trasversale anche nell’appartenenza religiosa. Le principali organizzazioni islamiste a cui possiamo facilmente fare riferimento, la Fratellanza Musulmana in Egitto e il partito Ennahda in Tunisia, furono colti di sorpresa dalle manifestazioni.  Nel decennio precedente al 2011, i movimenti islamisti rappresentarono la forza di opposizione dominante in molti paesi arabi, per questo spesso ridotti alla clandestinità. Nei primi giorni delle rivolte, non svolsero un ruolo significativo. Solo in una seconda fase si posero alla guida della transizione rientrando nell’arena politica. Il partito Ennahda e la Fratellanza musulmana ottennero massicce vittorie nelle prime elezioni di transizione tra il 2011 e il 2012. Allo stesso modo in Marocco, paese relativamente toccato dalle rivolte, il Partito della giustizia e dello sviluppo fu in grado di formare una serie di governi dopo le vittorie elettorali nel 2011 e nel 2016. Nel 2012, i movimenti islamisti sembravano essere in inarrestabile ascesa. Tuttavia essi sono diventati presto un bersaglio attraente dai gruppi di potere che erano sopravvissuto al crollo dei vecchi regimi. L’esercito egiziano ha rispolverato il vecchio adagio della minaccia islamista per legittimare il colpo di stato del luglio 2013 e la repressione che ne è seguita e che ha portato alla messa al bando della Fratellanza. In Tunisia, il partito Ennahda, per evitare un esito disastroso come quello egiziano, ha praticato una strategia di autolimitazione imponendo la concertazione con le altre forze politiche ma di fatto bloccando i meccanismi decisionali. Piuttosto che vincere il gioco democratico, la maggior parte dei gruppi islamisti ha fallito grazie sia ai propri errori che alle repressioni governative. Originariamente acclamati come attori importanti nei nuovi sistemi democratici, dopo una strenua lotta per la sopravvivenza e mostrando di potersi adattare al cambiamento, furono alla fine soppressi dalle rinascenti autocrazie. Questo epilogo ha rafforzato ulteriormente la sensazione che le rivolte fossero nei fatti fallite.

In Occidente l’avvento delle proteste fu salutato con un generale ottimismo. Alcuni pensarono che fosse l’avvio di un processo di democratizzazione della regione. A oggi però non sembrano aver lasciato molti spazi alla democrazia, a parte il caso della Tunisia. Anzi, il Medio Oriente sembra essere molto più instabile e destabilizzato rispetto a prima. Che bilancio si può trarre oggi di quella esperienza?

Noi (occidentali) abbiamo fatto un grosso errore, ossia dare per scontata la stabilità dei regimi arabi: pensavamo che la dicotomia stabilità VS democrazia avrebbe potuto resistere, avrebbe potuto davvero assicurarci dal terrore del sopravvento dei movimenti islamisti, di quelli radicali soprattutto. Mi spiego meglio: per decenni i paesi occidentali hanno creduto possibile scendere a patti con i regimi arabi fornendo loro sussidi economici attraverso gli istituti internazionali, quali il Fondo Monetario Internazionale o la Banca Mondiale, per far fronte alle gravi crisi economiche, richiedendo delle aperture democratiche, come dicevamo prima. Questo perché la presenza di un regime forte, meglio se militare, era garanzia sicura contro la rischiosa deriva islamista. La stabilità barattata in cambio della continua privazione dei bisogni fondamentali della popolazione, sulla quale si chiudevano entrambi gli occhi. Ma ci sbagliavamo: analisti, l’EU, gli Stati Uniti per primi hanno creduto che finanziare per decenni questi regimi avrebbe assicurato la stabilità perenne dell’area. Tuttavia, dietro la falsa parvenza di regimi apparentemente quasi-democratici covava la profonda insoddisfazione della popolazione, degli strati popolari più colpiti dalle cicliche crisi economiche, dalla mancanza di aspettative dei più giovani, da una continua violazione dei diritti fondamentali che rendevano quelle società insostenibili, invivibili, ormai destinate al cambiamento. Ma nel giro di pochi anni, tuttavia, quelle speranze furono distrutte. Un colpo di stato militare in Egitto pose fine al suo nascente esperimento democratico. Le fragili transizioni in Libia e Yemen sono sfociate in una guerra civile. In Siria si giocano ancora le ambizioni delle principali potenze internazionali in quella che è diventata una delle principali guerre per procura. Alla fine, gli autocrati di tutta la regione hanno recuperato la maggior parte del potere che avevano perso eliminando, come una “damnatio memoriae”, tutto quello che resta delle Primavere arabe e mettendo in atto delle vere e proprie controrivoluzioni. In realtà la colpa di questi movimenti, così come delle élite liberali laiche, è stata quello di non aver saputo proporre un progetto alternativo, di generare un nuovo ordine politico, ma di cambiare solo i vertici del potere, senza cambiarli effettivamente. I gruppi che detenevano il potere il più delle volte non hanno mai smesso di mantenerlo: il caso emblematico è quello dell’Egitto, governato e controllato dal 1952 dai militari (dalla Rivoluzione del 1952 di Gamal ‘Abd al-Nasser, secondo presidente della Repubblica d’Egitto, passando per Anwar al-Sadat e fino ad arrivare a Hosni Mubarak, deposto appunto nel 2011 dalle rivolte di piazza Tahrir). L’aspettativa diffusa nei primi mesi delle cosiddette “Primavere arabe”, che la regione avrebbe assistito a una “transizione democratica” fluida come quella vissuta in altre parti del mondo, era basata su un’ingenua sottovalutazione della capacità di resistenza del corpo principale dello Stato e dei suoi spina dorsale repressiva, quella dell’élite militare. Tuttavia raccontare queste rivoluzioni soltanto come un fallimento non sarebbe giusto. Esse hanno rappresentato un evento senza precedenti in grado di lasciare la consapevolezza per milioni di arabi dell’importanza di alcuni valori quali la libertà, la partecipazione politica e il rispetto dei diritti umani. Le Primavere arabe hanno avuto il grande pregio di ribaltare il presupposto antico dell’immobilismo delle società arabe smentendo l’idea assurda che il “mondo arabo” non sarebbe mai stato in grado di raggiungere la libertà come aveva fatto gran parte del mondo, rappresentando una sorta di eccezione geografico-culturale. E, infine, le rivolte hanno dimostrato che i regimi autoritari, che molti ritenevano irremovibili o almeno forti e stabili, erano in realtà “tigri di carta” che potevano essere sfidate e sconfitte. La violenza con la quale rispondono ad ogni tipo di dissidenza ci fornisce la misura della loro fragilità e ci mostra il loro timore che un’altra primavera possa presto arrivare.

In questi anni, in cui il Mediterraneo e il Medio Oriente sembrano essere tornati al centro della competizione delle grandi potenze e anche le rivalità tra le potenze regionali sembrano essersi moltiplicate, che prospettive vede per la stabilizzazione della regione e la soluzione delle crisi ancora in essere?

La situazione che vive oggi la regione è molto complessa e caratterizzata da molteplici tensioni e rivalità geopolitiche tra attori regionali e internazionali che si manifestano in guerre per procura e conflitti settari. La diffusione della pandemia di Covid-19 ha complicato ulteriormente il quadro politico, sociale ed economico che faticava già a riprendersi dall’ondata di rivolte: sebbene la pandemia abbia concorso a ridurre le manifestazioni, sappiamo che il suo impatto non può durare al lungo, tanto più che il conseguente aggravamento della crisi economica regionale alimenterà ulteriormente il malcontento popolare. Il calo della rendita petrolifera sta privando alcuni paesi di una risorsa fondamentale di sostentamento che, insieme alla crisi economica provocata dall’emergenza pandemica, sta già provocando un progressivo e inarrestabile impoverimento delle società arabe. Tutto questo all’interno di un quadro geopolitico, come si diceva, assolutamente instabile. Alla storica rivalità tra la Repubblica islamica dell’Iran da una parte e l’Arabia Saudita dall’altra, con i vari e diversi proxy, si è aggiunto un nuovo asse regionale che taglia il divario sciita-sunnita: una linea di frattura all’interno del mondo sunnita che si è cristallizzata in blocchi contrapposti, ossia Turchia e Qatar, fieri sostenitori dell’islam politico contro Arabia Saudita e Emirati Arabi, e che si è riversata in vari scenari, come quello libico e siriano. Gli Stati Uniti sono stati praticamente invisibili nella maggior parte di questi conflitti. Sotto Trump, la cui amministrazione era fissata sulla questione del nucleare iraniano e disinteressata alle sfumature della politica regionale, Washington è in gran parte scomparsa come attore principale, anche in aree come Iraq e Siria, dove le truppe statunitensi rimangono dispiegate. Lungi dall’incoraggiare il cambiamento democratico o persino la difesa dei diritti umani, Trump ha invece scelto di fare affidamento su partner conservatori come l’Arabia Saudita e Israele aggiungendo caos ad una regione già tormentata. Ulteriori scoppi di proteste di massa ora sembrano inevitabili. Ci sono semplicemente troppi fattori di instabilità politica perché anche il regime più draconiano possa rimanere al potere a tempo indeterminato.  Certo, i dittatori hanno imparato a cooptare e reprimere violentemente qualsiasi voce di dissenso. Ma anche la società civile ha imparato lezioni preziose, e le recenti dimostrazioni in Algeria, Sudan, Iraq e Libano ce lo dimostrano. Ogni realtà, ovviamente, ha le sue caratteristiche specifiche e non si può fare un discorso generalizzato, ma tuttavia vi è il rischio concreto che il malcontento di alcune fasce della popolazione oppresse e deluse emerga violentemente e nuovamente. Otto anni dopo la prima ondata rivoluzionaria, la regione ha assistito alla seconda, inaugurata dalla rivolta sudanese iniziata il 19 dicembre 2018. È stata seguita nel 2019 dall’Hirak algerino e dalle rivolte in Iraq e Libano. In totale, dieci stati arabi hanno assistito a rivolte negli ultimi dieci anni, il che significa che quasi la metà dei paesi della regione e la stragrande maggioranza della sua popolazione hanno attraversato massicci focolai rivoluzionari. Tutte queste rivolte, seppur con le dovute differenze, possono essere lette attraverso una chiave di lettura comune: nel Medio Oriente e nel Nord Africa, le condizioni che hanno creato il terreno rivoluzionario e generato le rivolte del 2011 esistono ampiamente, a volte in forme anche peggiori, come in Egitto e in Siria. I regimi che si sono ristabiliti al potere non hanno fatto nulla per risolvere le crisi strutturali alla base delle rivolte, ma anzi hanno concorso a peggiorare le condizioni di instabilità politica e sociale. I regimi che dovevano assicurare la stabilità erano, nei fatti, la causa principale dell’instabilità. La loro corruzione, l’autocrazia, il rifiuto della democrazia e l’abuso dei diritti umani hanno spinto le persone alla rivolta. Una volta avviate le rivolte, la loro violenta repressione ha alimentato la polarizzazione interna e la guerra civile, esacerbando la corruzione e le difficoltà economiche. Finché tali regimi costituiranno la spina dorsale dell’ordine regionale, non credo che si raggiungerà una reale e duratura stabilità.

Intervista a cura della Redazione di Europa Atlantica

Immagine tratta da Pixabay


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