I cambiamenti climatici nel Sahel e le conseguenze su economia, società e sicurezza

Posto di fronte a sfide enormi come la povertà, la pressione demografica e le violenze di natura jihadista, il SAHEL deve confrontarsi anche con i cambiamenti climatici. Il parere di Davide Silvestri

Piogge torrenziali, siccità, terre deteriorate: le conseguenze legate al clima sono già visibili in questa regione dove le temperature aumentano una volta e mezzo più velocemente che nel resto del mondo.

Dagli anni ‘70 fino alla fine del ventesimo secolo, questa regione, che si estende da est a ovest del continente africano – giusto sotto il Sahara -, ha sofferto di siccità come nessun altro posto nel pianeta. Poi, da allora, e cioè verso la fine degli anni ‘90, abbiamo osservato una ripresa delle piogge e un certo “rinverdimento” delle zone desertiche. Ma la comunità scientifica mette in guardia contro facili affermazioni come “ritorno alla normalità”. I dati che provengono dall’osservatorio meteorologico Amma-Catch, che copre la regione dell’Africa dell’Ovest, ci dicono che piove, in media sull’anno, più adesso che trent’anni fa, ma, allo stesso tempo, si verificano, in misura crescente, precipitazioni estreme. I diluvi sono più violenti e le siccità, quando subentrano, sono più severe.

Questi fenomeni estremi, uniti al sovra-sfruttamento dei terreni (taglio della sterpaglia per uso domestico, messa in coltura…) hanno modificato l’ecosistema e aumentato il drenaggio del suolo divenuto incapace d’assorbire l’acqua. Risultato: le catastrofi aumentano, come dimostrato dalle inondazioni eccezionali del fiume Niger che nel 2012 ha fatto decine di morti e causato lo sfollamento di diverse centinaia di migliaia di persone. Lo stesso scenario si è ripetuto, qualche mese fa, a Bamako (Mali), Diffa (Niger) o Bangui (Repubblica Centrafricana), con conseguenze drammatiche per la popolazione. Altri effetti del riscaldamento sono l’erosione costiera, aumentata di due metri in Senegal e Djibouti fino ad arrivare ai valori incredibili di trenta metri nel Golfo di Guinea, secondo un rapporto allarmante dei 17 paesi saheliani nel febbraio dell’anno scorso.

Nel Sahel, due abitanti su tre vivono di agricoltura e allevamento sebbene la maggior parte delle terre coltivate sia sprovvista di un sistema d’irrigazione. Il gruppo d’esperti intergovernativo sull’evoluzione del clima (GIEC) prevede che la resa dei terreni agricoli in certe zone del SAHEL possa diminuire del 20% ogni decennio fino alla fine del 21° secolo. Ma già adesso ci troviamo in uno stato di cronicità. Fra giugno e agosto 2019, secondo la FAO, durante il difficile periodo di congiunzione fra la stagione secca e la stagione delle piogge, in Africa occidentale, circa 9,7 milioni di persone si trovavano in grave stato di insicurezza alimentare.

Oltre alle inondazioni che obbligano gli interessati a fuggire le loro abitazioni, le siccità prolungate e ripetute hanno provocato un esodo dalle zone rurali, anche se il numero dei ‘cd’ migranti climatici è difficile da stimare. In Niger, ad esempio, migliaia di allevatori che hanno visto i loro allevamenti decimati dalle carestie, hanno abbandonato la campagna per accasarsi in città. Queste, in breve, alcune delle conseguenze sociali dei mutamenti climatici.

Sappiamo anche che, soprattutto recentemente, tutto il Sahel è testimone di una recrudescenza dei fenomeni terroristici. A questo proposito il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, si è dichiarato pessimista di fronte al cocktail esplosivo che “alimenta gli estremismi violenti” come povertà, cattiva amministrazione, cambiamenti climatici e pressione demografica. La popolazione dei sei paesi francofoni si sarà moltiplicata per sei da qui al 2100 per raggiungere, secondo la proiezione ONU, la ragguardevole cifra di 540 milioni. Sempre Guterres afferma: “la rarefazione delle risorse naturali esacerba le tensioni”, citando gli scontri avvenuti fra agricoltori e allevatori della Nigeria, che hanno provocato centinaia di morti nel 2018.

Ma è corretto, dal punto di vista scientifico, fare un parallelo fra siccità e terrorismo? I gruppi terroristici si sono formati nel SAHEL anche a causa dei cambiamenti climatici?

Durante il quarto di secolo denominato “La Grande Siccità” (1968-1993), non c’era presenza di movimenti jihadisti, né  intorno al lago Chad, né nel resto della sub-regione. Solo movimenti secolari e nazionalisti sviluppatisi fra le minoranze etniche, essenzialmente Tuareg, che cercavano di conquistare l’autonomia attraverso sortite violente contro le forze governative; una disputa prettamente politica senza implicazioni religiose. Anche nel periodo più duro, gli anni con assenza quasi totale di precipitazioni (72-73 e 83-85), i movimenti jihadisti dell’Afghanistan o del Medio Oriente o del continente indiano non hanno avuto alcuna influenza nella regione del Sahel. I primi movimenti jihadisti autoctoni emergeranno ben più tardi, verso la fine degli anni 2000 e all’inizio degli anni 2010, quando, si constata, i regimi pluviometrici avevano già recuperato le medie, in termini di precipitazioni, del secolo passato già da un decennio. Allo stesso modo, sembrerebbe che prima dell’insorgenza dei movimenti jihadisti, le acque del lago Tchad avessero smesso di decrescere e, anzi, avevano riguadagnato il volume medio annuale dei tempi precedenti la Grande Siccità.

Parrebbe quindi che non ci sia un collegamento diretto fra i grandi periodi di siccità e la nascita dei movimenti jihadisti nel Sahel.

Ad ogni modo, l’assenza di una relazione causale non vuol dire che non ci sia un collegamento indiretto – sul lungo periodo – o nessun legame del tutto fra un episodio molto circoscritto ma severo di siccità e il reclutamento puntuale, ma non trascurabile ai fini statistici, di abitanti saheliani per conto dei movimenti islamici estremisti. La Grande Siccità ha contribuito in maniera importante agli stravolgimenti di grandi agro-ecosistemi e a modificare le varie resilienze delle popolazioni interessate, soprattutto quelle delle zone rurali settentrionali totalmente abbandonate dalle istituzioni. Queste sono, oggi, fra le persone più povere al mondo, e nell’insieme, particolarmente vulnerabili dal punto di vista alimentare e facilmente reclutabili alle cause più disparate. Questi interrogativi su certe dinamiche puntuali – piuttosto che sulla nascita dei movimenti jihadisti – sono dunque senza una risposta scientifica, al momento, e dovranno essere oggetto di studi per gli anni a venire.

Il problema dei cambiamenti climatici dovrebbe contribuire ulteriormente alla degradazione ambientale della regione nei prossimi decenni. Questo sarebbe determinato da una serie di fattori: l’aumento delle temperature e dei fenomeni climatici estremi, la fortissima crescita demografica regionale, i conflitti di potere interetnici e la lotta per accaparrarsi le scarse risorse naturali. È importante notare altresì che le dinamiche a lungo termine della degradazione ambientale sembrano, al giorno d’oggi, più legate agli effetti ricorrenti delle piogge torrenziali e delle inondazioni improvvise, che erodono il suolo, piuttosto che agli effetti delle siccità. E questi rischi attuali legati alle precipitazioni improvvise che erodono il suolo e hanno un effetto distruttore, potrebbero costituire – se ci fossero infrastrutture adatte – una formidabile risorsa affinché il Sahel torni ad essere una regione autosufficiente dal punto di vista alimentare. La mancanza di infrastrutture e di servizi pubblici, e più generalmente il deficit di una buona governance e la corruzione, l’incapacità delle popolazioni a farsi sentire dalle istituzioni e viceversa, ancora più grave, l’incapacità delle istituzioni ad essere vicine alle popolazioni più isolate, sono probabilmente fattori chiave che hanno favorito l’insorgenza del terrorismo nella regione.

È importante, a questo proposito, osservare come dei paesi ben più aridi ma con servizi e infrastrutture assai più avanzate, come la Giordania o l’Oman, sono molto meno destabilizzati dalle dinamiche jihadiste, e questo nonostante la loro non fortunata posizione geografica: stretto fra Siria e Iraq il primo e a fianco dello Yemen in guerra il secondo.

In maniera opposta, dei paesi con risorse idrogeologiche più importanti che non quelle dei paesi saheliani, come l’Uganda o il Pakistan, sono anch’essi regolarmente vittime di attacchi terroristici. Questi raffronti permettono di comprendere come le risorse idrogeologiche non giochino in realtà un ruolo fondamentale per la nascita o la diffusione di movimenti terroristici nazionali e permettono di comprendere altrettanto come la minima capacità di un paese nel rispondere ai bisogni della popolazione in termini di servizi e infrastrutture (gestione dell’acqua, ma anche sicurezza, educazione, energia, sanità, etc.) influiscano molto di più nel rendere la popolazione meno vulnerabile sia dal punto di vista della capacità di reclutamento che sul nocumento delle organizzazioni stesse.

In profondità il sottosuolo del Sahel è ricchissimo d’acqua, ma si parte da un’idea sbagliata se si decidesse d’investire enormi risorse di denaro per prelevarla per poter avere come contropartita immediata l’effetto della scomparsa totale del terrorismo, perché come abbiamo visto non è valida l’equazione presenza d’acqua uguale ad assenza di terrorismo.

Sarebbe forse molto più utile cercare di aiutare questi paesi ad ottimizzare e sfruttare le violente precipitazioni per raccogliere e conservare l’acqua e nel contempo mettere in atto misure che prevengano inondazioni con conseguenti grandi distruzioni e perdite di vite umane come il rinforzo degli argini, la pulizia dei letti fluviali, sistemi efficaci di allerta con sonde a monte, stazioni di pompaggio alimentate a energia solare, etc.

È urgente che misure politiche siano messe in atto per attenuare i cambiamenti climatici. In assenza di intervento le conseguenze potrebbero essere drammatiche. E l’Europa, e con essa l’Occidente, deve fornire aiuti essenziali, ma studiati e mirati.

Davide Silvestri, dottore di ricerca in Geopolitica e Geopolitica Economica, è funzionario UE in Border Management nelle missioni EEAS

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