L’Ue alla prova della sicurezza energetica e climatica

Sicurezza energetica e climatica restano temi fondamentali per il futuro dell’Europa. Ma saranno decisivi anche nel confronto esterno all’Unione con i principali player globali

La sicurezza energetica e quella climatica sono essenziali per la stabilità politica, economica e sociale di qualsiasi regione: la prima garantisce un approvvigionamento energetico costante e accessibile a tutti; la seconda assicura la sostenibilità della crescita economica, la prevenzione e la gestione degli impatti del riscaldamento globale. Il discorso vale anche (e a maggior ragione) per l’Unione Europea, considerando la sua storica dipendenza da approvvigionamenti energetici esterni e la vulnerabilità della regione Mediterranea in cui si trova, esposta a impatti del global warming maggiori rispetto al trend mondiale (+25%). Sullo sfondo, dinamiche energetiche che si muovono rapidamente, con risorse (e aree del mondo) che diventano progressivamente più strategiche di altre, trasformando così anche i concetti stessi di sicurezza energetica e climatica, cui l’UE deve farsi trovare pronta.

La risposta Europea: l’Energy Union

La Commissione Juncker ha senza dubbio fatto passi avanti, raggiungendo risultati soddisfacenti (ma insufficienti) a soli cinque anni dal lancio della sua strategia per l’integrazione delle politiche energetiche e climatiche, l’Energy Union. Composta da cinque pilastri – sicurezza energetica, mercato dell’energia, efficienza, decarbonizzazione, ricerca & innovazione – si è data un compito non facile (le materie sono di competenza tradizionalmente domestica) ma certo non rinviabile.

Proprio dalla necessità di sicurezza energetica scaturisce la strategia stessa. Fortemente sponsorizzata dal polacco Presidente del Consiglio Tusk, l’Energy Union nasce come risposta alle tensioni tra Russia, Ucraina e Ue del 2014 (e quindi al potenziale impatto sull’approvvigionamento di gas russo da cui l’Ue è dipendente, come già accaduto nel 2006 e nel 2009). Da una parte la Commissione ha certamente avuto un impatto sulla struttura dell’approvvigionamento energetico e sulla dimensione esterna europea. Dall’Africa settentrionale (i.e. il lancio dell’High Energy Dialogue con l’Algeria) fino ad est, con la mediazione tra Ucraina e Russia e la ricerca di nuovi supplier nella zona del Mediterraneo Orientale, quest’ultima però ancora turbata dai conflitti tra Cipro e Turchia e tra Israele e Libano. Dall’altra, ha spesso fallito nel tentativo di “parlare con una sola voce” e nel compattare gli Stati membri su questioni rilevanti per la sicurezza energetica dell’intera Unione. In effetti, pochi dossier di politica energetica hanno tenuto banco come il raddoppio del gasdotto Nord Stream: anche se Russia e Germania ne hanno ripetutamente sottolineato il carattere puramente commerciale, le reazioni a livello internazionale suggeriscono altro. Oltre all’Ucraina che rischia di vedere l’equivalente del suo budget per la difesa saltare a causa delle mancate tariffe di transito, lo sviluppo dell’infrastruttura, cui la Commissione si è chiaramente opposta, ha inasprito le tensioni tra Stati Membri (Germania e Polonia in primis) e indebolito gli sforzi di Bruxelles nel ridurre la dipendenza energetica da Mosca. Dall’altra parte dell’Atlantico gli Stati Uniti – interessati ad esportare GNL in Europa – non sono certo stati a guardare, creando un nuovo asse con alcuni Stati Membri (Polonia in primis) e minacciando sanzioni a NS2.

Strumentale alla sicurezza energetica, l’azione della Commissione nella dimensione del mercato dell’energia è stata meno problematica. Nonostante si siano dovuti affrontare alcuni vincoli politici e limiti di budget, l’obiettivo d’interconnessione del 10% entro il 2020 è sulla buona strada ed è stato aggiornato al 15% entro il 2030. I progetti d’interesse comune “PCIs” si sono rivelati un mezzo utile, così come anche il fondo Connecting Europe Facility (Cef), mentre mercati energetici storicamente isolati (Penisola Iberica, Baltici), hanno fatto passi avanti importanti.

Insieme alla sicurezza energetica, la decarbonizzazione è stato l’altro pilastro su cui si è insistito maggiormente. La definizione di target al 2020 e al 2030 su rinnovabili ed emissioni nei vari settori hanno rappresentato un passo importante, nonostante il loro successo dipenda in parte da slanci volontari dei paesi, certamente non scontati. Sulla carta, la Commissione ha portato a casa l’ambizioso Clean Energy Package, incluse le nuove regole di governance energetica che impegnano gli Stati a redigere piani nazionali decennali (2021-2030) dettagliando mezzi e scadenziari per fare i compiti a casa su tutte le dimensioni dell’Energy Union. Dalle bozze dei piani si notano stati dell’Europa centrale e orientale che danno maggiore enfasi allo sfruttamento delle inquinanti risorse energetiche nazionali (spesso carbone o lignite) e molti stati altri che pianificano livelli insufficienti per la penetrazione delle rinnovabili. L’ambizione europea non si rifletterebbe quindi sufficientemente nei singoli piani, ma gli stati hanno ancora qualche mese per rivederli alla luce delle considerazioni della Commissione.

La dimensione della ricerca e l’innovazione, chiave per portare sul mercato le tecnologie pulite necessarie alla decarbonizzazione, è rimasta indietro nonostante quadri comprensivi, fondi a supporto dell’innovazione e la ricerca (H2020), strumenti di supporto per gli investimenti e il lancio di iniziative molto interessanti (European Battery Alliance).

Infine l’efficienza, chiave per raggiungere sia gli obiettivi di sicurezza energetica che climatica (l’energia più a basso costo e sostenibile è, ça va sans dire, quella che non utilizziamo proprio!), i passi compiuti sono insufficienti. Nonostante la Commissione l’abbia riconosciuta come guida per la pianificazione di qualsiasi politica energetica e climatica attraverso il principio “Efficiency first”, la legislazione comunitaria in materia ha giocato al ribasso.

Quale futuro?

I primi segnali sono positivi. Ursula Von der Leyen sembra voler spingere con forza l’Ue sulla strada della neutralità climatica al 2050 e ha da subito chiarito di voler accelerare sulle politiche green, dimostrando ancora una volta che si tratta un’opportunità tecnicamente possibile, economicamente preferibile e politicamente attraente. Le elezioni europee, d’altronde, le hanno dato un bel segnale. Se in Italia l’onda verde non è arrivata, i verdi hanno comunque ricevuto il secondo maggior numero di voti in Germania, il terzo in Francia, il quarto nel Regno Unito, dove hanno ricevuto più voti dei Tories.

Tempo di auspici quindi:

– Sul fronte interno: potenziamo il percorso avviato con l’Energy Union e acceleriamo il mercato interno dell’energia. Un mercato integrato a livello Eu si traduce infatti in chiari vantaggi: costi più bassi per i consumatori, integrazione in rete di fonti più pulite, introduzione sul mercato di tecnologie più innovative, approvvigionamenti più diversificati; in breve: energia più sicura e sostenibile. I rischi in ballo con Brexit su sicurezza energetica e decarbonizzazione rendono evidente l’alta posta in gioco.

Sul fronte esterno: (a) promuoviamo una governance globale della transizione energetica e (b) rafforziamo la nostra diplomazia in materia.

(a) La transizione energetica modifica il concetto stesso di sicurezza energetica e climatica, portando con sé dinamiche geopolitiche complesse e mutevoli rapporti di forza tra stati e regioni. La competitività e sicurezza energetica dell’Ue dipenderanno quindi progressivamente dal controllo su produzione e innovazione di tecnologie pulite. Se da una parte molte potenze europee si muovono con una narrativa nazionalista e sovranista anche su questo piano, il mantenimento di un ordine energetico e climatico richiede di unire le forze. L’Ue può apparire in questa fase debole per diventarne promotrice a livello mondiale, ma Washington e Pechino sembrano ancora meno pronti di noi per questo ruolo, e qualcuno deve pur farlo.

(b) In secondo luogo è evidente che la nostra sicurezza climatica non dipende solo da noi, che siamo responsabili “solo” del 10% delle emissioni globali di Ghg, un importo limitato rispetto alla Cina (27%) o agli Stati Uniti (15%). Promuovere i nostri sforzi al di fuori dei confini europei è cruciale, soprattutto perché va trovata una soluzione comune a una domanda energetica che scoppierà in soli due decenni a livello globale (+30%).

Margherita Bianchi è ricercatrice junior presso l’Istituto Affari Internazionali

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