Brexit e catene globali del valore

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A poche settimane dal 29 Marzo, data fissata per il Leave, la Brexit rappresenta un vero incubo geopolitico ed un rebus per molti analisti, con le imprese italiane ed europee destinate a fronteggiare sfide ascrivibili al cambiamento delle regole di accesso al mercato britannico.

Un No-Deal da parte del Parlamento britannico aumenterebbe l’incertezza dei mercati, con conseguenze immediate sulla fiducia dei consumatori, sulla sterlina e sugli scambi commerciali. Non è esclusa, infatti,  la possibilità di un innalzamento delle barriere commerciali, accentuando la preoccupazione degli esperti anche alla luce dell’alto grado di integrazione produttiva raggiunta dalle due zone attraverso le catene globali del valore, definite come un insieme di network interorganizzativi raggruppati intorno ad uno progetto e che connettono, gli uni agli altri e nell’economia globale, imprese e Stati.

In caso di mancato accordo tra Londra e Bruxelles, gli scambi commerciali seguirebbero le regole del World Trade Organization (WTO), ed in particolare lo schema tariffario noto come clausola della “nazione più favorita” (most favoured nation), provocando, così, una flessione del 25% delle importazioni britanniche dall’UE, dovute –direttamente e indirettamente – dalla imposizione di una serie di barriere tariffarie e non sui beni esportati verso il mercato britannico.

Un recente studio condotto dalla Banca di Italia, evidenzia una elevata integrazione produttiva degli scambi di beni tra la UE-27 e il Regno Unito (maggiore del 40%[1]) che, con l’introduzione di nuovi dazi, amplificherebbe gli effetti negativi su imprese e consumatori poiché si cumulerebbero tutte le volte che i beni intermedi attraversano la frontiera.

I settori maggiormente esposti al rischio risultano essere quelli maggiormente integrati nelle catene del valore con l’Unione Europa, quindi il settore chimico e quello automotive, con quest’ultimo che in Regno Unito, dopo anni di crescita, lo scorso anno ha registrato un calo di produzione dovuta sia all’incertezza legata a Brexit sia alla flessione delle vendite interne in seguito al rallentamento dell’economia. Le imprese manifatturiere britanniche, che per l’occasione si sono preparate accumulando scorte al ritmo più elevato registrato in un Paese del G7 dai primi anni del 1990, subiranno un incremento dei costi totali – per gli input di produzione interna e importati – in media dello 0,9%, mentre quello delle imprese dell’UE di 0,1%. Tale risultato è giustificato dal fatto che circa un quinto degli input del settore manifatturiero provengono dall’Unione Europea, mentre solo l’1,5% degli input europei è importato dal Regno Unito. Per l’Italia gli effetti stimati sono irrisori e trascurabili.

TABELLA 1: Effetto dei dazi sui costi totali di produzione ripartiti per Paese – WTO-IDB database and ITC Market Access Map
for tariffs, and Comtrade and WIOD for trade.

L’Hard Brexit avrà ripercussioni soprattutto in Germania, dove la cancelliera Merkel sta già pensando alla ridefinizione dei trattati bilaterali con Londra, di modo che siano vantaggiosi per gli interessi economici tedeschi. La Germania, in particolare, è attualmente il maggior partner commerciale del Regno Unito e per questo pagherebbe il prezzo più alto con un taglio di oltre 100 mila lavoratori, specie nel settore automobilistico e manifatturiero.

Gli scambi commerciali “indiretti” tra i Paesi UE e Regno Unito sono pari al 20% del totale, con la conseguenza che i produttori italiani che esportano verso la Germania beni destinati al mercato britannico sarebbero in ogni caso penalizzati, ciò per effetto delle barriere tariffarie introdotte nelle fasi più a valle di produzione e commercializzazione.

TABELLA 2: Dazi diretti e indiretti sulle importazioni della UE dal Regno Unito – Calculations based on WTO-IDB database and
ITC Market Access Map for tariffs, and Comtrade and WIOD for trade.

TABELLA 3: Dazi diretti e indiretti sulle importazioni del Regno Unito dalla UE – Calculations based on WTO-IDB database and
ITC Market Access Map for tariffs, and Comtrade and WIOD for trade.

Come riportato nella tabella 2 e 3, i costi tariffari diretti per il Regno Unito sarebbero maggiori rispetto l’UE poiché le importazioni britanniche verso l’Unione si concentrano nei settori  che sarebbero soggetti a dazi particolarmente elevati (alimentare e automobilistico in primis). Viceversa, nel caso dei costi tariffari indiretti, il peso maggiore sarà subito dagli importatori europei rispetto a quelli britannici a causa dell’utilizzo maggiore di impianti produttivi localizzati nel Regno Unito.

Infatti, non poche aziende multinazionali hanno scelto l’UK come base logistica o hanno delle attività sul territorio britannico e sono parte di una catena del valore distribuite su base europea e potrebbero, nel lungo periodo, dover rivedere alcune scelte organizzative per adattarsi allo scenario configurato.

Questa ipotesi potrebbe generare anche delle opportunità per quei Paesi UE capaci di attrarre le imprese multinazionali che abbandonano l’economia britannica, mettendo in moto la riallocazione degli investimenti diretti all’estero (IDE).

Infine, un’analisi del Centro Studi Confindustria ha stimato che l’effetto Brexit per l’Italia, una volta superati i numerosi limiti di ordine strutturale e istituzionale, potrebbe determinare un aumento IDE pari a 26 miliardi di euro (0,4% del PIL).


Domenico Bevere è dottore magistrale in Economia Aziendale. Ha conseguito: presso l’Università degli Studi di Firenze il Master in Intelligence e Sicurezza Nazionale con una tesi avente ad oggetto il Finanziamento al Terrorismo e, presso la LUISS Guido Carli, un Executive Master  in Affari Strategici con tesi sulle Catene Globali del Valore ed Interesse Economico Nazionale.


[1] http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/qef/2018-0468/QEF_468_18.pdf

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