La politica estera che servirebbe ora al Paese. Parla Andrea Manciulli

Conversazione tra Andrea Manciulli, Presidente di Europa Atlantica, e Michele Pierri pubblicata su Formiche.net

Il prossimo governo “ha il dovere, nonché l’occasione, di riaffermare l’importante asse con gli Stati Uniti e di giocare un ruolo da protagonista nella difesa europea, da strutturare in collaborazione con la Nato”.

Ma per farlo, avverte Andrea Manciulli, già deputato del Pd e presidente della Delegazione italiana presso l’Assemblea parlamentare della Nato,  oggi presidente di Europa Atlantica e senior fellow dell’Ispi, “servirà una politica estera senza sbandamenti, capace di cogliere e affrontare in modo diverso la portata della sfida epocale dei rapporti con la Cina e che abbia come perno un rilancio dei valori occidentali”.

Manciulli, si apre una nuova fase politica che vede il ritorno del Pd al governo. Crede che con i Dem nell’esecutivo la nostra politica estera subirà variazioni rispetto a quella del cosiddetto Conte 1?

Me lo auguro. Il prossimo governo ha il dovere, nonché l’occasione, di riaffermare l’importante asse con gli Stati Uniti e di giocare un ruolo da protagonista nella difesa europea, da strutturare in collaborazione con la Nato.

Perché ritiene importante la difesa europea?

Perché è un progetto concreto, in parte già avviato, che può dare coesione puntando su aspetti che ci accomunano e su opportunità che ci riguardano tutti. Dopo aver creato un mercato unico, ora dobbiamo imparare a lavorare assieme. Ed è un dato di fatto che nessuno dei Paesi europei, presi singolarmente, abbia le risorse per effettuare investimenti in alcuni settori strategici o per difendere alcuni asset portanti delle nostre economie. L’Italia, che annovera player importanti e competenze di primo piano, ha a mio avviso tutto l’interesse a sedere a questi tavoli, senza lasciare che a dominarli sia l’asse franco-tedesco. Ma per farlo non deve urlare, come accaduto sinora, ma portare idee. Il tutto da compiere non in contrapposizione agli Stati Uniti, ma assieme a Washington, attraverso un maggiore coordinamento in sede Nato.

In che modo la difesa europea può conciliarsi con il ruolo degli Stati Uniti?

Non credo che le due cose siano incompatibili, ma per non esserelo devono marciare di pari passo. Per questo Washington ci richiama da tempo alle nostre responsabilità, chiedendoci un maggiore impegno che dovrebbe sostanziarsi nel raggiungimento di un investimento del 2% del Pil in spese militari. Senza dimenticare un punto cruciale: l’alleanza con gli Usa non è solo un tema di difesa. Semmai questa viene dopo, una volta assunto che noi ci difendiamo reciprocamente perché condividiamo obiettivi e valori. Questo l’Italia può e deve continuare a farlo, non solo investendo di più, ma anche mantenendo alcuni punti fermi, che negli ultimi tempi sembrano essere mancati.

A quali punti fa riferimento?

C’è bisogno di tornare a una politica estera senza sbandamenti, che non rinunci alle specificità di quella italiana – capace di interloquire con pezzi importanti del pianeta in modo costruttivo – ma inserendosi in un chiaro rapporto con l’Occidente, del quale, fino a prova contraria, siamo parte integrante e fondamentale. La Penisola è sempre stato un elemento dialogante con realtà come il Medio Oriente e l’Asia. Per averne conferma basta guardare alla Storia. I mercanti italiani erano nel Medioevo gli unici ad avere avamposti in quelle regioni del mondo, così come sono stati frequentatori, per i loro affari, della Via della Seta, che oggi viene riproposta dalla leadership cinese. Ma tutto ciò non deve essere in contrapposizione con la nostra vocazione occidentale. Anzi, l’Occidente ha bisogno di ridefinire questo spazio e noi possiamo svolgere la parte dei protagonisti in questo processo.

Che cosa dovrebbe fare l’Italia?

C’è bisogno innanzitutto, ma non solo, di una politica estera capace di cogliere e affrontare in modo diverso la portata della sfida epocale dei rapporti con la Cina. La nuova Via della Seta rappresenta un’opportunità, ma non va vista – come si è superficialmente detto nel nostro Paese – solo come un progetto economico. Il fatto che la ledership cinese abbia chiamato questo progetto Silk Road è innanzitutto il segnale più evidente che Pechino intende riaffermare un suo ruolo di primo piano anche nel Vecchio Continente.

Questo che problemi pone dal suo punto di vista?

Il tema è fare in modo che alcune conquiste occidentali che rendono le nostre democrazie tali non vengano ridimensionate da questo rapporto. Finora l’unica risposta in questo senso è giunta da chi invoca chiusure e sovranismo, auspicando che la Silk Road scompaia. Ma sarebbe sbagliato, controproducente e antistorico, perché viviamo in un mondo interconnesso e globalizzato. Io credo piuttosto che abbiamo davanti a noi una terza via, che quella di riaffermare i nostri valori di inclusione e libertà in un mondo in cui anche l’economia progredisce. Sta a noi rendere la nuova Via della Seta un’occasione e non un’insidia. Ma per farlo dobbiamo affrontare con decisione una sfida enorme: riaffermare la nostra identità in Italia e in Europa.

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