L’offensiva cinese nel sistema dell’informazione globale. Una sfida di sicurezza per la NATO

In ambito atlantico cresce la consapevolezza di come la Cina possa rappresentare una sfida per la sicurezza dell’Alleanza. L’analisi di Federica Santoro

Nell’ambito del Forum 2020 in corso a Brussel e promosso dal German Marshall Fund, esponenti di spicco della sicurezza transatlantica si stanno confrontando con le sfide poste dalla Pandemia da Covid-19 e sul ruolo presente e futuro della NATO, nel tentativo di definire le azioni più adeguate ad affrontare le minacce ibride del nuovo scenario post-Covid, il cosiddetto “new normal”, mettendo a fuoco le possibili conseguenze di fenomeni emergenti come l’uso di armi biotecnologiche, dalle minacce cibernetiche alle sfide imposte dall’ascesa di nuove potenze come la Cina, in ambito di disinformazione e risposta strategica[1]

Fin dal Vertice Nato di Londra dello scorso dicembre, era emersa una nuova direzione dell’Alleanza nel considerare Pechino come una nuova sfida, messaggio ribadito dal Segretario generale Jens Stoltenberg anche in occasione del recente lancio di NATO2030. “La NATO vede la Cina come un attore che “sta cambiando radicalmente l’equilibrio globale del potere”(..) ha dichiarato Stoltenberg: “Pechino, ha già il secondo budget al mondo per la Difesa e sta investendo molto nelle moderne capacità militari come in apparati missilistici che hanno la capacità di raggiungere i paesi alleati; investe in infrastrutture critiche, si sta avvicinando agli Stati Uniti nel cyberspazio, è già in Artico dove lavora assieme alla Russia e in Africa, dove cerca di posizionarsi geopoliticamente. (…) Tutto ciò ha conseguenze di sicurezza a cui è necessario essere in grado di dare una risposta efficace” [2].

Con lo scoppio dell’epidemia da Covid-19, sembrerebbe essere emersa con evidenza una nuova tendenza di Pechino a cercare di monopolizzare l’informazione, facendo un uso massiccio delle nuove tecnologie come i social network anche per diffondere una immagine distorta delle Istituzioni europee nella gestione della crisi.

Attraverso una comunicazione continua e una presenza considerevole sui media, le dichiarazioni rilasciate dai portavoce delle ambasciate cinesi durante la pandemia da Covid-19, avrebbero alimentato a livello internazionale un dibattito centrato sul tentativo di Pechino di mettere in ombra gli aiuti ricevuti dall’Unione Europea e cercando di affermare il proprio come modello di gestione delle crisi.

Lo scorso 10 giugno, in una Comunicazione Congiunta, la Commissione Europea menziona la Cina per la prima volta – accanto alla Russia, come attore di disinformazione online collegata al coronavirus, con lo scopo di minare le democrazie occidentali, seminare divisioni interne e proiettare una visione distorta della risposta della Cina alla pandemia globale[3]. Di stesso avviso, la divisione per le comunicazioni strategiche del Centro Nato in Lettonia. Secondo quanto affermato recentemente dalla Task Force, Russia e Cina condividerebbero, seppur con mezzi diversi, uno stesso scopo nel dividere e indebolire l’alleanza misurando la propria forza su un piano comunicativo[4].

Una campagna rinominata “mask diplomacy”, che ha interessato anche l’Italia[5], attraverso un’intensa attività di pubblicità, “lanciata a mezzo dei suoi canali ufficiali, dalle Ambasciate cinesi sui canali ufficiali come siti web, social media o media di Stato, per celebrare le donazioni cinesi di migliaia di mascherine chirurgiche”.

Che si tratti di una strategia usata per scopi di influenza o disinformazione, il governo cinese starebbe adottando un approccio deciso per plasmare la narrazione globale sulla Cina e sul modello di sviluppo cinese, attraverso le nuove tecnologie dell’informazione. Nuove fonti come i social networks, per loro funzione, rappresentano il luogo dove l’informazione si plasma dal basso e le nuove stanze virtuali dove si costruisce il consenso politico.

L’utilizzo dei nuovi media da parte di entità statali autoritarie come la Cina pone difatti una sfida sempre più significativa per le democrazie Occidentali, aperte al contraddittorio, se lo consideriamo a tutti gli effetti uno strumento per influenzare l’opinione pubblica di un paese straniero su certi temi.

Lo è specialmente quando i governi democratici si trovano a dover fronteggiare il confronto politico con Pechino, su temi come la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali.

È ciò che abbiamo visto accadere nella sfera pubblica internazionale durante le proteste di Hong Kong. La reazione della comunità internazionale alla repressione violenta delle proteste ha generato tuttavia un’onda mediatica che Pechino non è riuscita a controllare, non potendo operare all’estero la censura. Una crisi su cui per mesi la diplomazia cinese è stata impegnata, attraverso una campagna comunicativa, dai toni spesso aspri, fitta di dichiarazioni e smentita a mezzo stampa, o utilizzando i social network, specialmente Twitter, nel tentativo di “correggere” la percezione delle élite nazionali e delle opinioni pubbliche straniere[6], sostenendo il proprio modello politico oltre confine e riaffermando l’inviolabilità dello “status quo” sull’isola[7]

Una strategia di comunicazione per accrescere la propria influenza

La Cina ha da tempo avviato una strategia per accrescere la propria influenza fuori dai confini nazionali, cercando di costruire un’immagine positiva all’estero, con lo scopo di diffondere la filosofia “win-win” per orientare le opinioni pubbliche di altri Stati ed esercitare il ‘soft power’ derivante da un miracolo economico senza eguali, mostrandosi culturalmente attraente e all’avanguardia nello sviluppo delle tecnologie di nuova generazione.

Fin dal 2003 la “guerra dei media” è stata inserita come parte di una strategia esplicita dell’Esercito di Liberazione Popolare (PLA), con l’obiettivo di indurre i governi stranieri a scegliere una politica più in linea con gli interessi del Partito.

I canali social della CCTV o dell’Agenzia Xinhua, e altri organi di informazione come il China Daily e il Global Times, sono i principali strumenti attraverso i quali la Cina mostra una immagine simbolo. Secondo un documento diffuso da Reporters Without Borders, negli Stati Uniti la Cina starebbe spendendo 10 miliardi di dollari all’anno per “manipolare o modificare” la percezione dell’opinione pubblica americana con lo scopo di convincere la comunità internazionale[8].

La crisi del Covid-19 avrebbe dunque rivelato una tendenza della diplomazia cinese già sperimentata durante altri momenti di confronto internazionale, secondo una precisa strategia per espandere la sua influenza sul flusso globale delle informazioni, impegnata in una comunicazione pubblica sempre più assertiva, dai toni talvolta aggressivi, attraverso i social network o a mezzo stampa[9]. Una comunicazione politica unidirezionale, perpetuata in assenza di un vero contraddittorio.

Una strategia che potrebbe essere considerata come il tentativo del governo cinese di esercitare globalmente il proprio potere, trascinando il confronto strategico, che fino ad oggi si era giocato in termini esclusivamente economici, su un nuovo piano, quello più ibrido dell’informazione.

In una recente relazione del Copasir, citata da Formiche, Cina e Russia sono state accusate di aver avviato una campagna di “infodemic” rivolta all’Italia durante la crisi del Covid, con l’obiettivo di influenzare l’opinione pubblica nazionale e “Utilizzare la crisi e la conseguente visibilità dell’Italia per promuovere l’attività dei propri governi (..) e nella comunità internazionale”[10]. Nella Relazione [11] si cita anche la creazione di falsi profili, creati appositamente per alimentare e condizionare il dibattito così come dell’utilizzo di tecniche di viralizzazione legate ad utenze automatizzate sui social network, dette ‘bot’.

Intanto aumentano le tensioni tra Cina e Stati Uniti dopo i limiti imposti dal Presidente Trump alla presenza dei giornalisti cinesi negli Usa agli inizi di marzo e le ritorsioni di Pechino con l’espulsone di 13 reporter americani[12]. Una misura che il Dipartimento di Homeland Security ha ritenuto indispensabile anche dopo l’arresto di due diplomatici cinesi avvenuta a Norfolk in Virgina[13], lo scorso agosto, accusati di spionaggio – secondo il New York Times – da alcuni alti funzionari dei servizi segreti americani. Sul fronte Europeo, sempre il New York Times, lo scorso agosto, riportava le preoccupazioni delle intelligence di Gran Bretagna, Germania e Francia su presunte ingerenze di agenti stranieri cinesi verso migliaia di utenti sul sito LinkedIn. Secondo l’articolo, attraverso il network gli agenti avrebbero tentato di influenzare politicamente ex membri del governo, contattandoli in qualità di potenziali mediatori, offrendo opportunità di incontri con membri del Partito Comunista cinese[14].

Federica Santoro


[1] https://twitter.com/gmfus/status/1270746081106821123

[2] https://www.nato.int/cps/en/natohq/opinions_176197.htm

[3] https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/ip_20_1006; https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?qid=1591873061977&uri=CELEX:52020JC0008

[4] https://www.facebook.com/watch/live/?v=600915200531851&ref=watch_permalink

[5] https://thediplomat.com/2020/06/chinas-disinformation-campaign-in-italy/

[6] https://thediplomat.com/2019/11/explaining-chinas-assertive-approach-to-the-hong-kong-protests/

[7] https://www.theguardian.com/world/2019/nov/18/china-accuses-britain-of-taking-sides-on-hong-kong-protests

[8] https://www.dw.com/en/how-chinas-new-media-offensive-threatens-democracy-worldwide/a-48063437

[9] https://rsf.org/en/news/chinas-diplomats-must-stop-attacking-media-over-coronavirus-reporting

[10] https://formiche.net/2020/05/russia-cina-propaganda-italia-rapporto-copasir/

[11]https://www.repubblica.it/politica/2020/05/27/news/la_relazione_del_copasir_sulle_fake_news_diffuse_sul_coronavirus-257697429/

[12] https://www.bbc.com/news/world-asia-51938035

[13] https://www.nytimes.com/2019/12/15/world/asia/us-china-spies.html

[14] https://www.nytimes.com/2019/08/27/world/asia/china-linkedin-spies.html


Le opinioni espresse sono personali e potrebbero non necessariamente rappresentare le posizioni di Europa Atlantica

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *