Cosa resta dell’economia libanese

A quattro mesi dal drammatico incidente nel porto di Beirut e nel pieno dell’emergenza sanitaria da Covid, quale è la situazione economica e politica in Libano? Ne parla A. Roberta La Fortezza in questa analisi

Sono passati ormai 4 mesi dal drammatico incidente del porto di Beirut; 4 mesi in cui in Libano continua a mancare un governo dotato di poteri effettivi in un contesto in cui la crisi economico-finanziaria non accenna a rallentare e al contrario sembra ormai aver raggiunto il punto di non ritorno.

Sulla scia, infatti, delle manifestazioni violente registratesi nel Paese nei giorni dopo l’esplosione del 4 agosto, il 10 agosto l’allora governo guidato da Hassan Diab ha annunciato le proprie dimissioni. Soltanto il 31 agosto il Presidente della Repubblica, Michel Aoun, ha affidato l’incarico di formare un nuovo governo al diplomatico Mustapha Adib. Dopo diverse settimane di negoziazioni, il 26 settembre, Adib ha tuttavia annunciato di rinunciare all’incarico in ragione dell’impossibilità di formare una squadra di governo. Soltanto a un mese dalle dimissioni di Adib, il Presidente Aoun ha dato l’incarico di formare il governo all’ex Primo Ministro Saad Hariri. Sebbene quest’ultimo sia indiscutibilmente una delle figure di maggior rilievo all’interno della comunità sunnita, alla quale spetta come da Patto Nazionale del 1943 la carica di Primo Ministro, e per quanto goda di un generale supporto sia all’interno della classe politica libanese sia nel contesto regionale, neanche Hariri è riuscito, fino a questo momento, nel compito di formare un nuovo governo. Ne consegue, dunque, che il Libano è senza un esecutivo avente poteri effettivi da agosto del 2020: sebbene il Paese abbia già sperimentato in passato periodi anche lunghi di vuoto politico, sia a livello governativo sia a livello presidenziale, l’attuale mancanza di un governo desta particolari preoccupazioni in ragione delle enormi difficoltà economiche che il Paese si trova ormai ad affrontare dal 2019, aggravate dall’esplosione del porto di Beirut, dalla gestione della pandemia Covid-19 e dalla stessa crescente instabilità politica.

Alcune fonti riportano perdite nel settore finanziario superiori ai 100 miliardi di dollari, stimando che il Libano avrebbe ora bisogno di un pacchetto di aiuti di almeno 63 miliardi[1], cifra considerevolmente superiore rispetto alle iniziali previsioni di prestito fatte durante i passati negoziati con la comunità internazionale; secondo le stesse fonti, tutte le banche libanesi sarebbero al momento insolventi. La crisi del settore bancario, sebbene mascherata da alcune operazioni di ingegneria finanziaria portate avanti dalla Banque du Liban (BdL) che hanno concesso alle banche profitti di rilievo anche negli ultimi anni, è iniziata ben prima del 2019. Proprio la gestione finanziaria del comparto bancario da parte della BdL, la quale ha rimborsato alla banche quasi 16 miliardi di dollari tra il 2016 e il 2018, ha provocato il drenaggio di buona parte delle sue riserve monetarie verso gli istituti bancari[2]. Tanto che ad agosto 2020 il governatore della Banca centrale libanese, Riad Salamé, ha annunciato la possibile imminente fine delle sovvenzioni dei prodotti essenziali a causa della consistente diminuzione delle riserve monetarie della Banca centrale. Per quanto concerne l’economia reale, poi, le stime degli istituti internazionali prevendono un tracollo del PIL pari almeno al 24% per il 2020. I prezzi dei prodotti alimentari avevano già registrato un aumento del 49,6% a maggio del 2020; secondo i dati più recenti, in generale, i prezzi al consumo sono aumentati di oltre il 66% dell’inizio del 2020 e del 131% rispetto al settembre 2019[3]. Secondo le stime effettuate a giugno dalla Beirut Merchants Association è considerevolmente aumentato il rischio di fallimento per le imprese libanesi; si registra, inoltre, un drammatico calo del potere d’acquisto dei libanesi (provocato anche dall’iperinflazione) e un aumento dei tassi di povertà (almeno il 55% della popolazione vivrebbe attualmente al di sotto della soglia di povertà) soprattutto in ragione dell’aumento del tasso di disoccupazione[4]. Secondo l’ultimo studio statistico realizzato da Infoproresearch e pubblicato a giugno 2020, su un campione rappresentativo di 500 aziende in Libano il numero totale di disoccupati avrebbe raggiunto i 550.000, ovvero il 30% della popolazione attiva, stimata in 1.8 milioni di persone[5]. Secondo i dati più recenti la disoccupazione avrebbe raggiunto il 35% a livello nazionale[6]. La crisi dell’economia reale è stata ovviamente aggravata anche dalle restrizioni introdotte per la gestione della pandemia Covid-19. Inoltre, secondo le più recenti valutazioni, esattamente come si temeva, anche l’impatto della distruzione del porto di Beirut ha determinato enormi conseguenze sull’economia già particolarmente provata del Paese: il numero di container transitati per il porto di Beirut è diminuito del 42,2% tra gennaio e ottobre 2020; il numero di navi si è ridoto del 23,2% nello stesso periodo e la quantità di merci è diminuita del 35,9%, toccando il valore assoluto di 3,684 tonnellate complessive. Le entrate economiche del porto sono state pari a 92,4 milioni di dollari da gennaio a ottobre di quest’anno, con un calo del 44,5% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente[7].

Un eventuale prestito da parte del Fondo Monetario Internazionale (FMI) continua a essere bloccato vista l’impossibilità di giungere a una conclusione dei negoziati tra l’organismo internazionale e il Paese levantino. Di recente, proprio per cercare di rispondere alle richieste della comunità internazionale e degli eventuali finanziatori, il Parlamento libanese, su richiesta della Presidenza della Repubblica, ha chiesto un procedura di audit dei conti per la BdL per poter documentare la situazione finanziaria del Paese e quantificare le perdite della banca centrale. Sia il Parlamento che la Presidenza hanno sottolineato in diverse occasioni l’importanza di questa procedura di controllo, in mancanza della quale, il Libano potrebbe essere considerato un “Paese canaglia” o in fallimento e dunque non riuscire a godere di eventuali prestiti internazionali; il Presidente Aoun ha del resto evidenziato, in diverse occasioni, che tale audit rappresenta un prerequisito richiesto per poter anche solo riprendere i negoziati con l’FMI, ormai sospesi da mesi. Nonostante ciò, tale richiesta di audit ha generato forti dissapori tra il parlamento e la direzione della banca centrale: il governatore della Banque du Liban, Riad Salamé, si è infatti rifiutato di rispondere alla maggior parte delle richieste di informazioni avanzata dalla società di revisione internazionale incaricata della procedura di audit forense, Alvarez & Marsal. Proprio in ragione dell’impossibilità di avere accesso a tutte le informazioni richieste, la società di revisione ha conseguentemente annunciato, il 20 novembre 2020, di rinunciare all’incarico: il governatore della BdL avrebbe, infatti, risposto soltanto alla metà delle richieste inoltrate, facendo appello alla normativa sul segreto bancario.

Il collasso del sistema economico-finanziario libanese fa rima con il collasso del modello economico-finanziario nazionale[8]. Tale modello può essere riassunto in una strategia basata sull’attività finanziaria, bancaria e immobiliare e sulla continua ricerca di capitali stranieri, a scapito delle attività produttive del primo e del secondo settore. Un modello economico che si può riassumere nella nota immagine di un Libano “Svizzera del Medio Oriente”. Questo modello economico è il risultato di una doppia eredità[9]: in primo luogo, al tempo del mandato francese (1920-1943), la potenza mandataria attuò una strategia economica basata sul commercio, sul settore dei servizi e sulle importazioni, con una strategia economica redditizia soltanto a breve termine, soprattutto per un Paese con limitate possibilità di esportazione. Tale approccio economico ha progressivamente favorito, oltre a squilibri crescenti nella bilancia dei pagamenti, una “terziarizzazione” dell’economia libanese, assegnando al settore finanziario la quota preponderante dell’economia nazionale, e conseguentemente favorendo l’emersione a livello sociale di una borghesia finanziaria legata ai grandi clan famigliari. Al raggiungimento dell’indipendenza, tra il 1943 e il 1946, la ricchezza si concentrava nelle mani di queste poche famiglie; con l’avvio dell’era della nuova sovranità nazionale, tali famiglie non condivisero e non misero a sistema all’interno del nascente Stato libanese le ricchezze e i proventi fino a quel momento accumulati. La seconda eredità su cui si basa il modello libanese è quella lasciata da Rafic Hariri, sulle cui orme tutti i governi che si sono succeduti dopo il suo assassinio nel 2005, hanno continuano a sviluppare la strategia economica nazionale. Hariri ha avviato una serie di riforme incentrate su alcuni specifici parametri: privatizzazioni sistematiche, sostegno alla speculazione fondiaria (spinta dalla campagna di ricostruzione di Beirut dopo la guerra civile del 1975-1990), instaurazione della parità fissa della moneta nazionale con il dollaro, apertura dell’economia al capitale internazionale, massiccio indebitamento e finanziamento del debito pubblico da parte delle banche, aumento delle imposte indirette, riduzione delle imposte sul reddito e dei contributi dei datori di lavoro. Tutte queste riforme hanno, da un lato, accentuato alcune delle dinamiche già presenti nella struttura economica libanese fin dall’indipendenza nazionale, quali come detto la centralità della finanza, e dall’altro hanno favorito lo sviluppo di nuove dinamiche distorsive. In particolare, in tale contesto riformatorio la povertà e soprattutto le disuguaglianze sociali sono progressivamente aumentate fino a interessare anche quella che precedentemente era la classe media, privandola gradualmente della propria posizione economica. Quello che è stato considerato subito dopo gli accordi di Ta’if il “miracolo economico libanese”, basato appunto sulla terziarizzazione e sul commercio, è dunque entrato in recessione almeno dalla fine degli anni Novanta. Più recentemente, con la guerra in Siria e con il crollo del prezzo degli idrocarburi sono, da un lato, venute meno alcune delle condizioni che avevano retto l’economia reale libanese fino a quel momento, quali in particolare gli accordi politici bilaterali per il commercio a livello regionale, nonché conseguentemente l’afflusso di capitali; e dall’altro si è inserita una nuova fondamentale variabile distorsiva a livello sociale tramite l’arrivo di migliaia di rifugiati siriani, i quali aggiuntisi alle già presenti comunità di palestinesi, hanno favorito un’accentuazione della disuguaglianza economica e della povertà all’interno soprattutto della fasce già più deboli della popolazione libanese.

È evidente che il sistema economico e finanziario libanese necessiti di una riforma strutturale che possa costruire su basi nuove l’approccio in materia di economia del Paese; tuttavia è altrettanto evidente che tale necessità di riforme strutturali si scontra da un lato con la mancanza fattuale di una struttura produttiva e industriale libanese improntata soprattutto all’esportazione, e dall’altro con un equilibrio del potere basato su intricate relazioni e alleanze tra le tradizionali forze comunitarie e politiche e le oligarchie finanziarie, sistema questo che difficilmente potrà essere sradicato seppur venissero attuati realmente ambiziosi progetti di riforma. Soprattutto a livello economico, il rapporto tra interesse nazionale e interesse personalistico (comunitario e/o famigliare) appare fortemente sbilanciato a favore del secondo. L’ambizioso progetto di riformare profondamente il sistema economico (e politico) libanese si scontra con dei costi personali per i principali attori interni libanesi tali da rendere estremamente difficile l’implementazione di una vera e propria ristrutturazione del sistema economico nazionale. D’altronde, si assiste al paradosso per cui sebbene proprio questo sistema abbia comportato e comporti dinamiche distorsive tali da aver almeno in parte provocato il forte deterioramento della qualità di vita, lamentato dalla stessa popolazione libanese, esso stesso sembra costituire il principale ostacolo ad una totale degenerazione della situazione socio-politica nel Paese. La popolazione pur lamentando le dinamiche di potere che hanno condotto all’attuale crisi, è profondamente integrata in quelle dinamiche confessionali e logiche di potere che sono spesso alla base del malfunzionamento anche delle strutture e delle strategie economiche, nonché più in generale dell’apparato statuale.  

La questione economica, poi si lega indissolubilmente a quella politica: la stessa valutazione di quale strategia riparatrice dal punto di vista economico seguire, comporta infatti una valutazione politica che in Libano si declina in una maniera del tutto peculiare in ragione della particolare composizione confessionale interna libanese nonché del suo posizionamento a livello regionale. Talune forze politiche, tra cui in particolare Hezbollah, sostengono la necessità di aprire in maniera crescente verso economie non denominate in dollari (in particolare verso Pechino) disposte a commerciare e ad avviare progetti infrastrutturali (Pechino, ad esempio, è tra le possibili candidate per la ricostruzione del porto di Beirut) o industriali in Libano; viceversa, altre fazioni politiche, considerano ancora oggi essenziale l’ancoraggio geopolitico con l’Occidente, e in particolare con gli USA, valutando pertanto necessario mantenere quanto più possibile una politica di neutralità del Paese anche in campo economico.

In tale quadro di estrema precarietà economico-finanziaria, la mancanza di un governo e dunque l’impossibilità per il Paese di poter presentare a livello internazionale un interlocutore politico dotato di effettivi poteri, contribuisce ad accrescere le difficoltà soprattutto in sede di negoziati per i prestiti internazionalmente garantiti. Del resto la situazione economico-finanziaria appare talmente compromessa che, anche ammessa la formazione celere di un nuovo governo e l’avvio di un piano di risanamento supportato da partner internazionali, gli aiuti necessari potrebbero non essere più sufficienti e risanare l’economia libanese.

A. Roberta La Fortezza


[1] https://libnanews.com/le-parlement-approuve-laudit-juricomptable-des-comptes-de-la-banque-du-liban/

[2] https://libnanews.com/nouvelle-defaite-judiciaire-des-banques-libanaises/

[3] https://libnanews.com/liban-crise-les-prix-en-hausse-de-66-2-depuis-le-debut-de-lannee/

[4] https://theconversation.com/le-liban-peut-il-sortir-de-la-crise-142970

[5] http://www.businessnews.com.lb/cms/Story/StoryDetails/8681/550,000-unemployed-InfoPro-survey-shows

[6] https://www.monde-diplomatique.fr/mav/174/BELKAID/62508

[7] http://french.xinhuanet.com/2020-11/26/c_139542943.htm

[8] https://theconversation.com/le-liban-peut-il-sortir-de-la-crise-142970

[9] https://www.monde-diplomatique.fr/mav/174/BELKAID/62508

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