Medio Oriente e Nord Africa in trasformazione, a dieci anni dalle Primavere arabe

A dieci anni dall’inizio delle Primavere arabe, l’onda lunga delle proteste continua a coinvolgere il Medio Oriente, in un continuo processo di trasformazione della realtà politica di numerosi paesi. Cosa è cambiato, e cosa non lo è, rispetto alla stagione delle proteste di dieci anni fa? L’analisi di A. Roberta La Fortezza

Il 17 dicembre del 2010 un giovane ambulante tunisino, Mohamed Bouazizi, si dava fuoco a Sidi Bouzid, capoluogo dell’omonimo governatorato nel centro della Tunisia. Fu questa la scintilla che fece esplodere la “Rivoluzione dei gelsomini” in Tunisia e da qui quel moto rivoluzionario che ha interessato nel corso del 2011 diversi Paesi della regione mediorientale e nordafricana e che è passato alla storia con il nome di “Primavere arabe”. Il 14 gennaio 2021, esattamente il giorno del decimo anniversario della caduta del regime di Zine el-Abidine Ben Ali in Tunisia, rovesciato proprio da quel moto di piazza innescato dall’autoimmolazione di Bouazizi, centinaia di giovani tunisini hanno marciato nella capitale, Tunisi, per protestare contro la repressione della polizia, la corruzione e la povertà. I manifestanti hanno usato gli slogan “No more fear, the streets belong to the people” e “The people want the fall of the regime” diventati popolari proprio durante la Rivoluzione dei gelsomini di dieci anni fa.

A dieci anni esatti da quel moto rivoluzionario che sono state le “Primavere arabe” e dalla progressiva caduta, o forte indebolimento, proprio grazie a quel moto di piazza, degli allora diversi dittatori della regione (Ben Ali in Tunisia, Muhammad Gheddafi in Libia, Muhammad Hosni Sayyid Ibrahim Mubarak in Egitto, ma anche Ali Abdullah Saleh in Yemen e Bashar Hafez al-Assad in Siria), proprio il Paese da cui quella rivoluzione è partita è oggi nuovamente toccato da ampi e violenti fenomeni si insorgenza socio-politica. Il decimo anniversario di quelli eventi è coinciso però anche con l’acuto manifestarsi delle conseguenze di 12 mesi circa di crisi pandemica globale derivante dal Covid-19. Proprio il 13 gennaio 2021, infatti, le autorità tunisine hanno introdotto un nuovo confinamento nazionale di alcuni giorni per cercare di controllare una ripresa allarmante dei contagi. A partire dalla metà di gennaio 2021, migliaia di giovani, sfidando anche il coprifuoco introdotto dalle autorità per l’emergenza Covid-19, sono scesi in piazza nelle principali città dei governatorati meridionali e centrali, quelli dove la pressione economica è più forte, e anche nella capitale, Tunisi, per esprimere la propria rabbia e disperazione per la mancanza di prospettive economiche.

In questo senso il decimo anniversario della Rivoluzione dei gelsomini sembra essere diventato il momento in cui, non solo gli analisti, ma anche la popolazione tunisina ha iniziato a fare un bilancio di quanto ottenuto in quest’ultimo decennio. Sul fronte politico la Tunisia è stata l’unico Paese ad avere degli sviluppi concreti in senso democratico dopo il moto rivoluzionario del 2010-2011. La caduta di Ben Ali ha comportato l’avvio di un processo democratico che ha trovato la sua massima espressione nella vittoria alla presidenziali del 2019 di Kais Saied, un candidato indipendente che è riuscito a intercettare proprio il voto dei giovani e il loro desiderio di un cambiamento profondo nelle dinamiche interne del Paese. Sebbene dunque, al contrario di quasi tutti gli altri Paesi della regione MENA, Siria, Libia, Egitto e Yemen, la Tunisia sia apparsa come un modello riuscito di “Primavera araba”, permangono ancora oggi ampie aree grigie nel processo di democratizzazione e ristrutturazione delle istituzioni tunisine portato avanti negli ultimi dieci anni. Ciò che non sembra essere cambiato, a prescindere dalla caduta del dittatore e della creazione di un sistema parlamentare e partitico, è il sistema di potere a cui i protagonisti della vita pubblica e i partiti politici continuano a ispirarsi nella gestione della res publica. Questo in un contesto in cui i principali indicatori macroeconomici sono progressivamente peggiorati negli ultimi dieci anni, aumentando il malcontento della popolazione. La pandemia Covid-19 e le sue conseguenze economiche hanno fatto il resto, acuendo le preesistenti criticità e vulnerabilità socio-economiche. La disoccupazione è cresciuta costantemente, passando dal 14% circa del 2010 all’attuale 20%; in termini assoluti nel 2020 il numero di disoccupati in Tunisia si è attestato a 676,6 mila. Il tasso di disoccupazione giovanile è attualmente al 35,7%; la crisi legata al Covid-19 ha causato la perdita di 69,3 mila posti di lavoro; almeno 29 mila persone di quelle che hanno perso il lavoro a causa della pandemia, secondo le proiezioni, non torneranno alla loro precedente occupazione neanche qualora le imprese dovessero riprendere le attività. L’inflazione, al 4,4% nel 2010, è al 5,8% nel 2020; il PIL a -1,9% nel 2010 è al -7% nel 2020 (collasso causato soprattutto dalla pandemia).

In sostanza, i passi in avanti fatti dalla Tunisia in materia di transizione politica e democratica, non sono stati accompagnati da un reale e profondo sviluppo economico e sociale, che diminuisse le disuguaglianze tra classi e tra governatorati, e neanche da un progresso legislativo che ponesse un argine ad esempio ai fenomeni corruttivi. Se per i primi anni dopo la Rivoluzione dei gelsomini il grande traguardo dell’avvio di uno sviluppo democratico ha sostenuto le speranze della popolazione, oggi la mancanza di un reale miglioramento delle condizioni di vita e l’impossibilità di immaginare un futuro migliore con un diverso modello di sviluppo, soprattutto nelle fasce più giovani della popolazione (quelle che nel 2010 erano troppo piccole per scendere in piazza, ma che oggi sono a tutti gli effetti protagoniste della vita sociale e politica tunisina), appaiono come i processi alla base del rinnovato aumento del malcontento e della frustrazione all’interno della società tunisina.

Quanto sta accadendo in questi giorni in Tunisia sta dunque dimostrando una volta di più quanto quel processo rivoluzionario innescatosi con l’autoimmolazione di Bouazizi debba ancora finire di esprimersi in tutte le sue conseguenze e sfaccettature. Che le “Primavere arabe” non fossero finite nel biennio 2010-2011 con la caduta dei principali regimi autoritari allora in piedi in diversi Paesi della regione MENA, era, del resto, emerso già chiaramente nel corso del 2019 in altri Paesi della regione. Al contrario di quanto accaduto nel 2010, infatti, nel nuovo decennio la Tunisia sembra essere stato l’ultimo Paese a scendere in piazza. Questo probabilmente proprio perché la Rivoluzione dei Gelsomini ha consentito alla Tunisia, al contrario, di quasi tutti gli altri Paesi della regione, di fare notevoli progressi in materia di democratizzazione e tutela dei diritti umani, arginando in parte la diffusione del malcontento e posticipandone probabilmente l’esplosione.

Nel corso di tutto il 2019 milioni di arabi sono scesi in piazza dalle coste del Nord Africa, passando per il Sudan e arrivando al Libano e all’Iraq. Le proteste, perlopiù pacifiche ma prolungate, hanno subito, nella parte dei casi, una forte riduzione nel corso del 2020. Non si è trattato di una fine reale della contestazione, quanto piuttosto, semplicemente, di un congelamento dovuto all’emergenza sanitaria Covid-19, la quale oltre a sfavorire gli assembramenti di massa, ha anche consentito alle autorità governative di implementare politiche di maggiore repressione delle manifestazioni (si pensi ad esempio all’Algeria dove le autorità governative sono riuscite proprio tramite le restrizioni dovute al Covid-19 e ad una più incisiva campagna di arresti, a contenere quasi del tutto il movimento di piazza “Hirak”).

Con riferimento ai fatti del 2019, più voci hanno evidenziato la possibilità che si fosse davanti ad una nuova “Primavera araba”, una sorta di “Primavera araba 2.0” trainata questa volta, sì dalle rivendicazioni politiche, ma soprattutto da quelle socio-economiche. Se infatti una costante si può trovare nelle proteste del 2019 in Algeria, Libano, Giordania, Iraq, Sudan ed Egitto è proprio la matrice socio-economica delle rivendicazioni di piazza. I mali comuni nei Paesi investiti da tali recenti moti di insorgenza sono evidentemente debiti pubblici incontrollati, corruzione, assenza di riforme strutturali, diseguaglianze nella distribuzione delle risorse, disoccupazione e politiche economiche fortemente restrittive. Tutti i governi citati hanno provato a rispondere alle richieste delle piazze con riforme parziali, non strutturate, scarsamente efficaci (anche in ragione della necessità contestuale di rispettare i parametri imposti dagli organismi internazionali per la concessione dei prestiti); tale risposta non solo non ha arginato malcontento, disillusione e frustrazione ma, al contrario, in molti casi, ha finito per esasperare tali sentimenti.

In questo contesto il caso più interessante è probabilmente proprio l’Algeria, soprattutto perché il Paese era rimasto sostanzialmente ai margini degli sconvolgimenti rivoluzionari del 2010-2011. L’Algeria è invece diventata la prima e più tenace protagonista di questa Primavera araba 2.0 del 2019. Esasperati, disillusi, frustrati per una situazione non più sostenibile i manifestanti hanno invaso le strade e le piazze di Algeri, a partire dal febbraio 2019 quando l’allora presidente Abdelaziz Bouteflika rendeva ufficialmente nota la propria ricandidatura (per un eventuale quinto mandato consecutivo) alle elezioni presidenziali che si sarebbero dovute tenere il 18 aprile dello stesso anno. Proprio l’ufficializzazione di tale decisione ha scatenato in gran parte del Paese un moto di proteste popolari, tendenzialmente pacifico, volto, inizialmente, a ottenere il ritiro della sua candidatura. In pochi giorni il movimento popolare è cresciuto, riuscendo a portare in piazza decine di migliaia di cittadini algerini, non solo nella capitale, Algeri, ma anche in quasi tutti i centri urbani del nord e in diverse città del centro. Le mobilitazioni, designate con il nome arabo di “Hirak” (“movimento”), che si sono registrate con cadenza settimanale per tutto il 2019 e che sono proseguite con identica costanza nei primi mesi del 2020, hanno visto i più alti tassi di partecipazione popolare degli ultimi vent’anni in Algeria. La caratterizzazione “nazionale” delle proteste, insieme all’ampiezza raggiunta dalle stesse, hanno rappresentato un elemento di forte novità rispetto al trend registrato in Algeria negli anni precedenti. Sebbene il fattore contingente e scatenante delle proteste sia stato indubbiamente la ricandidatura di Bouteflika, il malcontento della popolazione, soprattutto tra le fasce più povere, trova radici più profonde. Alla lenta e progressiva accumulazione dell’insoddisfazione sociale e dell’inquietudine popolare generate da una inefficiente gestione dell’amministrazione pubblica, si è affiancato un lento peggioramento della situazione economica a causa del crollo del prezzo degli idrocarburi (le esportazioni algerine sono sostenute per il 60% dal petrolio e per il 33% dal gas). Infine, ha contribuito alla crisi socio-politica anche la continua crescita demografica, portatrice di forti squilibri sociali. Con riferimento a quest’ultimo aspetto si segnala che circa il 50% della popolazione algerina ha meno di 30 anni; una popolazione così giovane, che soprattutto non appartiene alla generazione degli anni Novanta (cresciuta nel ricordo personale della distruzione causata della guerra civile), fatica ad accettare di essere diretta e governata dagli attuali vertici considerati rappresentazione di un sistema politico immobile e privo delle capacità e della volontà di rinnovarsi.

Sebbene attualmente, in ragione delle limitazioni previste nel contesto della gestione dell’emergenza Covid-19 e in virtù della campagna di arresti attuata dalle autorità governative, le proteste dell’Hirak appaiono quasi del tutto contenute, i fattori che hanno portato all’esplodere di tale contestazione permangono nel panorama politico, economico e sociale algerino. L’emergenza Covid-19 unita all’ulteriore riduzione degli introiti provenienti degli idrocarburi, del resto, causerà un peggioramento delle condizioni economiche del Paese. Grazie alle risorse finanziarie delle esportazioni del comparto energetico, il Paese finanzia, infatti, ogni anno il suo debito e la sua spesa pubblica soprattutto in materia sociale (principalmente servizi di assistenza abitativa e alimentare). La contrazione economica ha già costretto il Presidente Teboune ad annunciare un taglio pari al 50% della spesa pubblica, che non ha tuttavia interessato almeno fino a questo momento le principali forme assistenziali. L’obiettivo è di fronteggiare la crisi economica senza inasprire le proteste, ma sul lungo termine, da un punto di vista finanziario, questa scelta potrebbe comportare un ulteriore impoverimento delle casse statali, rendendo più difficile sostenere le spese per i sistemi di protezione sociale e peggiorando ulteriormente la situazione economico-finanziaria del Paese.

Sebbene, come detto, i fatti del 2019 possano essere considerati come la prosecuzione di quel processo iniziato nel 2011, non può negarsi l’esistenza di forti differenze tra le due esperienze. Ciò non contraddice affatto la loro similitudine, al contrario: nella maggior parte dei casi le differenze sono dovute proprio alla capacità delle popolazioni arabe di apprendere dagli errori commessi nel 2011, nonché in taluni altri casi da un differente approccio esterno (e in questo senso è stata forse la comunità internazionale a imparare dal passato).

Non può passare inosservata l’assenza nel 2019 in tutte le piazze dell’Islam politico: tale considerazione in realtà è valsa anche per i primi tempi nel contesto rivoluzionario del 2011. Successivamente, però, le contestazioni del 2011 sono state utilizzate e cavalcate da movimenti islamisti come la Fratellanza musulmana (si pensi all’esperienza egiziana) o al partito Ennahda proprio in Tunisia. Fino allo stop dato dal Covid-19, il quale ha indubbiamente per certi versi falsato la situazione, comprimendola e congelandola, in nessuna piazza nel contesto delle proteste del 2019 è emersa la leadership dell’Islam politico. La stessa esperienza della Tunisia con la vittoria soltanto con una maggioranza relativa del partito Ennahda alle ultime elezioni parlamentari di ottobre 2019 ha dimostrato una certa disaffezione da parte della popolazione anche nei confronti di quei partiti/movimenti legati all’Islam politico. Con le dovute differenze, anche la contestazione di piazza nei confronti degli attori politici sciiti (e in particolare di Hezbollah e del suo leader, Hassan Nasrallah) così come si è registrato in Libano risponde alla medesima logica di delusione nei confronti di quelli attori confessionali che, con gradi e intensità differenti, non appaiono più in grado di intercettare totalmente e convogliare il malcontento della popolazione.

Un’altra sostanziale differenza tra il 2019 e il 2011 è la durata dei moti di protesta: nel 2011 in poche settimane furono rovesciati i regimi al potere in Tunisia e in Egitto, mentre in Libia, Siria e Yemen la rivoluzione si trasformò repentinamente in guerra civile. Il caso ad esempio dell’Algeria ma anche quello del Libano, nel 2019 sembrano dimostrare un diverso approccio da parte della popolazione rispetto al 2011: le popolazioni arabe sembrano aver preso coscienza che l’impeto rivoluzionario non sempre porta i frutti sperati e che, al contrario, talvolta rischia non solo di vanificare i successi ottenuti ma anche di creare vuoti di potere dalle conseguenze nefaste come accaduto nel post-2011 in Libia, Siria e Yemen. In questo senso questa nuova Primavera araba 2.0 potrebbe rendere manifesto il fatto che una paziente, perseverante e perlopiù pacifica protesta è un mezzo maggiormente efficace per soddisfare le rivendicazioni popolari poiché non concede tregua ai centri decisionali, costringendoli ad un uso generalizzato della forza, dal quale però derivano conseguenze spesso poco accettabili per i governi stessi, o al compromesso con piccole ma graduali concessioni. Ancora una volta l’esempio più emblematico anche di questo approccio governativo è l’Algeria, Paese nel quale “le pouvoir” ha acconsentito alle richieste dei manifestanti spingendo, ad esempio, il presidente Bouteflika a rinunciare alla sua candidatura. In generale, le popolazioni scese in piazza nel 2019 hanno ben chiaro il limite rappresentato dal baratro della guerra civile e, del resto, in molti casi non vogliono neanche rovesciare i loro governi con la forza proprio per paura del vacuum politico: quello a cui mirano è una ristrutturazione dei processi istituzionali e riforme sostanziali in materia sociale ed economiche che possano apportare benefici concreti.

Collegato a questo aspetto vi è anche quello relativo alla richiesta di indizioni: al contrario di quanto accaduto nel 2011 ad esempio in Egitto, nel 2019 in Algeria e in Sudan i manifestanti hanno esplicitamente chiesto di posticipare il più possibile le elezioni, preferendo ad una tornata elettorale con le vecchie regole, un periodo di transizione basato su meccanismi di condivisione del potere tra le diverse fazioni. Questo si ricollega forse alla più grande lezione appresa dalle rivoluzioni del 2011: il cambio al vertice dei regimi non implica necessariamente il crollo del regime. Il regime, infatti è l’integrazione di svariati livelli istituzionali, tale da non poter essere de-costruito con la sola deposizione del dittatore o con le sole elezioni. Le logiche del regime sono precedenti al dittatore e a lui sopravvivono anche se il processo di nomina dei rappresentanti del popolo si democratizza.

Infine l’ultima grande differenza rispetto a quanto accaduto nel 2011, la quale tuttavia riguarda più l’esterno che l’interno dei Paesi scesi nuovamente in piazza, è indubbiamente la grande assenza di attori terzi, regionali e/o internazionali. Se nel 2011 le rivoluzioni furono quasi subito appoggiate dall’esterno, oggi le popolazioni appaiono completamente sole nella loro contestazione volta ad ottenere un nuovo patto sociale. Del resto, il cambio di strategia dei manifestanti, più pazienza e meno forza, trova probabilmente una spiegazione anche nella mancanza di un reale e concreto appoggio esterno: un’azione di forza nei confronti dei poteri così come esistenti richiede capacità e mezzi che la popolazione locale difficilmente può ottenere senza concreti appoggi esterni.

Sebbene, nel 2020 la maggior parte dei moti iniziati nel 2019 è apparsa sedata o in ritirata, le dinamiche alla base di quelle contestazioni sono ancora oggi estremamente percepibili. Del resto, le gravi conseguenze della crisi pandemica sulla tenuta sociale dei Paesi della regione e quelle della crisi economica che si sta accompagnando a quella sanitaria, incideranno pesantemente sul malcontento pre-esistente, aumentando le possibilità di nuovi fenomeni di insorgenza socio-politica. Se il 2020 ha congelato le istanze sociali ed economiche in virtù di un bene, la salute, che anche le masse hanno inteso, almeno in parte, come superiore, il 2021 sembra al contrario aprire la strada all’emergere di nuovi ampi moti di insorgenza da parte di quelle popolazioni già provate dalle difficoltà economiche e ora vessate da un anno di non più accettabili restrizioni. In questo senso la Tunisia degli ultimi giorni sembra riconquistare quel posto di guida che aveva ricoperto nel 2011 e che ha mancato nel corso del 2019.

Quanto accaduto nel 2019, quanto sta oggi ancora accadendo in Tunisia, in Libano, in Iraq, in Sudan e quando accadrà ancora con ogni probabilità nel 2021, dimostra che l’onda delle Primavere arabe non si è ancora esaurita, semplicemente perché le cause alla base del malcontento popolare restano radicate nelle società arabe e anzi sono risultate in crescita negli ultimi dieci anni. Quello iniziato nel 2011 è stato, dunque, un processo trasformativo che, a prescindere dalle contingenze, può essere valutato nella sua sostanza soltanto in una prospettiva di lungo periodo. Un processo trasformativo che vede sempre più le popolazioni arabe prendere coscienza di sé e diventare attori protagonisti delle vicende politiche del proprio Stato, spingendo tramite mezzi, più o meno pacifici, alla riformulazione dei rapporti tra popolo e Stato-apparato e a processi di revisione del proprio “contratto sociale” così come esistente. Indubbiamente questo meccanismo richiederà ancora molte “stagioni” per poter portare realmente ad una trasformazione radicale; ma il punto principale, forse, è che, altrettanto indubbiamente, questo processo è ancora in atto.

A. Roberta La Fortezza


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