Repubblica Democratica del Congo e Kivu: ricchezze naturali, violenza e insicurezza

La Repubblica Democratica del Congo (RDC) con i suoi 2,34 milioni di km2, ma con soli 300 chilometri di strada carrabile, è il Paese più grande del continente africano, il 60% del territorio è ricoperto da foresta tropicale.La capitale Kinshasa è una delle città più popolose al mondo con circa nove/dodici milioni di abitanti stimati nel 2015 e un’estensione pari a 500 km2. L’infrastruttura elettrica risulta insufficiente. Quasi la metà degli abitanti di Kinshasa vive con poco più di un dollaro al giorno. Al contempo, la RDC è uno dei sei Paesi dell’Africa Australe con la più alta concentrazione diamantifera. Parallelamente al mercato legale del diamante, vi è lo sfruttamento illegale gestito da gruppi di guerriglieri e organizzazioni para-mafiose. In un Paese in cui l’ineguaglianza ormai strutturale costituisce uno degli elementi chiave della fragilità sociale, le elevate criticità relative alla nutrizione, all’accesso all’acqua, le condizioni di salute, la tutela dell’ecosistema, le condizioni abitative e le infrastrutture rappresentano i fattori di vulnerabilità che divengono cruciali. La popolazione congolese non beneficia delle enormi risorse naturali dello Stato. Ciò fa sì che la RDC si attesti al 175° posto nella classifica mondiale per Indice di Sviluppo Umano (HDI).

La “colonizzazione infrastrutturale” cinese in Africa, attraverso aziende di Stato, grandi e medie imprese, per un totale di oltre 2000 attori, ha nella RDC un polo strategico fondamentale per lo sviluppo degli interessi cinesi nel continente africano, come lo sfruttamento delle materie prime, del legname, l’estrazione mineraria e petrolifera. La Cina ha investito recentemente 2,65 miliardi di dollari in una miniera di Cobalto. Nella RDC l’influenza cinese è agita su tutto il territorio anche attraverso i media con canali in lingua cinese sottotitolati in francese. Sul piano delle infrastrutture, Kigali, la capitale del Ruanda, rappresenta oggi un terminale ferroviario imprescindibile quale punto di penetrazione nel continente africano delle nuove rotte della seta cinesi.

La Regione dei Grandi Laghi, tra Burundi, RDC e Ruanda, dall’epoca postcoloniale è terreno di tensioni geopolitiche e scontri che ne determinano la costante instabilità. Questo è un territorio ove, ad esempio, l’Uganda ha interessi petroliferi importanti derivanti da accordi sottoscritti con la General Electric.

La strada che collega le città di Goma e Rutshuru, teatro dell’agguato che ha portato alla morte dell’Ambasciatore Attanasio, del Carabiniere Iacovacci e dell’autista Milambo, si trova nella provincia di Kivu, in prossimità del confine orientale della RDC, dove lo sfruttamento delle risorse naturali definisce la geografia delle strade e degli agglomerati.

Qui è presente l’80% delle riserve mondiali di columbite-tantalite, ossia coltan, indispensabile per le fabbricazioni di componenti elettroniche, ma viene ampiamente utilizzato anche nella termochimica, per la creazione di superleghe, ed in particolare nella realizzazione di protezioni dalle radiazioni, nella produzione di munizioni e armamenti terrestri. Il territorio è ricco anche di stagno e giacimenti secondari d’oro. Nel dicembre 2020, il Gruppo di esperti su RDC dell’ONU, ha rilevato che il Ruanda, in violazione del regime sanzionatorio, avrebbe armato gruppi di combattenti sul territorio congolese con l’obiettivo, si ritiene, di controllare le attività in alcune miniere. La provincia di Kivu è una delle aree più interessate al mondo dal traffico illecito di legname pregiato che consente un guadagno criminale annuo di circa 30 milioni di dollari, considerando che l’incidenza di tale traffico all’interno del mercato mondiale del legname ammonta al 10-30% circa.

La zona Sud della provincia è caratterizzata dall’estrazione di rame di cui la RDC risulta essere il primo produttore africano, cobalto necessario per l’industria elettronica e carbone. Le zone strategiche di Kivu sono caratterizzate da un’elevata densità di popolazione e da sacche di marginalizzazione, al cui interno maturano sistemi micro-territoriali di autogestione che sono spesso oggetto di repressione militare da parte dello Stato. Ciò rafforzando il familismo su base violenta quale fattore identitario primario delle micro-comunità di appartenenza.

Nel 2010 gli USA hanno previsto con il Dodd-Frank Wall Street Reform and Consumer Protection Act una norma per contrastare il finanziamento dei gruppi ribelli in RDC che controllano lo sfruttamento minerario. Sette anni dopo, anche l’Unione Europea è intervenuta in tal senso, adottando il Regolamento 2017/821 “Commercio responsabile di minerali provenienti da zone di conflitto o ad alto rischio” introducendo così l’obbligo di tracciamento nell’importazione, da tali aree, di oro, stagno, tantalo e tungsteno, dei relativi minerali.

La provincia di Kivu ha rappresentato negli anni una vasta area di transito per i rifugiati dei Paesi limitrofi. Oggi, 4,5 milioni di abitanti vivono in rifugi e 800.000 hanno emigrati per cercare condizioni migliori. Qui i rifugiati censiti dall’UNHCR sono organizzati in tre grandi comunità: circa 317.000 ugandesi, circa 82.000 ruandesi e circa 73.000 burundesi. Le condizioni di vita precarie nelle installazioni per i rifugiati, rese critiche dalla minaccia del virus Ebola, possono favorire il reclutamento nelle numerose milizie e gruppi criminali che operano nel territorio ove il rapimento ai fini del riscatto risulta essere un modus operandi consolidato.

Tale provincia può, quindi, essere definita come l’epicentro della violenza nel Paese, tra insicurezza e crisi umanitaria. In questo territorio si concentrano i principali conflitti di natura multifattoriale e intercomunitaria, che hanno caratterizzato la storia della RDC sin dalla sua indipendenza dal Belgio nel 1960.

Una delle caratteristiche principali della provincia di Kivu è quella di essere, come molti altre zone africane, un teatro di conflitto “senza frontiere”. Qui, infatti, le guerre prima degli odierni microconflitti, si sono strutturate attorno a vettori di mobilitazione identitaria di natura regionale, etnica, religiosa, linguistica, determinandosi quindi in tensioni per il controllo delle risorse e del territorio, a cui si sovrappongono di continuo gli interessi di attori esterni al Paese.

Dal 1998 al 2003 Chad, Sudan, Repubblica Centrafricana, Uganda, Ruanda, Burundi, Zimbawe, Namibia e Angola hanno finanziato gruppi armati operanti sul territorio congolese. Nel 2018, dopo le due guerre che hanno profondamente interessato il Paese, è stata fortificata la presenza militare nelle aree strategiche della RDC, tra cui Kivu, ma sono ancora del tutto insufficienti a contrastare le numerose minacce alla sicurezza presenti, per non parlare della corruzione che segna in maniera importante gli apparati della Repubblica.

Nel 2015 erano censiti, nella provincia di Kivu, circa 69 gruppi armati di guerriglieri. Tale area di conflitto intercomunitario si caratterizza anche come territorio di attraversamento da parte di flussi di rifugiati in direzione Burundi a Sud dove sono presenti diversi campi di rifugiati, mentre in direzione Ruanda e Uganda, nel Nord, la zona in cui si registra la presenza di miniere di diamanti, nelle vicinanze del Lago Eduard, che ha portato alla realizzazione di strade carrabili che collegano Kisangani alle porte della regione delle concessioni forestiere, con Bukavu e Goma, tra questo lago e quello Kivu, in un’area densamente abitata da rifugiati. La violenza che interessa l’area è testimoniata dal numero delle vittime di attacchi terroristici, che nel 2019 è cresciuto di un terzo rispetto all’anno precedente attestandosi a 559 morti.

Oggi a 61 anni dall’indipendenza dalla Corona belga, nella provincia di Kivu si registrano circa 160 gruppi armati attivi, in un contesto in cui ancora oggi si registra il reclutamento forzoso di bambini-soldato, con il radicamento, la presenza costante, di entità ostili interne ed esterne che si configurano in vario modo: brigate di guerriglieri, gruppi criminali organizzati, attori dediti al banditismo, terroristi, cellule jihadiste e milizie operanti nel traffico illecito delle risorse naturali, tutte di diversa dimensione e capacità militare, ma per lo più formatesi sulla necessità di contrapposizione etnica-identitaria. Le entità più significativamente operative risultano essere: Allied Democratic Forces (ADF-NALU) musulmana ugandese presente su territorio congolese dalla fine della presidenza Mubutu, si contrappone ai cosiddetti “Mayi-Mayi” che di recente si sono resi protagonisti di attacchi ai danni di centri anti-Ebola nel Nord della Provincia e nell’Ituri causando il ritiro del personale straniero del WHO, quindi l’ex-Movimento 23 marzo (M23), la forza di resistenza patriottica dell’Ituri (FRPI), i “Raia Mutomboki”, unità combattenti create per contrastare le forze democratiche di liberazione del Ruanda (FDLR), i “Kata Katanga”, un gruppo Mayi-Mayi ribelle, l’esercito popolare di liberazione del Sudan (SPLA), ed il Lord’S Resistance Army (LRA), gruppo ribelle di matrice cristiana ortodossa, nonché gruppi armati originari del Burundi che usano il territorio come rifugio per poi compiere attacchi proiettivi nel proprio Paese. Tutte queste entità costringono le forze armate congolesi a continui scontri a fuoco. Mentre nell’adiacente regione di Ituri, a Nord di Kivu, vi sono milizie dell’ADF-NALU, unitamente alla presenza di shabaab somali e kenioti, che hanno la loro base nel Parco di Virunga, le FDLR costituite storicamente da guerriglieri hutu, rifugiati giunti in Congo nel 1994 a seguito del genocidio, che si muovono all’interno della foresta congolese, prendendo parte al traffico di carbone e controllando le miniere di coltan.

Per quanto concerne i gruppi armati operanti nella regione di Kivu, appare evidente come la destabilizzazione stessa dell’area consenta alle grandi imprese straniere di ricorrere all’outsourcing della sicurezza direttamente attraverso quelle milizie sul territorio che paradossalmente possono rappresentare una minaccia. Inoltre, questo business, evidenzia la presenza di un sistema multilivello di attori da prendere in considerazione come committenti, tra cui: realtà nazionali e locali, operatori stranieri, Stati rivali che si servono di proxy per compiere diverse operazioni su suolo congolese, dal mettere in sicurezza, vigilare, mitigare, all’interferire, destabilizzare, influenzare e compromettere. In tal senso, il proliferare dei micro-conflitti localizzati viene sfruttato a vantaggio da attori terzi tra cui grandi imprese, trafficanti di armi, entità terroristiche transnazionali che tra l’altro contribuiscono alla crescente regionalizzazione del conflitto nel Kivu.  In tale contesto si segnalano le ingerenze private negli interessi nazionali, decisamente ricorrenti da personalità dell’establishment congolese, come nel caso della Gécamin, società nazionale delle miniere, creata dall’ex-Presidente Kabila, che si occupa dell’esportazione delle ricchezze minerarie in particolare ai grandi gruppi europei, cinesi e statunitensi. Il controllo delle miniere è attuato per mezzo dello sfruttamento di manodopera, tra cui bambini, ridotta in condizioni di schiavitù estrema.

Nel dicembre 2019, si è aperto un processo negli USA a seguito delle denunce di International Rights Advocates che, rappresentando diverse famiglie congolesi, ha denunciato le tech companies: Apple, Alphabet (Google), Dell, Microsoft e Tesla per sfruttamento del lavoro minorile nelle estrazioni di cobalto.

Per quanto concerne, invece, la minaccia jihadista, si rappresenta che gli attori del jihadismo africano, cercano di sfruttare le aree in cui lo scarso controllo da parte delle autorità locali si sovrappone alle criticità socio-economiche e alle tensioni etniche presenti, per colmare così gli spazi fisici e socio-culturali lasciati vuoti dallo Stato. La RDC costituisce, quindi, uno dei nuovi punti di ancoraggio del jihadismo africano sotto la bandiera dell’Islamic State, o Daesh. Nell’aprile 2019 l’agenzia Amaq ha rivendicato, infatti, il primo attacco in Africa centrale, l’assalto ad una caserma dell’esercito congolese nel Nord-Est. La proiezione criminale è stata possibile grazie al giuramento di fedeltà al Daesh effettuato nell’ottobre 2017 da alcuni jihadisti dell’ADF-NALU, radicati nel Nord Kivu dal 1996 a ridosso della frontiera ugandese. Tale gruppo si sarebbe, pertanto, rinominato “Madinat al_Tawhid wa_i_Muwahidin” (MTM), la Città del Monoteismo e dei Monoteisti. Negli ultimi anni, il Nord-Kivu è stato interessato da numerose azioni terroristiche condotte dai miliziani dell’ADF/MTM a danno della popolazione civile.

Vi è da precisare, in tal senso, che dalla metà del 2019, è presente il “Wilayat Wasat Ifriqiya”, la Provincia dell’Africa Centrale dell’Islamic State (IS-CAP), nata in Mozambico, che costituisce un’entità terroristica del tutto nuova, una sorta di Cerbero, un macro-attore che riunisce a sé, principalmente, da un lato le ADF-NALU, il gruppo ribelle dell’Uganda operativo nella RDC, e dall’altro i ribelli di Ansaral_Sunna al_Shabaab nella provincia di Cabo Delgado in Mozambico, un movimento scissionista salafita emerso con forza già nel 2017. A questi due si unisce l’entità somala affiliata all’Islamic State (ISS), costituita da un nucleo di disertori del gruppo qaedista al_Shabaab, che risulta essere particolarmente attiva sul fronte del contrabbando e dell’addestramento tattico, ma non considerata come Wilayat, probabilmente per la limitata capacità di controllo del territorio derivante dalla consolidata presenza capillare dei militanti di al_Shabaab. L’identità di tale Cerbero è costantemente e “pedagogicamente” (ri-)costruita nell’infosfera jihadista attraverso la disseminazione serializzata di video che dopo aver messo in luce le gesta dell’entità mozambicana e di quella congolese, pone l’attenzione sul gruppo somalo, presso il quale, si ritiene che vi sia l’intenzione di posizionare il direttorio strategico-mediale dello stesso Wilayat Wasat Ifriqiya, con l’obiettivo di amplificarne la voce per favorire la radicalizzazione nel territorio circostante e attrarre, ai fini del reclutamento, soggetti radicalizzati provenienti in particolare da Kenya, Tanzania e Uganda, subcontinentalizzando sempre più l’identità del Daesh, forse quale risposta alla massiccia presenza del dispositivo G5 nel Sahel. IS-CAP rappresenta, quindi, in primis il superamento sul campo del progetto di regionalizzazione jihadista dell’Islamic State che vedeva in Jabha East Africa, annunciato nell’aprile 2016, l’entità in grado di coagulare combattenti da Kenya, Somalia, Tanzania e Uganda. Tale tentativo è risultato essere una mera operazione di marketing che di fatto non ha prodotto le spinte centripede attese, oppure un’efficace operazione dissimulativa per consentire la silente infiltrazione del RDC. Inoltre, IS-CAP è da intendersi come un’interessante evoluzione adattiva del modello organizzativo tradizionale dell’Islamic State in Africa caratterizzato dalla forza propulsiva di combattenti della jihaspora e dalla capacità di centrificare massivi finanziamenti provenienti soprattutto dalla partecipazione diretta e indiretta nei traffici illeciti che caratterizzano la regione del Kivu. In prospettiva futura, ciò potrebbe aumentare esponenzialmente la capacità di attrazione delle milizie islamiste operanti nell’area, trasformando il confine occidentale della RDC nel baricentro africano d’influenza del Daesh. Non si ritiene che vi sia il tentativo di conquistare terreno in RDC da parte dei jihadisti, anche perché la presenza dell’Islam in RDC è pari all’1%, ma è sicuramente di vitale importanza per gli stessi, l’attestazione nella provincia del Kivu come hub di convergenza criminale transnazionale degli interessi illeciti dell’area. Probabilmente stiamo assistendo alla concreta diversificazione e svolta policriminale del Daesh nell’area così da divenire determinante in zone geostrategiche estremamente rilevanti sul versante africano più complesso da mettere in sicurezza, anche e soprattutto per la mancanza di dialogo tra alcuni importanti attori d’area. Nel 2020, IS-CAP ha rivendicato l’attacco a una prigione congolese che ha prodotto l’evasione di oltre 1.300 detenuti, dando di fatto il via alla serializzazione dell’attività terroristica su suolo congolese. Inoltre, l’intensificarsi dell’attività criminale dell’IS-CAP ha prodotto di riflesso un aumento dei sequestri di persona a scopo di riscatto condotti da piccoli gruppi criminali organizzati che probabilmente stanno beneficiando di un aumento dell’insicurezza soprattutto nel Nord del Kivu o cui è stata affidata tale operatività da parte dello stesso IS-CAP con finalità di controllo indiretto del territorio ed infiltrazione nel tessuto criminale favorito dall’elevata porosità delle frontiere. La forza del nucleo ADF-NALU, colpita nel 2020 da un’operazione militare congolese a Madina, risiede probabilmente oggi nella sua funzione di “raccordo” con i corrispettivi somali.  Dopo la morte del leader dell’Islamic State Abu Bakr al_Baghdadi, si sottolinea l’intensa attività online volta a mediatizzare il più possibile le azioni armate dell’IS-CAP a testimoniare come l’Africa costituisca, per il jihadismo contemporaneo, un territorio in cui “rimanere ed espandersi ” attraverso nuovi asset di finanziamento illecito.


CONCLUSIONI

Nell’osservare le molteplici criticità presenti nella RDC, non si deve incorrere nell’errore di considerarlo un failed State, anzi sono proprio le specificità morfologiche, la complessità sociale e criminale, il ruolo geostrategico nel continente africano, che ne fanno un unicum a livello globale, nonché uno scenario in evoluzione da cui trarre importanti informazioni sul mutamento della minaccia terroristica. Tra l’altro occorre segnalare quanto la RDC sia integrata nel circuito della globalizzazione attraverso una fitta rete di relazioni internazionali. A tale postura non corrispondono evidentemente, o quantomeno risultano “goffi”, le significative problematiche strutturali interne, soprattutto in ordine al rispetto dei diritti umani.

Nella provincia del Kivu, le contese per la terra, le lotte di potere, l’assenza dello stato di diritto, la complicità talvolta dello stesso Stato nelle violenze, i conflitti transfrontalieri, i deficit gestionali, lo sfruttamento delle risorse naturali nazionali e le significative carenze in termini di sicurezza, risultano essere alla base della diffusione di un modello socio-culturale e identitario fondato sulla violenza che non può che favorire le leadership criminali e consentire ancora oggi il costante verificarsi di rapimenti ed atrocità tra cui mutilazioni, stupri di massa e decapitazioni. In questo clima di caos diffuso, le diverse entità criminali presenti sul territorio possono essere assoldate con l’obiettivo di destabilizzare le autorità e la popolazione locale, così da favorire al meglio, in assenza di controllo, lo sfruttamento delle risorse naturali. Nonostante i conflitti con i Paesi confinanti siano formalmente terminati, i gruppi armati continuano a dominare l’area e a scontrarsi. Le logiche predatorie delle grandi multinazionali sembrano aver sostituito gli Stati nel conflitto.

Gruppi disciolti e scissi da cui sono nati piccoli gruppi dediti al banditismo, alla predazione e ai sequestri di persona.

Tale situazione consente ai signori locali, alle aziende nazionali ed estere, impegnate nella tutela del proprio business, di poter contare sulla crescita dell’offerta – criminale – di sicurezza, a basso costo da parte di miliziani e guerriglieri praticamente disposti a tutto. Ciò determina una crescente privatizzazione della (pseudo-)sicurezza a scapito di un rafforzamento di quella dello Stato.

La presenza di conflitti che da più di trent’anni si susseguono nella regione ha istituzionalizzato di fatto la violenza come vettore di legittimazione del controllo sociale e del territorio. In un contesto in cui l’identità etnica è prevalente rispetto a quella nazionale, violenza e corruzione divengono complementari per la popolazione del Kivu – assai distante dalla capitale -, come unica modalità relazionale, con l’autorità nazionale e locale in un clima di totale precarietà, insicurezza, paura in cui abusi, violenza di genere, violazioni dei diritti umani e impunità sono all’ordine del giorno.

I gruppi armati reclutano civili locali così come eserciti di bambini-soldato che ridotti praticamente in schiavitù sono deputati al controllo dello sfruttamento criminale delle risorse minerarie, senza alcuna aspettativa di redistribuzione per la popolazione.

La crisi Covid-19 e il ripresentarsi dell’Ebola che hanno imposto lo stop al turismo nel parco del Virunga, in cui le risorse atte a vigilare sono decisamente scarse, hanno favorito la mobilità umana, nonché il riposizionamento strategico, se non la vera e propria installazione al suo interno di realtà criminali tra loro estremamente diversificate, tra cui bracconieri, gruppi di banditi, milizie ed entità terroristiche, fornendo loro un’importante risorsa logistica.

Occorre favorire processi di neutralizzazione dei gruppi armati attraverso un processo organico di disarmo, de-mobilitazione e reinserimento sociale (DDR) degli ex-combattenti. Ciò anche in virtù della richiesta effettuata da diversi gruppi armati, al governo, di poter deporre le armi e contestualmente di essere integrati nell’esercito regolare congolese, cosa che soprattutto per i giovani, potrebbe costituire un’importante occasione di re-boot identitario. Il governo congolese non ha inteso accogliere la richiesta, quindi le milizie sono ritornate in attività. Risulta necessario, quindi, interrogarsi sulle reali motivazioni alla base di tale rifiuto, apparentemente incomprensibile.  

 Inoltre, tenendo presente la situazione attuale e le stime che vedono nel 2030 la popolazione della sola Kinshasa giungere a 20/25 milioni di abitanti, nonché l’impatto del climate change, sull’intero continente africano, la RDC può divenire uno dei punti nevralgici dei macro-flussi di migranti climatici che interesseranno l’Unione Europea nel prossimo futuro. A tal proposito si segnala che oggi il viaggio per raggiungere illegalmente l’Europa mediterranea dalla RDC costa circa €1500 e ha una durata di circa due mesi.

I 18.000 Caschi Blu della Missione MONUSCO, presenti lungo tutti i confini dello Sato, tranne che per quello Sud-Est ove i rapporti con l’Angola allo stato appaiono ordinari, risultano evidentemente insufficienti a pacificare le zone di crisi, soprattutto perché risulta imprescindibile una soluzione politica anche con il coinvolgimento della comunità internazionale quale mediatore tra le parti in conflitto.

            Cosa fare? Occorre prima di tutto sensibilizzare, intervenire, prevenire e contrastare la violenza anche attraverso progetti di cooperazione internazionale con la RDC, come quello che ho avuto il piacere di sviluppare con il collega Prof. Stefano Ferracuti del Dipartimento di Neuroscienze Umane, e che stiamo portando avanti proprio sul territorio congolese, dal titolo “Violenza, Trauma e Giustizia: Concetti, Strumenti e Strategie Psicologiche e Socio-Criminologiche per gli Operatori del Diritto e Sanitari” che, ponendo l’attenzione sulle vittime delle atrocità nelle zone di conflitto come la provincia del Kivu, intende formare il personale alla comprensione dei processi di violenza e della connessione con la salute mentale, all’identificazione delle vittime traumatizzate e alla capacità di creazione di una rete di protezione per le stesse. Dopodiché è necessario intervenire al contempo sulla de-radicalizzazione dei combattenti, soprattutto dei bambini-soldato, ai fini del loro reinserimento sociale, nonché sulla prevenzione della radicalizzazione e auto-radicalizzazione violenta, anche online.

Arije Antinori è Professore di Criminologia e Sociologia della devianza, PHD in Criminologia applicata alle Investigazioni e alla Sicurezza, PHD in Scienze della Comunicazione. EU Senior Expert on Terrorism and TOC, HW and Stratcom Expert, Analista Geopolitico e OSINT.


Immagine tratta da Pixabay.com

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