Afghanistan: nuovo jihadismo o nuove speranze?

Un incontro a Roma per discutere del libro di un autore afghano, Farhad Bitani, riporta il focus sul difficile rapporto fra fondamentalismo e integrazione culturale. Ed è l’occasione per parlare di un Paese ancora poco conosciuto dall’opinione pubblica italiana.

La storia di Farhad Bitani, ex fondamentalista islamico, oggi educatore e socio fondatore del Global Afghan Forum, e il suo libro “L’ultimo lenzuolo bianco” (ed. Guaraldi) sono stati al centro del convegno “Fondamentalismo e Integrazione”, ospitato presso la sala del Mappamondo a Palazzo Montecitorio. A fare da padrona di casa l’On. Valentina Corneli, deputata del Movimento 5 Stelle e membro della Commissione Affari Costituzionali della Camera. Tra i Relatori: Claudio Bertolotti (Analista ISPI, Direttore Start Insight, PH.D, Analista strategico) e Alex Ruzzi, autore e regista cinematografico e teatrale.

L’Afghanistan è un Paese che vive una situazione di guerra “che va avanti da oltre quarant’anni, anche se noi tendiamo a concentrarci solamente sugli ultimi diciotto, che sono quelli che hanno visto l’impegno della comunità internazionale nella guerra afgana”. Comincia così l’intervento di Claudio Bertolotti chiamato a raccontare la storia di un Paese martoriato nel quale, dalla caduta della monarchia (1973) ad oggi, è stato tutto un susseguirsi di colpi di Stato, di invasioni di potenze come l’Unione Sovietica, di interventi a sostegno di un’opposizione armata, come quelli che misero in campo gli Stati Uniti, visti come “un’opportunità per infliggere un duro colpo al competitor dell’epoca, al colosso sovietico”, e di interessi economici, politici e geostrategici costretti a convivere con ideologie violente riconducibili a un’ideologia in particolare: “quella dell’islamismo politico, che usa la religione come giustificazione delle violenze e delle scelte politiche che vengono portate avanti in nome di una religione che viene reinterpretata”.

“Con il crollo dell’Unione sovietica”, prosegue Bertolotti, “coloro che prima avevano combattuto la guerra in nome di quest’ideale religioso cominciano a viaggiare, e a esportare la visione del nuovo jihadismo in tutto il Medio Oriente, in Nord Africa e nei Balcani. Sono gli stessi jihadisti che troveremo in Bosnia negli anni Novanta. E oggi, come un boomerang, le generazioni successive stanno tornando in Afghanistan dopo aver acquisito un’esperienza di combattimento e di forte motivazione jihadista dalla Siria. In Afghanistan, oggi, lo Stato Islamico ha aperto una sua succursale”.

Il quadro odierno dell’Afghanistan ci restituisce un paese in grave difficoltà e con un quadro politico fortemente instabile che patisce da un lato “la peggiore situazione economica di tutto l’arco mediorientale: il 15% della popolazione è incapace di provvedere ai propri bisogni essenziali e il 54% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà”, dall’altro la constatazione che “dopo diciotto anni di guerra, i talebani controllano circa il 35% del paese. Per alcuni analisti addirittura il 50%”.

E dunque l’unica via d’uscita possibile appare quella di “un negoziato con i talebani, che possa favorire un minimo di stabilità e un certo spazio di manovra per il governo talebano e per le forze della coalizione”.

A questo compromesso è interessata tutta la comunità internazionale: l’ipotesi del futuro è dunque un accordo che “possa portare ad un sostanziale riconoscimento dei talebani come effettivi leader, riconoscimento che porterebbe al libero accesso da parte degli altri paesi alle risorse economiche dell’Afghanistan”.

Lo scenario afghano degli ultimi venticinque anni è quello nel quale prende forma l’esperienza di Farhad Bitani, figlio di un generale dei mujaheddin fedele al presidente afghano Karzai, raccontata appunto nel suo libro “L’ultimo lenzuolo bianco”.

Il libro, di denuncia e anche di speranza, costituisce una straordinaria testimonianza che da un lato ci aiuta a comprendere la follia di una guerra ammantata di principi religiosi il cui uso criminale ha finito col giustificare ogni genere di orrore e di degrado. Dall’altro ci indica una possibile via d’uscita attraverso, un percorso personale che può riportare un’identità religiosa a una dimensione “umana” e rispettosa dell’altro.

La denuncia di Bitani è netta: “Dal 1989, quando le ultime truppe dell’Armata Rossa hanno lasciato l’Afghanistan, sono passati ventotto anni. Da allora la gente afghana ancora non vive in pace, armati dai paesi vicini, Pakistan e Iran e dai più lontani come gli Stati Uniti. I potenti di turno l’hanno tenuta al buio segregata dal resto del mondo. Più volte in questo quarto di secolo ne è stata annunciata la liberazione sempre nel nome di Dio dai vari gruppi di combattenti di Dio, i mujaheddin, i talebani. Ma la Guerra Santa, la jihad non ha dato l’indipendenza a nessuno. Ha consolidato il potere dei fondamentalisti, i talebani e i mujaheddin”.

Il mondo che Bitani racconta da testimone diretto è terribile: un’infanzia vissuta all’insegna della normalità della guerra, della normalità di vedere cadaveri per le strade e donne violentate: “A sei anni sapevo già montare e smontare un kalashnikov, a nove anni sapevo usare un kalashnikov così quando attaccavano altri gruppi armati noi difendevamo la casa. A volte, quando ero piccolo, per settimane non potevo uscire di casa perché vivevamo a Kabul e quando uscivamo vedevamo cadaveri a terra. Per noi questa era la normalità.”

Nel 2003-2004, il padre di Farhad rischiava la vita e così le autorità afghane decisero di distaccarlo all’Ambasciata di Roma. E la famiglia, tra cui Farhad, lo raggiunse. Col tempo, mentre frequentava l’Accademia Militare, Farhad Bitani si avvicinò alla cultura italiana e il suo punto di vista cominciò progressivamente a cambiare: “Quando arrivai in Italia vedevo tutti come degli infedeli”, dice Farhad sorridendo. “Il percorso di vita che ho fatto nel vostro Paese mi ha portato a riflettere, e attraverso il mio cambiamento interiore è cambiato il mio modo di vedere le cose. Io sono musulmano. In Italia ho imparato a rispettare il Cristianesimo. L’ho imparato attraverso le persone, attraverso il rispetto e l’amore dei cristiani che hanno avuto rispetto nei miei confronti. Ho imparato il rispetto per loro e per la loro religione. Ho imparato ad amare la mia e ad amarla davvero. Ho raccontato l’Afghanistan per quello che è, non come tanti che hanno scritto romanzi facendoli passare per storie vere. Un paese dove i giovani non hanno mai conosciuto la pace, dove i bambini parlano sempre di armi, di guerre, di come conviene uccidere… Sono tante, forse troppe, le cose che ho visto nei miei primi trent’anni di vita. Adesso le racconto. Lascio le armi per impugnare la penna. Traccio i fatti senza addolcirli, senza velarli, dopo aver vissuto l’infanzia e l’adolescenza e la prima giovinezza nell’ipocrisia, ho un tremendo bisogno di verità. Pronunciare la verità è un piccolo gesto in fondo. La vera sfida è accettarla e ancor di più accoglierla come propria storia personale. Perderò delle amicizie, delle relazioni ma non importa. L’ho messo in conto. Soltanto la verità può liberare il mio paese e i paesi che vivono nelle medesime condizioni”.

Nel 2018 dal libro di Bitani è stata tratta un’opera teatrale, mentre è attualmente in lavorazione un lungometraggio, “The last white sheet”, con la regia di Alex Ruzzi.

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