Jihad prossimo venturo

Lorenzo Vidino descrive la nuova fase di transizione del terrorismo fondamentalista. E spiega perché – anche se la frequenza degli attacchi è diminuita – non dobbiamo abbassare la guardia, ma cambiare modo di combatterlo.

 

I recenti attentati di Strasburgo hanno drammaticamente confermato il fatto che l’Europa, come tutto l’Occidente, non è affatto immune, ancora, dai rischi legati all’estremismo islamico violento e alla diffusione delle idee radicali del jihadismo. Del resto gli anni a noi più vicini hanno visto un susseguirsi di attentati di diverse dimensioni che hanno prodotto numerose vittime e sconvolto molte città europee, americane e di tutto il Medio Oriente. La minaccia del terrorismo jihadista, nonostante la battuta d’arresto del progetto “Neo-califfale” di Al Baghdadi e Daesh non si può certo considerare superata, ma resta anzi attualissima e incombente, su tutto l’Occidente e sui paesi a noi più prossimi in Africa e Asia. Anche il nostro paese, in cui in questi anni si sono visti numerosi arresti di radicali jihadisti e simpatizzanti dello Stato Islamico, resta uno dei più esposti. Il terrorismo internazionale è indubbiamente una delle minacce più gravi e pericolose del nostro tempo e, come  numerosi analisti sostengono, dovremo purtroppo farvi i conti ancora a lungo.

Europa Atlantica ha scambiato alcune battute su questo tema con uno dei massimi esperti italiani in materia di terrorismo e radicalismo islamico, Lorenzo Vidino. Già coordinantore della Commissione sulla radicalizzazione promossa dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Vidino è attualmente Direttore del Programma sullEstremismo alla George Washington University.

 

EA: Dott. Vidino, gli eventi di Strasburgo hanno riportato con drammaticità l’attenzione dell’opinione pubblica sulla minaccia terroristica jihadista in Europa, segno che non è affatto superata, ma anzi molto presente. Dagli studi e dalle analisi che lei ha fatto e diretto negli scorsi mesi, che bilancio possiamo trarre, rispetto all’anno appena concluso (2018), delle attività jihadiste e degli attacchi terroristici in Europa e in Occidente?

Lorenzo Vidino: Se prendiamo un dato molto indicativo, quello del numero degli attacchi, il 2018 è stato un anno nettamente più tranquillo dei precedenti. Se, infatti, gli attacchi perpetrati da soggetti legati allo o anche solo ispirati dallo Stato Islamico tra Europa Occidentale e Nord America furono 14 nel 2015, 22 nel 2016, e 27 nel 2017, l’attentato di Strasburgo è stato solo il settimo registrato nel 2018.

Vari elementi ci aiutano ad interpretare questo calo. Da una parte pare evidente che lo Stato Islamico, persa la sua dimensione territoriale in Siria ed Iraq e ormai ritornato ad essere quello che era dieci anni fa, cioè una forza insorgente, non abbia più la capacità di dirigere attacchi in Occidente, anche solo attraverso l’attivazione di simpatizzanti tramite internet, una delle dinamiche più comuni viste negli anni precedenti. Dall’altro, va notato che la maggior parte dei paesi europei sono molto migliorati nella loro azione di contrasto al fenomeno jihadista e se è vero che gli attacchi del 2018 sono stati pochi, il numero di tentativi sventati in varie fasi della preparazione è stato alto. Solo nel mese di dicembre sono stati sventati due attentati che parevano essere molto prossimi alla fase operativa in Svezia e Olanda—due operazioni che hanno portato all’arresto non di lupi solitari ma di cellule autonome che già avevano fatto piani concreti (e nel caso olandese avevano acquisito armi automatiche). I motivi che hanno portato a questo miglioramento qualitativo dell’azione antiterrorismo in molti paesi europei, in particolare quelli che più di altri si erano fatti trovare impreparati all’inizio della mobilitazione per la Siria (paesi scandinavi, Olanda, Belgio, Svizzera, Austria…) sono molteplici: introduzione di normative più efficaci (alcuni di questi paesi erano sprovvisti di una vera e propria normativa anti-terrorismo), miglior cooperazione internazionale, miglior conoscenza del fenomeno, aumento degli effettivi in varie agenzie anti-terrorismo…

 

EA: Che genere di fase stiamo vivendo, in questo momento, in relazione proprio alla minaccia terroristica?

Lorenzo Vidino: Il jihadismo esiste in Occidente dai primi anni ’90 (se invece guardiamo al Medio Oriente il fenomeno risale agli anni ’70) e può essere divisa in varie fasi. La mobilitazione per la Siria ha rappresentato un momento molto importante di questa storia, un’esplosione dopo un periodo di relativa calma, caratterizzata da un numero record di partenze verso un’area di conflitto, da un altissimo numero di attentati (creando in molti casi un effetto emulativo, una vera e propria catena perversa in cui le gesta di un attentatore venivano replicate da altri in altri paesi), da una radicalizzazione che ha preso forme nuove sia nelle modalità (largo uso di social media, non-necessità di adesione formale al gruppo) che nel profilo demografico dei soggetti radicalizzati (età media più bassa che nel passato, percentuali elevate di donne e convertiti, alti tassi di background criminale…).

Questa fase si può dire conclusa con la caduta di Mosul e Raqqa e la fine del Califfato. Siamo chiaramente entrati in una fase di transizione. Ci si aspettava che i foreign fighters di ritorno sarebbero stati protagonisti di una scia di attacchi, ma questa predizione finora non si è avverata (dalla caduta del Califfato, zero attentati compiuti da foreign fighters di ritorno). Esiste però una base di supporto, un numero relativamente importante di soggetti radicalizzati che vive in Europa. Alcuni di loro sono reduci del califfato o comunque jihadisti di lungo corso, altri semplicemente simpatizzanti del jihad senza legami operativi con nessun gruppo ma che si nutrono di propaganda online.

La grande incognita è quindi su quello che verrà nei mesi a seguire. Alcuni di questi soggetti radicalizzati potranno tentare di compiere attentati sul suolo europeo. Altri cercheranno di partire per zone di conflitto al di fuori dei confini europei. Al momento nessuna delle destinazioni attuali del jihad (Libia, Afghanistan, Yemen, Filippine) può anche solo remotamente competere dal punto di vista dell’appeal emotivo e della facilità di accesso con ciò che è stata la Siria nei primi anni di questa decade. E’ però certo che lo scoppio di un altro conflitto che possieda simili caratteristiche rivoluzionerebbe lo status quo, in quanto è evidente che le tensioni geopolitiche sono tra le fonti primarie di ossigeno della radicalizzazione.

 

EA: Gli stati europei e l’Unione Europea stessa, che misure stanno prendendo per aggiornare le proprie strategie di repressione e prevenzione del fenomeno terroristico jihadista? Quali sono secondo lei le priorità?

Lorenzo Vidino: Sotto questo punto di vista molto è cambiato dal 2011, quando è iniziata la mobilitazione per la Siria. Paesi che si erano confrontati col terrorismo, anche non solo di matrice jihadista, nel passato (Italia, Francia, Spagna, Gran Bretagna) erano meglio preparati; altri, come detto prima, non possedevano né gli strumenti giuridici né l’attitudine culturale adatti ad affrontare la minaccia. Tutti comunque si sono dovuti confrontare con un fenomeno qualitativamente e quantitativamente diverso dal passato.

Ogni paese andrebbe analizzato individualmente, ma dal 2011 le cose sono molto migliorate in quasi tutta Europa: ci si è dotati di nuove leggi, si sono aggiunte risorse, si collabora di più. Per quanto l’antiterrorismo rimanga dominio dei singoli stati, il ruolo esercitato dall’Europa, attraverso varie sue istituzioni, nel migliorare la situazione attraverso la facilitazione dello scambio di intelligence, la collaborazione giudiziaria, e lo sviluppo di normative, è stato fondamentale. E molto utile è stato anche il ruolo di paesi chiave come gli Stati Uniti o di istituzioni internazionali come OSCE, Nazioni Unite e Global Counter-Terrorism Forum.

In quasi tutti i paesi occidentali oggi l’azione antiterrorismo è incentrata su un mix di repressione e prevenzione. Ogni paese adotta una ricetta diversa, figlia della propria storia, situazione politica, cultura, e del tipo di minaccia con cui si confronta. Ma si capisce ormai pressoché’ ovunque che i mezzi classici dell’antiterrorismo (arresti, espulsioni, sorveglianze, azioni sotto copertura), pur restando la spina dorsale del sistema, non possono da soli costituire una strategia completa e vanno affiancati da strumenti di soft power. Sto parlando della prevenzione intesa nell’accezione usata in Europa: interventi a livello culturale ed educativo, contro-propaganda, collaborazione con comunità islamiche e società civile. La repressione è fondamentale nel breve termine, la prevenzione nel lungo: una dovrebbe complementare l’altra.

Fondamentale per tutti i paesi nei prossimi mesi è non abbassare la guardia. In un certo senso il periodo in cui ci troviamo ricorda i mesi precedenti al conflitto siriano. La morte di Bin Laden, una diminuzione degli attacchi in Occidente e l’ottimismo dei primi giorni delle Primavere Arabe avevano allora fatto pensare a molti che il fenomeno jihadista fosse se non morto, in fase calante—un’analisi dimostratasi tragicamente sbagliata dopo l’inizio del conflitto siriano. Anche oggi un calo di attenzione, dopo anni in cui il fenomeno jihadista è stato al centro del lavoro di intelligence e mondo politico, è comprensibile e fisiologico, ma anche pericoloso.

 

EA: L’Italia in particolare, cosa rischia e quanto è interessata dalla minaccia jihadista?

Lorenzo Vidino: Nella fase che si è appena conclusa l’Italia è stata una fortunata eccezione. Siamo stati uno dei pochissimi paesi dell’Europa occidentale a non aver subito attentati, anche se alcuni tentativi ci sono stati. Ancora più rivelatorio dell’eccezionalità italiana è, a mio parere, il numero dei foreign fighters partiti dall’Italia. Se confrontiamo il dato italiano (circa 130 combattenti) con quello francese (quasi 2000), inglese e tedesco (mille ciascuno) o anche di paesi molto più piccoli del nostro (penso agli oltre 300 foreign fighters austriaci), è ben evidente che l’Italia negli ultimi anni si è dovuta confrontare con un problema di radicalizzazione quantitativamente (e qualitativamente) molto inferiore a quello della maggior parte dei paesi europei. Non siamo immuni dal fenomeno, e molte delle dinamiche che si vedono altrove (radicalizzazione nelle carceri, crescente numero di convertiti e donne, spontaneismo) si registrano anche da noi, solo che in misura notevolmente inferiore. Ciò è dovuto ad un insieme di fattori, dal gap demografico che ci distanzia dagli altri paesi europei (solo ora cominciamo a vedere da noi un numero amplio di seconde generazioni, il gruppo demografico che negli altri paesi europei è stato più soggetto alle sirene dello Stato Islamico), al buon operato del nostro sistema antiterrorismo, che è riuscito attraverso un uso sapiente di varie tattiche (in primis quella delle espulsioni) a mantenere le dimensioni del fenomeno ad un livello relativamente basso. Come mantenerlo tale è la sfida per i prossimi anni.

 

 

Enrico Casini è Direttore dell’Associazione culturale Europa Atlantica. Aretino, laureato in Scienze internazionali all’Università di Siena, si è perfezionato presso il Corso Executive in “Affari strategici” della Luiss “Guido Carli” di Roma. E’ stato Capo della segreteria del Presidente della Delegazione parlamentare italiana alla NATO. Si occupa di studi strategici, terrorismo, politica internazionale e italiana.

 

 

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