L’attentato a Londra e la pericolosità del terrorismo jihadista

L’attacco terroristico di Londra, rivendicato dall’ISIS, ripropone l’attualità del tema della minaccia terroristica in Europa. L’analisi di Enrico Casini

I fatti tragici di Londra, sul London Bridge, a cui hanno fatto seguito poche ore dopo un evento simile nelle modalità a l’Aia (in questo secondo caso tutte da verificare ancora cause e movente dell’atto, ma le autorità al momento propendono più per l’ipotesi di un gesto di follia ), hanno però riportato al centro dell’attenzione dei media il tema della minaccia terroristica in Europa. Dopo diverse settimane di silenzio e disinteresse in cui, a parte l’impennata di attenzione mediatica dovuta all’annuncio della morte di Al Baghdadi, di questo tema si erano continuati ad occupare solo gli addetti ai lavori e pochi altri.

L’attacco londinese, rivendicato infatti da ISIS (il primo dopo il cambio di vertice), presenta caratteristiche tipiche di molti atti terroristici di matrice jihadista accaduti recentemente. Svoltosi sullo stesso London Bridge dove due anni fa, il 3 giugno 2017, morirono 8 persone in seguito ad un altro attacco,  è stato portato a termine da un soggetto noto alle autorità e già accusato e condannato per terrorismo. Usman Khan, questo il nome dell’attentatore, fermato dai passanti e poi ucciso dalle forze dell’ordine, indossava una cintura esplosiva, rivelatasi poi finta; era stato già condannato per terrorismo nel 2012 ed era in libertà vigilata, con il braccialetto elettronico. Questo non gli aveva impedito, come è evidente, di condurre l’attacco, nello stesso luogo affollato dove  nel giugno del 2017 altri tre attentatori avevano colpito, sempre con cinture esplosive false e armati di coltelli.

Ovviamente in queste ore la polemica sul fatto che un soggetto simile, già noto e già condannato dalla autorità fosse in condizioni di poter colpire ancora, come avvenuto, sta interessando media e politica britannica, a pochi giorni peraltro dalle elezioni politiche. Elezioni in cui, il tema terrorismo non era stato affatto al centro del confronto tra le forze politiche. Ma per quanto verranno verificate nelle prossime ore e giorni eventuali errori o responsabilità sul caso specifico, rimane ancora una volta evidente quanto la minaccia terroristica jihadista sia attuale, e sopratutto anche quanto simili attacchi mantengano in Occidente una alta percentuale di pericolosità e di imprevedibilità.

L’Europa tutta rimane fortemente esposta al rischio di attacchi improvvisi, condotti spesso con strumenti e modalità “artigianali”, magari realizzati anche semplicemente per emulazione, da soggetti autonomi o autoradicalizzati e non sempre inseriti in contesti organizzati o reti definite. O anche soltanto ispirati nelle modalità dalle nuove evoluzioni del terrorismo, ma originati da altre cause, estranee allo stesso jihadismo. Attacchi poco complessi e dal basso o bassissimo costo (si colpisce spesso in luoghi pubblici affollati senza particolari obiettivi se non quello di colpire con strumenti di facile reperimento), ma dall’elevato potenziale di impatto emotivo sui media e sull’opinione pubblica.

Anche per questi motivi, negli ultimi anni, la dinamica degli attacchi terroristici con coltelli e armi da taglio, e spesso anche in combinazione con uso di veicoli lanciati contro civili inermi, sembra essere diventata, forse anche per la bassa difficoltà di reperimento degli strumenti necessari, come una delle più utilizzate da gruppi di attentatori o anche da singoli terroristi. Inizialmente in Israele, dalla “l’Intifada dei coltelli”, si erano sperimentati questi tipi di attacchi, spesso attraverso l’azione di singoli attentatori diretti a colpire civili indifesi in luoghi pubblici (strade affollate, fermate di autobus, code). In poco tempo sono diventati un “modello”di largo impiego. Veicoli lanciati contro la folla e attacchi improvvisi con armi da taglio sono in effetti diventate modalità molto diffuse, e in alcuni casi, per il primo tipo, anche con risultati davvero drammatici se si pensa per esempio al numero di vittime realizzate di attacchi come quelli di Nizza o Berlino (dove furono impiegati dei camion lanciati contro la folla).

Lupi solitari e attentatori autoradicalizzati, “jihadisti della porta accanto”, che decidono l’azione in maniera spesso improvvisa, anche svincolata da gruppi o comandi specifici, rientrano pienamente nella tipologia della nuova generazione di terroristi che nel corso degli ultimi anni, in particolare nelle seconda decade degli anni duemila, hanno più volte colpito in Occidente. La nuova generazione della “Jihad fai da te” si è affermata nel corso degli ultimi anni come parte della terza evoluzione del jihadismo. Uno dei principali teorici di questa nuova evoluzione è stato, alcuni anni fa, il siriano Abu Musab Al-Suri, per alcuni anni ospite del Londonistan inglese, uno dei primi a teorizzare il nuovo jihad “orizzontale”, diffuso, e libero dagli schemi gerarchici classici della organizzazioni piramidali come Al-Qaeda, fondato più sull’azione estemporanea di singoli individui e gruppi autonomi, e meno su quella organizzata delle cellule strutturate. Un’evoluzione che sopratutto attraverso il web e i social network è stata resa possibile in anni recenti e che ha trovato terreno fertile per riprodursi nelle periferie delle grandi città europee.

Un’evoluzione della minaccia terroristica jihadista, in cui gli attacchi spesso vengono pensati e organizzati nello spazio di poco tempo, in maniera “domestica”, da soggetti spesso autoarruolati o radicalizzati e istruitisi autonomamente attraverso il web, diventato uno strumento utilissimo non solo per la propaganda e l’indottrinamento, ma anche per veicolare le istruzioni pratiche per realizzare armi e strumenti per colpire: dalle pentole a pressione ai coltelli da cucina. Di casi ed esempi ormai se ne possono fare molti, rispetto a questa evoluzione del terrorismo jihadista, dagli attentati alla maratona di Boston agli attacchi di pochi giorni fa a in Inghilterra.

Londra, e la Gran Bretagna, sono state già teatro, nel tempo, di numerosi attentati di matrice jihadista, non solo simili a questo più recente. Del resto la Gran Bretagna è uno dei paesi più interessati in Europa dal fenomeno dei Foreign Fighters ( altro grande tema che incombe sull’Europa soprattutto ora con il riacutizzarsi della crisi siriana). Come abbiamo ricordato già nel 2017 avvennero due attentati a Londra, uno sullo stesso London Bridge e uno, a marzo, a Westminster. E poi va ricordato l’attacco suicida di Manchester, sempre nel 2017, durante il concerto della popstar Ariana Grande, con 23 morti e 250 feriti ( la stessa Manchester era stata teatro a ottobre di questo di un altro attacco, in un centro commerciale, con alcuni feriti accoltellati .

Ma va ricordato che nel luglio 2005 a avvenne il secondo grande attacco terroristico europeo rivendicato da Al Qaeda, dopo quello nelle stazioni di Madrid del Marzo 2004. Quattro attentatori suicidi di cittadinanza britannica, tra i quali uno era un convertito all’Islam, giovani delle periferie londinesi provenienti da normalissime famiglie di immigrati integrati nella società inglese, condussero uno degli attacchi più spettacolari e sanguinario degli ultimi anni in Europa. Un attacco che, al di là delle sue caratteristiche “operative”, già al tempo segnò un cambio rilevante rispetto al passato proprio sulla tipologia e le caratteristiche degli attentatori, cambio che nel tempo, si è andato affermando quasi come una regola di base. Gli attentatori, nel corso degli ultimi anni, sono stati quasi sempre persone nate o vissute per larga parte della propria vita negli stessi paesi dove hanno portato a termine gli attacchi. La maggioranza non ha avuto alcuna esperienza all’estero di militanza o combattimento in fronti di guerra all’interno di milizie jihadiste.  Sono giovani figli di famiglie integrate, spesso con storie personali diverse e con motivazioni differenti di adesione all’ideologia jihadista, ma cittadini europei di quegli stessi paesi. Quindi difficilmente identificabili, integrati nel contesti sociali in cui vivono, studenti, lavoratori, disoccupati europei, spesso molto giovani, con alle spalle storie diverse di successi o fallimenti personali e familiari nei quali, ad un certo punto e con cause difficilmente prevedibili, è scattata una molla che li ha portati a diventare terroristi jihadisti. In alcuni casi il lasso di tempo in cui questa molla è scattata, tra l’autoarruolamento e l’azione, è stata molto breve e raramente figlia di un lungo processo di indottrinamento ideologico. Le origini di questa molla, sul perché scatti, perché migliaia di giovani europei simpatizzino per i miliziani del “Califatto”o alcuni di essi siano anche passati in azione, ci si divide e si discute da anni tra ipotesi e teorie diverse.

È indubbio però che l’attacco del luglio 2005 a Londra segnò un cambiamento decisivo, sulle caratteristiche personali degli attentatori, che poi, ha anticipato una delle novità più significative della terza generazione del jihadismo e dei suoi protagonisti in Europa. Questo cambio avvenne nello stesso periodo in cui  anche l’azione sanguinaria di Abu Musab Al-Zarqawi in Iraq, sia sul piano ideologico che pratico attraverso l’inizio dell’uso del web e dei social network per pubblicizzare azioni terroristiche ed  esecuzioni, ha inciso fortemente nell’evoluzione del jihadismo e ha determinato le condizioni di base che poi hanno reso possibile anche l’avvento di ISIS.

Londra resta uno dei luoghi, nella storia recente, più coinvolti e più rilevanti nell’evoluzione di queste nuove forme di terrorismo jihadista europeo. Ma come il resto d’Europa, e in particolare la Francia, ha nuovamente testato la propria fragilità e permeabilità di fronte a potenziali attacchi improvvisi.

Questo genere di azioni, per le loro caratteristiche e per le modalità con cui possono essere condotte, oltre che per le caratteristiche di coloro che le conducono, sono sempre più difficilmente prevedibili. Gli obiettivi potenziali sono infiniti, e anche coloro che possono potare a termine, non sempre facilmente individuabili. E anche in paesi come la Gran Bretagna, che ha una lunga storia ed esperienza sul fronte della lotta al terrorismo, non sempre diventa possibile impedirli.

Per quanto se ne parli troppo poco, e spesso male, e per quanto sia necessario evitare di fomentare nell’opinione pubblica paure irrazionali e sentimenti di intolleranza, è evidente che questo genere di minaccia, con tutta la complessità che la caratterizza, non sarà facilmente sconfitta e superata in tempi rapidi.  Pericolosità e imprevedibilità delle nuove forme di terrorismo jihadistae e anche delle recenti forme di estremismo violento che si sono manifestate in Europa, presuppongono proprio per la complessità che le caratterizza uno sforzo di comprensione e di reazione che deve vedere coinvolte non solo le autorità preposte, ma anche la società civile e le istituzioni in tutte le loro organizzazioni.

L’azione di prevenzione diventa essenziale come strumento necessario per tentare di bloccare sul nascere fenomeni di radicalizzazione prima ancora che possano maturare non solo l’azione in se, ma la stessa volontà di condurla. Una prevenzione che deve essere sviluppata in maniera uniforme e con strumenti simili in tutta Europa e non affidata più all’iniziativa dei singoli paesi.

Purtroppo su questo fronte si scontano ritardi, in alcuni paesi in particolare, che non sono più tollerabili. Prevenire, o almeno disporre degli strumenti e delle risorse necessarie a realizzare un sistema integrato e diffuso di prevenzione delle diverse forme di radicalizzazione e diffusione dell’estremismo violento, non solo di matrice jihadista, diventa ogni giorno più necessario anche per un paese come l’Italia. La proposta di legge Dambruoso–Manciulli, è stata un tentativo di dare al nostro paese un sistema normativo di prevenzione e deradicalizzazione. Si può intanto ripartire da lì, per riportare al centro del confronto pubblico questo tema e provare a produrre una qualche risposta concreta e utile.

Sarebbe molto utile poter disporre di un simile impianto di norme nazionali sul versante preventivo, e magari, nel tempo disporne insieme a tutti gli altri paesi europei, condividendo pratiche, strumenti, regole comuni a tutti sul versante preventivo, ma anche su repressivo, dove rimangono ancora notevoli differenze tra paese e paese. Sarebbe un passo molto rilevante per affrontare questa minaccia e soprattutto cercare di impedire, o prevenire, le sue manifestazioni più improvvise.

Enrico Casini Direttore di Europa Atlantica

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