La deradicalizzazione in Arabia Saudita: il Mohammed Bin Naif Counseling and Care Center di Riyadh

Il programma di deradicalizzazione nel Regno dell’Arabia Saudita è considerato uno dei più completi al mondo. Il cuore di questo programma è il Mohammad Bin Naif Counseling and Care Center a Riyadh. Storia, attività, finalità del programma saudita descritti e raccontati in questo report.

Il programma di deradicalizzazione saudita è considerato uno dei più completi e più di successo al mondo ed il suo fulcro è il Mohammad Bin Naif Counseling and Care Center di Riyadh.

Le autorità del Regno dell’Arabia Saudita sono state le prime a comprendere come non sia possibile vincere lotta al terrorismo solamente con le cosiddette “hard measures” (come operazioni di militari o di polizia), ma vi sia la necessità di strumenti di anti-radicalizzazione e deradicalizzazione. Il Bin Naif Center è appunto la pietra miliare della strategia di deradicalizzazione.

In aggiunta ad essere uno dei programmi più onnicomprensivi, quello saudita è anche uno dei più risalenti, con lo stesso centro inaugurato nel gennaio 2005, a seguito degli attentati contro i compound occidentali di Riyadh che hanno causato più di trenta morti. Dopo quel bagno di sangue il governo saudita si rese conto che i terroristi sauditi non erano solamente interessati a compiere il jihad all’estero, ma erano attivamente coinvolti nel cercare di attaccare il regno della dinastia Saud, considerato come illegittimo dallo stesso fondatore di al-Qaeda Osama bin Laden,[1] (in seguito anche dallo stesso Stato Islamico, che in diversi proclami si è scagliato contro la famiglia regnante, “colpevole”, a suo dire, di ipocrisia in quanto alleata con l’occidente).[2]

Prima di tutto, dal punto di vista legislativo, i centri di deradicalizzazione hanno le loro fondamenta negli artt. 88 e 89 della Terrorism Crime Law del 2014 (emanata con decreto reale 16/M), i quali specificano come centri specializzati debbano essere istituiti per coloro che sono stati condannati per terrorismo, in modo da “correggere le loro idee e rinforzare la loro affiliazione nazionale”. Dal punto di vista della comunità internazionale, nel 2016, dopo i molteplici attentati ad opera dell’ISIS e il numero senza precedenti di radicalizzati pronti a colpire in nome del jihad,  il Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU aveva esortato gli stati membri ad “adottare centri di riabilitazione e strategie di reintegrazione per foreign fighters di ritorno…e di adottare un approccio onnicomprensivo che includa lo sviluppo di centri nazionali per l’assistenza e la deradicalizzazione”,[3] richiamando quindi quanto già stato attuato in Arabia Saudita.

Secondo la definizione ufficiale, il Mohammed bin Naif Center è “un istituto di correzione che si occupa di riabilitazione intellettuale attraverso una metodologia scientifica specializzata basata sulle leggi islamiche e principi umanitari”. La stessa legge antiterrorismo del 2014 che ha disciplinato la struttura dei centri di deradicalizzazione ha anche previsto l’incriminazione dei cittadini sauditi che si recano a combattere al di fuori del territorio nazionale, con pene che vanno da tre a venti anni.[4]

L’Arabia Saudita è stata quindi una delle prime nazioni a capire l’importanza del contrasto al fenomeno dei foreign fighters, soprattutto dopo l’epopea dello Stato Islamico. La monarchia del golfo è stata anche duramente colpita dal fenomeno, con più di duemila cinquecento sauditi[5] che si sono recati a combattere nel teatro siro-iracheno in nome del califfato. In precedenza, inoltre, numerosi sauditi si erano recati nei teatri del jihad: l’Afghanistan in seguito all’invasione sovietica del 1979 (incluso lo stesso Osama bin Laden), la Cecenia (su tutti Ibn al-Khattab, che rivaleggiava con lo stesso bin Laden in quanto a popolarità nella galassia jihadista), la Bosnia, e l’Iraq dopo la guerra del 2003.[6] Di nuovo, la comunità internazionale ha reagito dopo l’Arabia Saudita, con la Risoluzione 2178 del Consiglio di Sicurezza ONU che ha chiesto agli Stati Membri di prevenire e reprimere condotte come il reclutamento, l’organizzazione, il trasporto di “individui che viaggiano in un paese diverso dal loro paese di residenza o nazionalità per lo scopo di commettere, pianificare o nella preparazione di o nella partecipazione in, atti terroristici”.[7] L’Italia ha poi recepito il contenuto di tale Risoluzione con il decreto legge 7/2015, che ha introdotto nella nostra legislazione la nuova fattispecie penale dell’organizzazione di trasferimento per finalità di terrorismo.[8] A differenza dell’Arabia Saudita, però, il nostro paese non dispone ancora di una normativa sul contrasto alla radicalizzazione e sulle misure di deradicalizzazione, che rimane la vera lacuna di un apparato legislativo antiterrorismo efficace, che fino ad ora ha contribuito ad evitare attentati in nome del terrorismo islamista sul suolo italiano.

Il programma di deradicalizzazione saudita non è rappresentato solamente dal Mohammed Bin Naif Center di Riyadh, ma è formato da cinque strutture che coprono le principali regioni dell’Arabia Saudita. Da notare che vi è anche un centro nella Provincia Orientale, la regione dove vi sono diverse aree a maggioranza sciita. Tale centro ospita appunto radicalizzati sciiti, che vengono seguiti con un programma di deradicalizzazione impostato secondo le caratteristiche del loro credo, minoritario nell’Arabia Saudita (rappresenterebbe attorno al 15% della popolazione del regno). Gli sciiti sono stati negli ultimi anni anche il bersaglio principale, insieme alle forze di sicurezza, degli attacchi dell’ISIS su suolo saudita, con la ratio di esacerbare la questione settaria del paese ed estremizzare lo scontro,[9] seguendo l’esempio portato avanti da al-Zarqawi in Iraq fino alla sua morte nel 2006.

La struttura è inoltre dotata di un consiglio superiore presieduto dal ministro dell’interno e di comitati consultivi indipendenti di natura scientifica. In aggiunta, vi è anche un centro di studi e ricerca interno che, fra i suoi compiti principali, ha quello di valutare i programmi e le performance del centro; studiare i beneficiari prima, durante e dopo il loro soggiorno presso la struttura e condurre ricerche scientifiche, anche in collaborazione con esperti provenienti dalle università saudite, su rilevanti temi sociali ed in materia di sicurezza.

Gli esperti del centro utilizzano alcune parole chiave. La prima è la devianza intellettuale (cioè quello di cui si occupa principalmente il centro) e definita come “ogni pensiero che devia dal giusto pensiero e che contraddice le leggi islamiche, gli ordini e i valori comuni”. Altra definizione importante è quella di integrazione, lo scopo ultimo del Bin Naif Center, vista come “reintegrare il beneficiario nella società in modo che eserciti il suo ruolo sociale in competenza e abilità”. Il centro definisce coloro che sono sottoposti al programma di deradicalizzazione con il termine neutro di “beneficiari” ed evitano descrizione che possano stigmatizzare l’individuo, come “criminale” o “terrorista”.  Infatti, tutti coloro che sono all’interno del centro hanno già scontato la propria pena in carcere, con la necessità di attuare un approccio più soft in questo step ulteriore specifico per la loro deradicalizzazione. Dal punto di vista operativo, invece, la strategia del centro si basa “sulle solide fondamenta su cui è costituito il sistema governativo saudita”, cioè “la Shari’a, l’osservanza delle leggi locali e globali e le regolamentazioni in relazione ai diritti umani”. Scopi ultimi di tale strategia sono:

  1. Rafforzare la sicurezza intellettuale;
  2. Promuovere la moderazione intellettuale;
  3. Costruzione cognitiva-comportamentale dei beneficiari;
  4. Aumentare le opportunità per l’integrazione dei beneficiari nella comunità;
  5. Sviluppare una conoscenza e best practices sulle problematiche relative all’estremismo intellettuale

Dal punto di vista più prettamente operativo, il Bin Naif Center opera su tre piani successivi:

  • Counseling, il primo passo per rivelare e confutare le errate convinzioni, utilizzando chiare e persuasive risposte che si basano sulla Shari’a;
  • Riabilitazione, che ha lo scopo di correggere le idee e sviluppare le conoscenze ed abilità dei beneficiari;
  • Cura, fase che mira alla reintegrazione e all’adattamento e adeguamento sociale.

Nello specifico, la fase di counseling (che inizia preliminarmente all’interno delle prigioni) si basa su tecniche scientifiche e religiose che si fondano tutte sul concetto chiave di moderazione per correggere la devianza intellettuale e sostituirla con concetti legittimi derivanti dalla legge islamica. Nella pratica, tale programma è svolto tramite colloqui ed interventi con esperti, che avvengono sia su base individuale che in gruppo. Inoltre, il programma di deradicalizzazione saudita ha anche sessioni individuali di dialogo con personale femminile, sia con terroriste in carcere (non esistendo una struttura simile al Bin Naif Center che accolga donne), che con i beneficiari (secondo le statistiche fornite sarebbero 32 gli individui che hanno fruito di colloqui con tale personale femminile). Le autorità saudite hanno compreso l’importanza del ruolo delle donne nel contrasto al terrorismo: in quanto madri, mogli e sorelle esse possono offrire una diversa prospettiva sulla deradicalizzazione e, data la loro influenza fra le mura domestiche, contribuire ad inculcare la giusta prospettiva dal punto di vista religioso e sociale agli uomini della casa.[10]

Per molti decenni, una rigida interpretazione dell’Islam secondo il credo wahhabita ha favorito, in alcuni casi, la diffusione di idee estremiste che hanno portato anche alla formazione di una comunità jihadista all’interno del regno. In aggiunta, con lo scoppio della Guerra civile siriana, alcuni leader religiosi hanno esortarono i cittadini sauditi a condurre il jihad per rovesciare il regime di Bashar al-Assad.[11] Tuttavia, questo atteggiamento è stato recentemente rivisto, anche come sostenuto da Hoda Abdulrahman al Helaissi, membro del Majlis as-Shura (organo consultivo della monarchia)[12], la quale ha spiegato come i problemi siano nati da una falsa interpretazione della religione che è stata purtroppo tollerata per almeno trent’anni. Tale interpretazione intollerante è proprio quella che è propugnata dai leader dei gruppi terroristici per attrarre nuove reclute. Similmente, lo stesso direttore del programma religioso del Bin Naif Center ha affermato come l’Arabia Saudita si adoperi nel contrasto al terrorismo con la promozione della Shari’a e della moderazione, fornendo ai beneficiari la giusta interpretazione dell’Islam. Un importante aspetto che viene evidenziato durante la formazione religiosa dei beneficiari è che solamente il re può sanzionare la chiamata al jihad, non autoproclamati califfi dell’ISIS o emiri di al-Qaeda. Oltre che sul piano religioso, nei decenni scorsi le autorità saudite avevano tenuto un atteggiamento permissivo anche dal punto di vista securitario. Infatti, in passato vi era una certa tolleranza per coloro che si recavano a condurre la lotta armata al di fuori dei confini,[13] purchè non pianificassero attentati sul suolo domestico. I foreign fighters venivano trattati in modo decisamente clemente e le pene detentive erano molto brevi.

La diversa attitudine odierna al problema dei foreign fighters ha contribuito all’aumentare dell’efficacia delle operazioni antiterrorismo, con numerosi arresti negli scorsi anni e, congiuntamente, ad una riduzione notevole degli attentati compiuti con successo. All’interno del centro, inoltre, i beneficiari seguono anche lezioni dove sono descritti i vari gruppi terroristici, per dare loro le corrette informazioni in una sorta di “contropropaganda”, per far capire loro come sono stati ingannati da fanatici che utilizzano specifici passi del Corano o della Sunnah per giustificare le proprie azioni, senza guarda all’insieme della religione. Viene infatti evidenziato come i beneficiari del centro non siano leader terroristici, ma solamente seguaci, ai quali viene appunto insegnata la giusta interpretazione da seguire. Come dimostrato da uno studio dell’International Centre for the Study of Radicalization (ICSR) del King’s College di Londra, che ha analizzato i profili di oltre settecento foreign fighters sauditi in forza all’ISIS, la maggioranza di essi, per loro stessa ammissione, aveva una scarsa conoscenza della religione islamica.[14] Ovviamente, dato il differente bagaglio ideologico di coloro che fanno parte di al-Qaeda o dello Stato Islamico, vi saranno differenze nel loro trattamento, con un approccio più immersivo nei confronti dei primi, dotati di solito di un certo livello di conoscenza religiosa. Invece, come menzionato da uno dei direttori del centro, l’organizzazione terroristica fondata da al-Baghdadi, “non fa selezione all’ingresso” nei confronti di coloro che sono ignoranti della fede islamica.

Ciò che rende il Bin Naif Counseling and Care Center una così importante istituzione a livello globale per la deradicalizzazione è la sua onnicomprensività: ai beneficiari non sono solamente impartite conoscenze a livello religioso per confutare la loro interpretazione estremista senza fondamenta coraniche; essi ricevono anche (e soprattutto) importanti lezioni dal punto di vista sociale, psicologico e culturale allo scopo di annullare la loro pericolosità e farli reintegrare con successo all’interno della società saudita. Il programma sociale riveste un’importanza chiave perchè tratta i diversi aspetti che può avere la personalità di un individuo. Dato che disturbi sociali come l’impulsività o l’iper-aggressività, le problematiche più comunemente riscontrate secondo gli specialisti del centro, possono caratterizzare coloro che hanno passato molti anni in un gruppo terroristico, tale trattamento è decisivo per fare in modo che, al loro rientro in libertà, non manifestino più comportamenti antisociali che li porrebbero in difficoltà nelle loro relazioni, sia familiari che non. Un altro aspetto fondamentale è l’attenzione che è rivolta all’insegnamento di competenze decisive nel trovare un’occupazione dopo il percorso di deradicalizzazione. Nonostante il fatto che le stesse autorità del Bin Naif Center ci tengano a sottolineare che non garantiscono ai beneficiari di trovare loro un lavoro appena usciti dal centro, nondimeno, vi è un focus particolare su abilità, competenze professionali ed istruzione (anche a livello universitario) ed altre capacità da poter sfruttare successivamente. L’Arabia Saudita si è infatti accorta presto come la radicalizzazione, e quindi anche il terrorismo, siano legati all’insoddisfazione personale, che può essere anche generata dalla mancanza di opportunità lavorative. In questo caso, quindi, il supporto fornito dal Bin Naif Center può rivelarsi decisivo.

Il programma sociale non si occupa solamente dei problemi personali che riguardano la figura del beneficiario, ma coinvolge anche suoi rapporti interpersonali, sia con i familiari più intimi che con altri soggetti a contatto con esso. Tale ultimo punto si basa sulla cosiddetta “Teoria delle cinque M” (dalla lettera dell’alfabeto arabo mim, che può essere assimilata alla nostra emme), che si esplicita in altrettante categorie con cui il beneficiario entrerà in contatto una volta lasciato il centro.

  1. Al Muhab (l’amore) = è la famiglia più prossima del beneficiario. Il direttore del programma sociale menzione il detto arabo “a volte il troppo amore uccide” per descrivere il concetto secondo il quale la famiglia, con un atteggiamento troppo pressante, potrebbe causare problematiche nel recupero sociale del beneficiario. Il centro insegna ad esso come superare la pressione familiare, mentre alla stessa famiglia sono impartire lezioni su come comportarsi al meglio nei confronti del loro congiunto appena uscito da un centro di deradicalizzazione.
  2. Al Muttahimunak (quelli che incolpano) = sono i familiari ad esclusione dei parenti più stretti (ad esempio zii o cugini). Descritti in tale modo perché punteranno il dito nei confronti del beneficiario, reo di aver portato vergogna e disonore sulla famiglia, anche dopo che egli abbia pagato il suo debito con la giustizia saudita, scontando la pena detentiva per terrorismo. Viene soprattutto insegnato loro ad avere un atteggiamento meno severo.
  3. Al Mushakkik (coloro che sono sospettosi) = possono essere individui come ex compagni di scuola, di università o i vicini di casa del beneficiario. In generale sono le persone che tenderanno a non voler avere più nulla a che fare con il soggetto a causa del suo passato criminale. Tali atteggiamenti sono causa di danni alle relazioni interpersonali del beneficiario e renderanno ad esso più complicata la possibilità di ottenere un lavoro.
  4. Al Mumajjid (coloro che glorificano) = gli estremisti che vorranno reclutare di nuovo il beneficiario per il suo passato criminale.  Riempiranno il soggetto di elogi per le azioni compiute o per la sua appartenenza ad un’organizzazione terroristica.
  5.  Al Muraqib (l’osservatore o colui che sorveglia) = Sono i servizi di sicurezza, membri del Mabahith (l’agenzia saudita che si occupa di antiterrorismo e counterintelligence). Avranno il compito di seguire il beneficiario per un determinato lasso di tempo dopo la fine del suo percorso di deradicalizzazione (sia in modo visibile che nascosto) in modo che il beneficiario sia sempre consapevole di doversi comportare in modo adeguato e rispettoso della legge.

Dato che alcuni beneficiari possono aver passato anche più di dieci anni in prigione per reati di terrorismo, viene insegnato loro come reagire ai cambiamenti sociali familiari (ad esempio i figli piccoli potrebbero essere diventati dei teenagers) e sono anche quindi predisposte visite regolari con lo scopo di adattarsi gradualmente alle nuove situazioni. Inoltre, i beneficiari hanno anche la possibilità di uscire dal centro per visitare i familiari nelle loro abitazioni, con una frequenza che aumenta con l’avvicinarsi della fine del loro trattamento presso il centro. Tali interazioni con la famiglia sono incoraggiate anche perché i responsabili del centro evitano in tutti i modi di dipingere i beneficiari come degli emarginati sociali. Dato che gli elementi tribali nella società saudita sono ancora forti, la stessa tribù del beneficiario gioca un ruolo importante nel processo di deradicalizzazione. Il fatto di avere un membro della tribù colpevole di terrorismo può essere visto come qualcosa che getta disonore su tutto l’insieme, un insulto al benevolente re; per questo motivo anche i membri più prominenti della tribù sono attivamente coinvolti nell’aiutare il beneficiario a reintegrarsi con successo nella società.

Oltre al supporto di natura sociale, il Bin Naif Center fornisce ai beneficiari anche contributi economici, nello specifico può aiutare loro ad acquistare un’automobile e/o un’abitazione. L’acquisto di una casa non è importante solo per il maggiore esborso economico, ma anche e soprattutto perché è la base per costruirsi una famiglia. Lo stesso programma di Saudi Vision 2030, l’ambizioso piano di sviluppo economico voluto dal principe ereditario Mohammed bin Salman, sottolinea l’importanza che la proprietà di una casa gioca nel “rafforzare la sicurezza familiare”[15] ed una forte famiglia è uno scudo molto resistente contro l’estremismo violento. Il personale del Bin Naif center aiuta i beneficiari anche a trovare una compagna di vita, pagando ad esempio le spese relative al matrimonio, sempre con la ratio di rafforzare l’unità familiare, evitando che i deradicalizzati possano sentirsi abbandonati nel corso della loro vita e quindi più facilmente permeabili dalle idee estremiste. Il già menzionato studio sui foreign fighters sauditi dell’ICSR ha infatti evidenziato come più del settanta percento di coloro che avevano lasciato il regno per unirsi all’ISIS erano celibi,[16] corroborando la teoria della strategia di deradicalizzazione saudita.

Per quanto riguarda un altro aspetto del programma sociale, cioè le attività sportive, i beneficiari dispongono di un campo di calcio e da basket, piscina e di un centro ricreativo, con presenza di numerosi tavoli da biliardo, calcio balilla, tennis tavolo, inoltre a postazioni dove giocare a scacchi e a carrom (un gioco con pedine popolare nel sub-continente indiano e nella penisola araba). Vi è pure una palestra, con moderni macchinari per il sollevamento pesi e tapis-roulant. Oltre allo sport, i beneficiari frequentano anche corsi di terapia d’arte presso il centro, dove viene loro insegnato a sfogare i propri problemi e le loro frustrazioni personali con il pennello, anziché con la violenza. Un edificio all’interno del Bin Naif Center è adibito da vera e propria galleria d’arte, dove vengono mostrate le opere realizzate dai beneficiari, che comprendono sia quadri figurativi che opere di calligrafia islamica. Alcuni autori di queste opere sono ex detenuti di Guantanamo e alcuni soggetti riprendono infatti il centro di detenzione e le famigerate tute arancioni.

Il centro è dotato anche di una Psychological and Social Services Unit, la sezione che si occupa, appunto, della parte più psicologica. In questo caso il giudizio clinico sui beneficiari inizia con interviste individuali a carattere personale. In questa fase alcuni di essi potrebbero inizialmente rifiutarsi di collaborare perché potrebbero considerare le loro controparti come agenti governativi o vere e proprie spie. Proprio per questo motivo, il personale del centro sottolinea sempre come il loro lavoro non includa la raccolta di informazioni e sia coperto dalla massima confidenzialità, come il segreto professionale che vincola medici ed operatori sanitari. A seguito delle interviste cliniche i beneficiari prendono parte a sessioni di terapia sia individuale che di gruppo, dove viene insegnato loro, ad esempio, a gestire lo stress o la rabbia. In aggiunta, molti di essi sono anche affetti da traumi infantili. Inoltre, i beneficiari che sono dipendenti da sostanze stupefacenti sono anche sottoposti a programmi di disintossicazione ed il centro ha avuto anche fare con soggetti dipendenti da antidolorifici, che venivano somministrati loro dal gruppo terroristico prima degli scontri armati. Infine, viene anche insegnato ai beneficiari come utilizzare i social media in maniera sicura e corretta.

Il Bin Naif Center coopera anche con associazioni ed ONG, la maggioranza delle quali a carattere religioso, ma non mancano anche quelle di natura sportiva e socio-psicologica. Ha anche una partnership con l’Organizzazione per la Cooperazione Islamica (che ha la sede centrale proprio in Arabia Saudita, a Jeddah) e la King Saud University di Riyadh. In aggiunta, il centro si occupa di organizzare eventi internazionali dove divulgare il proprio know-how alle istituzioni antiterrorismo estere, anche dei paesi occidentali. Riceve inoltre molte visite da delegazioni nazionali e da organismi internazionali (ad esempio la NATO) e fornisce anche consulenza in materia. Il Bin Naif Center ha ricevuto il plauso di molti, inclusa l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che, nell’esortare gli stati ad adottare strategie di riabilitazione e reintegrazione, ha specificamente menzionato il ruolo del centro saudita nel “contrasto alle ideologie ed attività terroristiche”.[17] Anche lo stesso Ben Emmerson, ex inviato speciale ONU per la promozione e la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali ha lodato la professionalità del Bin Naif Center e la sua creativa metodologia nella lotta alla radicalizzazione.

La longevità e l’ambizione della strategia di deradicalizzazione saudita sono descritte appieno dai numeri che ci vengono descritti: il programma ha coinvolto più di 6700 persone in totale, comprese le famiglie dei beneficiari (come sopra descritto la partecipazione familiare è uno dei cavalli di battaglia del programma saudita) ed ha coperto otto delle tredici regioni del regno. Nello specifico, sono passati per il centro 4750 beneficiari, di cui 137 provenienti dal centro di detenzione USA di Guantanamo, mentre la restante stragrande maggioranza sono ex detenuti di prigioni locali, con più di 1413 beneficiari negli ultimi tre anni, anche se il picco si è avuto nel 2012, con 1411 soggetti che hanno frequentato il centro.  Per quanto riguarda i numeri attuali, nel mese di febbraio 2020 vi erano 150 individui in tutte e cinque le strutture del regno, con un numero massimo di 400 beneficiari che possono fruire del trattamento di deradicalizzazione contemporaneamente. Le autorità saudite sottolineano l’elevato successo del loro programma di deradicalizzazione, con un tasso positivo dell’88%, con numeri positivi, viene detto, anche per quanto riguarda i detenuti passati per Guantanamo. Purtroppo negli anni non sono mancati anche alcuni casi di insuccesso o di recidiva, come quello di Ahmed Shayea, attentatore suicida appartenente all’organizzazione terroristica al-Qaeda in Iraq fondata da Abu Musab al Zarqawi. Nel più classico dei modus operandi del gruppo, nel 2004 Shayea guidò un’autobomba suicida (in gergo SVBIED, da suicide vehicle-borne improvised explosive device) contro il compound dell’ambasciata giordana di Baghdad, in un attacco simile a quello perpetrato ai danni dei nostri militari a Nassiriyah nel novembre 2003, che provocò la morte di diciannove connazionali. Shayea, però, sopravvisse miracolosamente alla potente deflagrazione, nonostante l’autocisterna di cui era alla guida fosse riempita di esplosivo (l’attentato uccise comunque nove persone, oltre a ferirne più di cinquanta). Dopo un periodo passato in Iraq, Shayea venne rimpatriato dalle autorità saudite e venne preso in carico dal Bin Naif Center, dove prese parte al programma di deradicalizzazione e rinnegò l’ideologia jihadista. Dopo aver frequentato il programma con profitto venne quindi rilasciato. Ma nel 2014 Shayea è ricomparso in Siria, dove si sarebbe aggregato all’ISIS.[18] Un caso che comunque non sconfessa l’alto numero di successi ottenuti dal programma.

Paesi confinanti come l’Iraq e lo Yemen hanno nel recente passato usato il programma come base per le loro strategie di deradicalizzazione, che, però, non avevano né i fondi né la onnicomprensività di quella saudita, cosa che si può anche vedere nei più inferiori tassi di successo e negli obiettivi più limitati. Infatti, entrambi i programmi hanno avuto molta difficoltà nel provvedere adeguato supporto successivamente al rilascio,[19] uno dei componenti più importanti della strategia saudita per la deradicalizzazione. Attualmente, il programma dell’Arabia Saudita rimane il più completo programma di deradicalizzazione, non solo nel Medio Oriente, ma a livello globale. Anche se i suoi caratteri unici e le peculiarità della società saudita rendono la sua esportazione in occidente di fatto impossibile, gli stati europei beneficerebbero sicuramente di una maggiore conoscenza del Mohammed Bin Naif Counseling and Care Center e consapevolezza dei suoi principi per la deradicalizzazione, soprattutto ora, con la sconfitta territoriale dello Stato Islamico e l’incalzante problematica del cosa fare con i foreign fighters di ritorno, che in un futuro, anche decisamente vicino, potrebbero creare notevoli problematiche dal punto di vista della sicurezza[20] (sia direttamente, perpetrando attacchi terroristici, che indirettamente, atteggiandosi a reclutatori o ideologi) se non deradicalizzati.

Francesco Conti è un analista e ricercatore. Si è laureato in giurisprudenza presso l’Università di Bologna e ha conseguito un master’s degree in Terrorism, Security and Society presso il King’s College di Londra.


[1] Hoffman Bruce & Reinares Fernando (ed.), “The Evolution of the Global Terrorist Threat: From 9/11 to Osama bin Laden’s Death”, Columbia University Press, 2014, p. 549-560

[2] Limes Rivista Italiana di Geopolitica, “Arabia (non solo) Saudita”, marzo 2017, p. 22

[3] Vidino Lorenzo, “Deradicalization in the Mediterranean: Comparing Challenges and Approaches”, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, p. 141

[4] The New York Times, “Saudi Arabia: Decree Lays Out Penalties for Fighting Abroad”, 3 Febbraio 2014, disponibile su https://www.nytimes.com/2014/02/04/world/middleeast/saudi-arabia-decree-lays-out-penalties-for-fighting-abroad.html

[5] Nance Malcolm, “Defeating ISIS: Who they Are, How they Fights, What they Believe”, Skyhorse Publishing, 2016, p. 168

[6] Zelin Aaron Y., “The Saudi Foreign Fighter Presence in Syria”, CTC Sentinel, Aprile 2014, p. 10

[7] Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, Risoluzione 2178, 2014, art. 5

[8] Codice penale, art. 270 quater

[9] Al-Saud Abdullah bin Khaled, “Deciphering IS’s Narrative and Activities in the Kingdom of Saudi Arabia”, Terrorism & Political Violence, 2017, p. 3

[10] Pektas Serafettin & Leman Johan, “Militant Jihadism: Today and Tomorrow”, Leuven University Press, 2019, p. 114

[11] Supra nota 4, p. 11

[12] Dichiarazioni rese il 5 febbraio 2020 al King Faisal Center for Research and Islamic Studies di Riyadh alla presenza dell’autore.

[13] Byman Daniel, “The Homecomings: What Happens When Arab Foreign Fighters in Iraq and Syria Return?”, Studies in Conflict & Terrorism, 2015, p. 590

[14] Al-Saud Abdullah bin Khaled, “Saudi Foreign Fighters: Analysis of Leaked Islamic State Entry Documents”, International Centre for the Study of Radicalisation, 2019, p. 3

[15] Vision 2030 Saudi Arabia, p. 28

[16] Supra nota 13, p. 11

[17] Assemblea Generale Nazioni Unite, Consiglio dei Diritti Umani, trentunesima sessione, 23 marzo 2016.

[18] Beaumont Peter, “‘Living suicide bomb’ rejoins al-Qaida after Saudi deprogramming”, 18 gennaio 2014, https://www.theguardian.com/world/2014/jan/18/suicide-bomb-al-qaida-saudi-ahmed-al-shayea

[19] Rabasa Angel et al, “Deradicalizing Islamic Extremists”, RAND Corporation, 2010, p. 53, 80

[20] Radicalisation Awareness Network, “RAN MANUAL Responses to Returnees: Foreign Terrorist fighters and their families”, July 2017, p. 23

Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni di Europa Atlantica

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