Comprendere la radicalizzazione jihadista. Il caso Italia

Pubblichiamo una breve presentazione, da parte degli autori, del Report “Comprendere la radicalizzazione jihadista. Il caso Italia” della European Foundation for Democracy e Nomos Centro Studi Parlamentari, già presentato nel mese di novembre 2019 alla Camera.

Il report della European Foundation for Democracy e di Nomos Centro Studi Parlamentari “Comprendere la radicalizzazione jihadista. Il caso Italia”, presentato a Novembre 2019 presso la Biblioteca della Camera dei Deputati, ha analizzato numerosi procedimenti penali italiani riguardanti il terrorismo jihadista e reati satellite. Tali procedimenti hanno restituito uno scenario complesso in merito a 54 profili di individui coinvolti nelle indagini, all’ideologia che ha ispirato le loro scelte e al loro processo di radicalizzazione.

In questo articolo viene dato conto di alcuni risultati raggiunti dallo studio per quanto concerne il profilo di tali individui, le principali differenze nei processi di radicalizzazione e di reclutamento legati ad al-Qa’ida e a Islamic State, il dato ideologico e gli strumenti e i luoghi più utilizzati per fini di proselitismo e reclutamento jihadista in Italia. Per una lettura completa dei dati ottenuti, e specialmente per quanto attiene all’analisi antropologica del fenomeno, si rimanda naturalmente al report integrale (disponibile online in formato ebook).

  1. Il profilo degli individui sottoposti a procedimenti penali in Italia

Uno dei maggiori ostacoli nella comprensione del fenomeno della radicalizzazione jihadista è dato dall’impossibilità di stabilire un profilo dei soggetti radicalizzati valido per tutti i casi. Si tratta, è evidente, di un fenomeno eterogeneo, fluido e multiforme che non consente facili classificazioni. Tuttavia, esistono dei dati e delle caratteristiche in merito al profilo dei radicalizzati, già individuate in letteratura, che ritornano con ricorrenza. L’analisi dei procedimenti penali ha permesso di incrociare i dati riconosciuti dalla letteratura esistente con quelli emersi dai procedimenti stessi.

La maggior parte degli individui analizzati sono di sesso maschile. Le donne costituiscono tuttavia il 24,1% del campione e alcune di esse evidenziano caratteristiche di leadership molto spiccate. Si veda, ad esempio, il caso di Maria Giulia Sergio che riuscì nell’opera di conversione dei suoi genitori e, sostenendo l’obbligatorietà della hijrah, nel convincerli a raggiungere i territori che erano amministrati da IS. Un ricongiungimento familiare che non avvenne solo per il pronto intervento delle Forze di Polizia.

Anche Lara Bombonati, figura di rilievo nel gruppo denominato “Hayat Tahrir al-Sham”, ha avuto un ruolo assai significativo nel comparto logistico, nell’assistenza sanitaria e psicologica nonché nel prestare servizi in qualità di staffetta verso il territorio turco e verso altri territori per diretto comando di Mohamed Amine Benslimane, detto Abu Mounir, uno dei comandanti di tale gruppo.

Non da ultimo, il caso di Haik Bushra, indottrinatrice della “madrasa telematica”. La Haik, attraverso la piattaforma Skype, impartiva lezioni di ideologia jihadista volte all’odio verso i miscredenti e gli infedeli,strumentalizzando passi coranici e fatawa, a un gruppo di giovani, perlopiù donne convertite, tutte iscritte al gruppo Skype “Aqidah e Tasfsir”.

I soggetti sottoposti a procedimento penale nati in Italia costituiscono il 24,1% del campione di studio, La restante percentuale di maggioranza è invece rappresentata da individui nati in Paesi extra-Europei. Di questi, il 51,8% proviene da Paesi del Nord Africa. Sul totale del campione, gli immigrati di prima generazione costituiscono il 31,5% mentre quelli di seconda generazione il 48,1%. Tra le due generazioni si notano differenze sostanziali nei processi di reclutamento, con le seconde legate quasi esclusivamente a Islamic State attraverso forme di indottrinamento diffuse prevalentemente on line.

I soggetti autoctoni rappresentano il 20,4% del campione e anche per essi l’indottrinamento avvenuto online è una costante nei loro processi di radicalizzazione. Si tratta, per lo più, di individui incensurati, convertiti all’Islam radicale, con un reddito basso e, salvo alcune eccezioni, al di sotto della soglia di povertà. Gli individui sociologicamente italiani (cresciuti in Italia a partire dall’infanzia o dall’età preadolescenziale) sono quasi il triplo degli autoctoni (55,5%). Essi sono tutti nati da famiglia di religione musulmana o in un ambiente familiare di derivazione musulmana. I loro processi di radicalizzazione hanno tratto nutrimento sia da percorsi di indottrinamento online che da incontri faccia a faccia con i loro reclutatori. In quest’ultimo caso le relazioni intra-familiari e i legami di amicizia hanno giocato un ruolo preponderante nell’individuazione del soggetto potenzialmente arruolabile. Da notare che un terzo degli individui sociologicamente italiani presenti nel campione di studio non erano osservanti prima del processo di radicalizzazione e appartengono, dunque, alla categoria dei cosiddetti born again, soggetti che hanno riscoperto la propria religione adottando la visione più radicale dell’Islam fino ad accettare l’ideologia jihadista.

  • Tra al-Qa’ida e Islamic State

I procedimenti penali analizzati comprendono i due mondi del jihadismo globale. Le vicende legate ad al-Qa‘ida comprendono anche altri gruppi legati ideologicamente alla casa madre: Ansar al-Islam, Gamat al-Islamyya, Hizb ut Tahrir o al-Tawhid, Ansar al-Sunna e Ahl al-Sunna wa al-Jamaat, che sarebbe poi l’odierna denominazione di un’organizzazione militare pakistana, di stampo “Deobandi”,denominata “Sipah-e-Sahaba”, “Soldati dei Compagni (del Profeta)”.

Come spartiacque dei due mondi jihadisti, si situa il caso di un imputato siriano condannato, Mohamed Jrad, che ha aderito a Jabhat al-Nusra. Com’è noto, tale organizzazione dopo alcune dispute a livello strategico e teologico tra al-Qa’ida e Islamic State, ha intrapreso una via autonoma dividendosi in quattro diverse fazioni, una delle quali denominata Hayat Tahrir al-Sham, quella a cui aveva aderito Lara Bombonati.

Questi due macro-blocchi mostrano differenze strategiche e ideologiche sul come portare avanti il jihad globale; le due realtà del mondo jihadista sono in effetti entrate in conflitto non solo dal punto di vista ideologicoma anche, e soprattutto, in riferimento alle tecniche di reclutamento e alle tecniche di esecuzione, preparazione e organizzazione di attacchi terroristici.

Il mondo qaedista ha sempre reclutato individui fornendo loro un impianto teologico, ideologico e politico adeguato prima di passare al jihad nel campo di battaglia. Viceversa, nel mondo legato a Islamic State, l’impianto teologico, ideologico e politico passa in subordine rispetto alla necessità primaria di stabilire il califfato e di morire da “martiri” per la causa. A questo proposito, è interessante notare che nella sentenza emessa nei confronti di Andrea Campione (2016), i due rispettivi e distinti modi di “creare un martire” si sovrappongono. Per Campione, «l’atto supremo di culto», ossia il jihad, deve necessariamente essere accompagnato e preceduto dalla «conoscenza», la quale rappresenta un obbligo religioso-giuridico del credente. La conoscenza, intesa anche come il «fare conoscere» o rendere noto, è proprio lo scopo di Campione e dei suoi amici. Le attività di traduzione e di proselitismo messe in atto hanno l’obiettivo di diffondere, anche a un pubblico di lingua italiana, le radici ideologiche, teologiche e politiche del jihadismo. In questo, la vicenda di Campione si lega al qaedismo. Nel medesimo tempo, però, la diffusione di questa “conoscenza”, ossia l’attività di propaganda e proselitismo verso i nuovi “martiri”, avviene marcatamente sulla linea del cyber-jihad, affine soprattutto al mondo legato a Islamic State.

Il numero delle donne sottoposte a indagine è aumentato significativamente con la creazione e l’espansione del proto-stato jihadista in Siria e Iraq. Con l’avvento di Islamic State e della sua attività di propaganda, si è registrato un aumento della presenza femminile tra le file del jihadismo anche in Italia. La stessa organizzazione terroristica prevede l’utilizzo delle donne anche in scenari di combattimento, tanto che al suo interno è stata creata una brigata tutta al femminile denominata al-Khansa, un corpo di polizia speciale composto da sole donne per controllare e punire chiunque non segua la shari‘a, tra torture, abusi ed esecuzioni, formatasi nella città siriana di Raqqa. In seguito, Islamic State ha anche incoraggiato tutte le donne jihadiste, dette anche jihadibrides, a intraprendere azioni violente, soprattutto riferendosi a quelle donne, Foreign Terrorist Fighters di ritorno, rientrate nei paesi di provenienza. Dunque, non più solo spose dei mujaheddin, madri ed educatrici dei “leoncini” del califfato ma, anche, vere e proprie combattenti.

Per quanto concerne i processi di radicalizzazione relativi al mondo qaedista, i soggetti gravitanti attorno ad esso frequentavano per lo più le cosiddette “moschee-garage” le quali hanno rivestito un ruolo centrale come luoghi di radicalizzazione. Nei processi di radicalizzazione attivatisi seguendo la narrativa di IS sembra invece sussistere una prevalenza di percorsi di “auto-radicalizzazione” e “auto-addestramento” attraverso un utilizzo assai maggiore degli strumenti comunicativi e propagandistici mediatici.

Nei procedimenti legati ad al-Qa‘ida si nota inoltre come le strutture organizzative compiano azioni di raccolta fondi, di proselitismo e di reclutamento attraverso una struttura piramidale che ne scandisce tempi e modalità. Contrariamente a questo sistema organizzativo piramidale, i procedimenti inerenti a Islamic State mostrano come il terrorismo sia divenuto sempre più “fai-da-te”: ad esempio, i viaggi verso il califfato sono quasi tutti auto-finanziati e avvengono senza un appoggio logistico strutturato. A tale riguardo, va annotato come la tazkiyah (raccomandazione di un mujahid per l’aspirante jihadista) sia uno strumento utilizzato da Islamic State per adempiere a questo vuoto organizzativo, ma anche come forma di contro-spionaggio, visti i timori di infiltrazioni condotte da intelligence straniere.

  • I programmi ideologici

Dall’analisi dei procedimenti giudiziari in oggetto a questo studio emerge chiaramente come la gran parte degli indagati, siano essi legati alla galassia qaedista o a quella di Islamic State, traggano ispirazione e nutrimento per i loro propositi dalla lettura degli scritti e dei sermoni diffusi da ideologi radicali e dai cosiddetti “predicatori dell’odio”: Abu Izzadeen, Mohammed Mizanur Rahman (alias Abu Baraa), Anjem Choudary, Anwar al-Awlaki, Mohamed al-Adnani; ma anche dal teologo Ibn al-Taymiyya, dall’ideologo dei Fratelli Musulmani Sayyid Qutb, dal salafita al-Maqdisi, dai noti terroristi Osama bin Laden e Ayman al-Zawahiri, solo per citarne alcuni. Ne consegue che il termine jihad è certamente tra i più ricorrenti nei procedimenti penali suddetti, unitamente a quelli di martirio, shari‘a, kuffar, vero Islam, Ramadan e Califfato.

Anche se i procedimenti giudiziari a carico di soggetti che hanno aderito e partecipato alle varie attività dello Stato Islamico evidenziano, a causa di diversi fattori, una preparazione di natura religiosa molto più bassa – se non inesistente – rispetto agli adepti della struttura qaedista, va rilevato che in entrambi i casi l’interiorizzazione ideologica del messaggio radicale passa (anche o soprattutto a seconda dei casi) dalla consultazione di siti jihadisti, di materiale audiovisuale e di scritti rielaborati da improbabili figure e guide religiose che invitano la umma a compiere azioni terroristiche. Il Corano viene inoltre utilizzato come sorgente giustificativa delle azioni terroristiche, come nel caso di Halili El-Madhi che, durante l’ennesima lezione a favore del suo seguito, parla della «gente che insulta il Corano»e contestualmente teorizza che la Sunna impone alla comunità musulmana di uccidere chiunque offenda il testo sacro, la religione islamica e il suo profeta. L’indagato Haziraj Dake, kosovaro, classe 1991, pubblica invece un post su Instagram nell’ottobre 2016 in cui cita le parole dell’imam Abdurrahim Balla, tratto in arresto in Albania nel 2014 per reati legati al proselitismo e al reclutamento di Foreign Terrorist Fighters da inviare nei territori del Califfato e per alimentare le milizie di Jabhat al-Nusra.

Sono esattamente pensieri di questo tenore che accomunano molti dei soggetti sottoposti a procedimento giudiziario. I dettami coranici, decontestualizzati e interpretati in maniera radicale diventano strumento di legittimazione della violenza. Secondo questa narrativa, non rispettarli significa non essere più dei veri musulmani e dunque diventare degli “infedeli”, come scrive la giovanissima Foreign Terrorist Fighter di Arzergrande, Merieme Rehaily, in merito ai suoi genitori e al loro modo di vivere la religione islamica.

Chi non si uniforma alla lettura estremista del testo coranico viene inserito all’interno della cosiddetta “Teoria della Complicità”, in arabo Hukm al-Rad’i, che l’indagato Halili, nella sua attività di proselitismo, utilizzava per giustificare gli attacchi a Charlie Hebdo in Francia e quelli di Bruxelles nel 2016. In breve, chi non si oppone ai governi che, secondo tale lettura, attaccano in qualsivoglia maniera la religione islamica, diventa complice e dunque un obiettivo, anch’esso, da annientare. Nonostante il procedimento giudiziario a carico di Halili riguardi il contesto legato a Islamic State, si tratta indubbiamente di un concetto assai simile a quello espresso in passato dai vertici di al-Qa‘ida.

Questa convergenza di pensiero tra le due galassie del jihadismo qaedista e di Islamic State si palesa anche nell’attuazione del principio di depersonalizzazione della vittima. Se nella sentenza Abu Omar, legata alla realtà qaedista, tale principio è bene esplicitato dai contatti dell’imputato con il movimento salafita Ansar al-Islam, il quale conduceva campagne psicologiche atte ad affermare il «principio di depersonalizzazione della vittima, colpita non in quanto individuo, ma per fini dimostrativi», giustificando così la morte di altri musulmani a seguito degli attacchi condotti, nelle sentenze più recenti emesse nei confronti di soggetti vicini a Islamic State la depersonalizzazione della vittima sembra avvenire principalmente inglobando quest’ultima nella definizione di kafir (al plurale kuffar), ovverosia gli “infedeli” che, in quanto tali, cessano di possedere la dignità di essere umani e diventano semplici bersagli da abbattere, ovunque e con ogni mezzo possibile.

Nel contesto religioso, il dato ideologico radicale fornisce inoltre agli individui la possibilità di sentirsi migliori, di redimersi, di canalizzare le proprie frustrazioni personali e la propria rabbia nobilitando ciò che altrimenti resterebbe nell’alveo di una semplice tendenza alla violenza, di atteggiamenti deprecabili e di scarso appeal a livello pubblico. Il dato ideologico permette invece ai soggetti radicalizzati di vestire i panni dei predestinati, dei guerrieri della giusta causa, sentirsi parte di un gruppo speciale, composto da coloro che portano con sé il peso della verità e che, per questo, non possono certo essere confusi con i miscredenti né, tantomeno, vivere insieme ad essi. Appartenere ai giusti, ai buoni, ai portatori di verità significa inevitabilmente non poter essere contraddetti e questo dona al soggetto radicalizzato l’innegabile vantaggio di non dover più confrontare la sua lettura del reale con quella degli altri per raggiungere la conoscenza. Ciò produce un effetto di totale chiusura e intolleranza nei confronti della diversità perché, in ultima istanza, ciò che conta non è tanto il dato ideologico in sé quanto, piuttosto, l’effetto che esso è in grado di produrre sugli individui che decidono di adottarlo: un effetto di presa sul reale e di comprensione di una complessità altrimenti più difficilmente sintetizzabile.

  1. La questione identitaria

Dai dati risultanti dai procedimenti penali analizzati, emerge che la scelta di intraprendere la via del jihad derivi frequentemente da una “crisi di identità”, sia a livello sociale, sia a livello individuale. Una delle caratteristiche comuni a tutti gli imputati è la volontà di distruggere il modello sociale e culturale cui hanno appartenuto per costruirne uno nuovo basato sull’ideologia jihadista. Si tratta, dunque, di “abbandonare” la vita precedente per acquisirne una nuova, e non è un caso che i jihadisti vengano definiti, e si autodefiniscano, born again (nati di nuovo) o reborn (ri-nati) nell’Islam più radicale. Il fatto stesso di assumere un nuovo nome indica la volontà di cambiare identità. E così, Maria Giulia Sergio diventa Fatima; Nasr Osama Mostafa Hassan diventa Abu Omar; Meriem Rehaily diventa “Sorella Rim”; Lara Bombonati diventa Kadija; Francesco Cascio diventa Muhammad…

La crisi identitaria sembra derivare da una mancata socializzazione all’interno del gruppo di origine, che può avere diverse cause: problemi familiari (numerosi imputati hanno avuto, o continuano ad avere, problemi di relazione con uno o entrambi i genitori, ne hanno perso uno in giovane età, hanno trascorso periodi in case-famiglia o, comunque, sono stati allontanati dalla famiglia d’origine e affidati ai servizi sociali o alla Caritas; hanno carenza di riferimenti perché i genitori sono giudicati deboli o poco presenti); sentimenti generali di “ribellione al sistema”; crisi nel passaggio all’età adulta; nel caso di immigrati o dei loro figli, difficile integrazione dovuta al sentirsi, comunque, “diverso”.

Nel caso delle prime e seconde generazioni di migranti, la questione identitaria è legata a una condizione che il sociologo franco-algerino Abdelmalek Sayad ha definito di “doppia assenza”. Gli immigrati si ritrovano a non fare più parte della cultura di origine, che hanno “abbandonato”, ma non si sentono parte né della cultura né della società del paese ospitante. I loro figli si trovano in una condizione simile, in quanto cresciuti in un ambiente in qualche modo «doppio», quello della famiglia, legato al paese e alla cultura di provenienza, e quello italiano dove si sono socializzati; un ambiente profondamente diverso e, talvolta, percepito in opposizione a quello di origine. Tale situazione ne fa dei «cittadini mancati» sia nella patria di origine, sia nel paese di residenza e, nelle parole del sociologo Renzo Guolo, li intrappola «nel settore ibrido dello spazio sociale a metà tra essere sociale e non essere».

La sentenza relativa a Merieme Rehaily coglie con precisione la questione della crisi identitaria nelle argomentazioni relative alla personalità dell’imputata.

L’adesione al jihadismo rende inutile definirsi italiani o marocchini, britannici o bengalesi, francesi o algerini: si è semplicemente «musulmani»; e grazie a quell’adesione si trova una risposta che sembra definitiva e completa alla confusione esistenziale e, dunque, identitaria, definendo in termini assoluti che cos’è “Bene” e che cos’è “Male”, qual è il modo «giusto» di comportarsi, chi è il “Nemico”. Inoltre, aderire all’ideologia jihadista crea un senso di appartenenza a una comunità e può far credere all’individuo di avere trovato uno scopo e un significato “superiore” in merito alla propria esistenza.

Per quanto riguarda gli italiani convertiti, alcuni dei quali compaiono come imputati, è da notare che la conversione religiosa di per sé sembra indicare la volontà di abbandonare un certo mondo sociale e culturale per entrare in un altro. Il sociologo R.V. Travisano la definisce «una riorganizzazione radicale di identità, significato e vita», il che, spesso, implica un cambiamento profondo nei rapporti sociali più semplici, quali quelli familiari e amicali. La conversione comporta anche una modifica nelle abitudini, per esempio nel modo di vestire (indossare la gellaba, il tradizionale indumento maschile; il velo, hijab, o il niqab integrale; farsi crescere la barba), o di mangiare e di bere (proibizione del maiale e dell’alcol, digiuno di Ramadan). Inoltre, anche i convertiti diventano, in qualche modo, «diversi» rispetto alla maggioranza e possono subire (o percepire) atteggiamenti di rifiuto e di marginalizzazione, come è evidente nel caso di Maria Giulia “Fatima” Sergio.

Si può parlare di conversione, o di ri-conversione anche per molti degli imputati di origine musulmana, dal momento che, prima dell’inizio del processo di radicalizzazione, il loro sentimento religioso e la loro conoscenza dell’Islam erano assenti o molto superficiali.

  • I luoghi di proselitismo

La vasta letteratura sull’argomento indica alcune moschee e alcuni luoghi di aggregazione islamica quali centri di proselitismo, così come la famiglia, le reti amicali, il carcere e il web. Le sentenze confermano quanto indicato da studiosi ed esperti. Il caso Nasr Osama Mostafa Hassan (Abu Omar) del 2005/2006, rileva che l’imputato faceva proselitismo nella moschea di Milano in viale Jenner, in via Quaranta e in un appartamento sito in via Cilea.

Il caso Abu Omar era connesso al terrorismo di al-Qa‘ida. In quel periodo, il proselitismo nelle moschee era ancora diffuso nonostante, già dai primi anni del XXI secolo, i controlli delle forze di sicurezza e dei servizi di informazione nei luoghi di culto avessero già iniziato ad accentuarsi. Una diretta conseguenza di questo aumentato controllo fu il fatto che la cosiddetta “chiamata al jihad” iniziò a non avvenire più pubblicamente, per esempio, durante il sermone del venerdì. Ad ogni modo, come detto, l’importanza delle moschee come luoghi di proselitismo e reclutamento nel periodo era diminuito ma non scomparso del tutto. Alcuni reclutatori, in effetti, continuarono a utilizzare le moschee per attrarre militanti radicali dissimulando la loro adesione al jihadismo ma continuando a svolgere ruoli importanti di aiuto a organizzazioni terroristiche sia nella logistica che nell’indottrinamento di individui per il loro invio in teatri di guerra.

Per quanto concerne la dimensione carceraria, il report cita numerosi casi tra cui quello di Monsef el-Mkhayar. Il soggetto fu arrestato nel 2017 per reati legati agli stupefacenti e in carcere cambia: diventa molto religioso e recita le cinque preghiere canoniche; una volta tornato in libertà frequenta la moschea, discute animatamente e vuole che tutti diventino musulmani come lui. Scrive addirittura all’imam di Lecco, invitandolo a compiere la hijrah e a combattere il jihad in Siria. Il carcere è uno dei luoghi di radicalizzazione per eccellenza e molto è stato scritto sull’argomento. Lo stesso ambiente carcerario, fatto di coabitazione forzata, facilita l’incontro tra giovani delinquenti spesso sperduti, spaventati e confusi e persone carismatiche, sicure della propria ideologia, che intendono influenzarli e rispondere al dovere di fare proselitismo religioso. L’ideologia jihadista diventa così, per usare le parole di Guolo, «una bussola che li orienta anche in condizioni difficili».

Il carcere, inoltre, cancella o destruttura per molti l’identità precedente. Il bisogno di appartenenza, insieme a quello di difendersi da possibili violenze fisiche e psicologiche, e la pressione del gruppo che si crea all’interno delle prigioni fa sì che si cerchi una risposta nell’ideologia e nella religione, le quali sembrano alleviare il senso di disorientamento, di paura e talvolta di vera e propria depressione causato dalla reclusione. Per molti detenuti musulmani, inoltre, il ritorno alla religione, benché in chiave jihadista, aiuta a superare il senso di colpa per i reati commessi e a riscattarsi in nome di un più alto fine ideale.

Per quanto concerne la dimensione dell’online nei processi di radicalizzazione, esiste attualmente una vasta letteratura sull’argomento. Nei procedimenti penali analizzati dal report in oggetto, sono molti gli individui che hanno trovato il necessario nutrimento ideologico al proprio processo di radicalizzazione in rete. Uno dei casi più interessanti è quello rappresentato, come precedentemente accennato, dalla “madrasa telematica” gestita da Bushra Haik. È questa giovane ragazza che ha impartito lezioni ad-hoc alle sorelle Sergio e a moltissime altre donne, sia italiane convertite che di origine straniera. In particolare, la Haik nelle sue lezioni online forniva istruzioni per la taqiyya, cioè su come evitare le indagini della magistratura e delle forze dell’ordine, e faceva proselitismo ribadendo la doverosità e la legittimità delle azioni di natura terroristica perpetrate ai danni di obiettivi occidentali, di minoranze religiose (sciiti in particolare), di ostaggi e diffondeva all’interno delle chat documenti di ideologi jihadisti e manuali come Lo Stato Islamico, una realtà che ti vorrebbe comunicare.

Un altro caso particolarmente interessante è quello di Merieme Rehaily, una giovanissima ragazza completamente integrata, dagli atteggiamenti un po’ da “ragazzaccio”, che faceva la vita che la maggior parte dei suoi coetanei fanno. Uno dei testimoni al processo specifica che all’interno del computer della giovane erano istallati dei programmi volti a offuscare l’IP, «circostanza da cui egli deduceva che l’imputata aveva una abilità maggiore nell’uso degli strumenti informatici rispetto a quella dei propri coetanei». Gli accertamenti sui profili dei social network e sulle chat hanno permesso di individuare alcuni messaggi inviati da “RIM” (“Sorella RIM”, “RIM l’Italiana”), lo pseudonimo utilizzato dall’imputata, tramite il quale faceva propaganda e proselitismo sul web e aiutava i soggetti «sempre gravitanti in detta area tematica, che avevano interesse a conoscere tecniche per non essere tracciati». La giovane era già stata segnalata in precedenza dalla preside dell’istituto per aver scritto in un elaborato frasi che dimostravano il suo avvicinamento all’ideologia islamista.

La giovanissima Merieme sembrò essere rimasta particolarmente turbata dopo aver visto un video su internet in cui una donna musulmana diceva di essere stata violentata da cinque uomini occidentali. Fu questo video a segnare indelebilmente la vita della giovane e che scatenò il suo processo di radicalizzazione. La teste Eddakamir Khadija, madre di Merieme, ha aggiunto che la figlia era diventata inappetente, che trascorreva molto tempo al telefono e al computer, navigando in Internet; la circostanza non l’aveva preoccupata eccessivamente in quanto aveva pensato che fosse necessario per la preparazione scolastica. Il repentino mutamento nel comportamento di Merieme emerge anche dalle intercettazioni telefoniche in cui il padre riferiva al fratello dell’atteggiamento della figlia. Riferisce che era diventata ostile nei confronti suoi e della madre, che era come un robot, e il fratello risponde di aver notato, anche lui, il nervosismo della ragazza nei confronti della madre e dei fratelli. Il padre aggiunge che non parlava più con nessuno, che non ubbidiva, che era sempre al telefono; che non mangiava, non dormiva, era diventata difficile. Come epilogo, la giovane partì per la Turchia dall’aeroporto di Bologna, raggiungendo successivamente il Califfato di IS.

  • Considerazioni finali

Nel corso degli ultimi anni, il Legislatore italiano, in particolare dopo gli attentati di Parigi del 2015, si è adeguato con ulteriori strumenti normativi urgenti per far fronte alle nuove minacce alla sicurezza nazionale rappresentate dal terrorismo di matrice jihadista, soprattutto in quanto le forme di terrorismo hanno manifestato un nuovo carattere ibrido passando da uno schema di tipo verticale a uno di tipo “orizzontale”, ossia a cellule non più sottostanti a uno schema rigidamente piramidale. Tra le misure più rilevanti rientrano indubbiamente il decreto legge 18 febbraio 2015, n. 7, (convertito con modificazioni dalla legge 17 aprile 2015, n. 43) e la legge 28 luglio 2016, n. 153, misure giuridiche con le quali l’Italia ha rafforzato il proprio impianto normativo per combattere le nuove forme di terrorismo di matrice jihadista. Lo strumento delle espulsioni, inoltre, ha permesso di agire preventivamente laddove si siano manifestati casi di soggetti radicalizzati che potevano costituire una minaccia alla sicurezza nazionale. Nonostante l’indubbia importanza di tali misure, il report “Comprendere la radicalizzazione jihadista. Il caso Italia” mette in luce la fondamentale necessità di formazione per insegnanti, assistenti sociali e operatori di comunità in un’ottica di collaborazione con le forze di polizia al fine di un migliore scambio informativo tra professionalità diverse ma tutte ugualmente coinvolte in prima linea dalle problematiche della radicalizzazione. In particolare, il Legislatore italiano dovrebbe adeguare la giurisprudenza esistente in tema di lotta al terrorismo affinché il contrasto alla radicalizzazione avvenga anche nel solco della prevenzione educativa e culturale e non solamente in chiave repressiva.

F. Bergoglio Errico, F. Farinelli, A. M. Cossiga, E. Colarossi

Il report è disponibile online in formato ebook


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