Come cambia la minaccia della radicalizzazione jihadista. L’analisi di Anna Cossiga

I recenti fatti di Parigi, con l’aggressione e l’uccisione di un professore di storia da parte di un giovane diciottenne, ha riproposto il tema della minaccia della radicalizzazione violenta di matrice jihadista in Francia e nel resto d’Europa. Un tema di grande rilevanza, forse affrontato troppo poco in Italia. Ne abbiamo parlato con la Professoressa Anna Maria Cossiga, docente di antropologia culturale, già componente della Commissione di studio dell’estremismo jihadista in Italia nominata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Professoressa Cossiga, pochi giorni fa a Parigi si è verificato un nuovo atto di violenza che è stato subito ritenuto di natura terroristica in cui un giovane ha ucciso e decapitato un professore di storia reo di aver esposto in classe le vignette di Charlie Hebdo su Maometto. Un attacco per certi versi simile a molti che si sono verificati non solo in Francia negli ultimi anni. Cosa sappiamo di questo evento e cosa di può dire, al momento sulla sua natura?

Purtroppo sì, conosciamo già questo tipo di azioni e ne abbiamo viste numerose in Francia, un Paese particolarmente fiero della natura laica del proprio sistema repubblicano. Si tratta nuovamente di un giovane, un diciottenne, di cui sono state comprovati i legami con persone vicine ai gruppi estremisti dell’islamismo. E si tratta ancora di un feroce delitto che dovrebbe vendicare la “blasfemia” delle vignette su Maometto. Ciò su cui vorrei soffermarmi un momento è la natura particolarmente efferata dell’attacco. Come ha recentemente sottolineato Bernard Henri-Levy, non esiste “un altro modo di uccidere che richieda un accanimento così feroce ed esperto” (da “Un appello all’islam di Francia”, La Repubblica, 20-10-20). Il Filosofo si domanda anche se l’assassino non si sia “esercitato” allo sgozzamento su animali sacrificali, come facevano gli algerini del GIA, o i criminali serbi in Bosnia, o gli assassini di Daniel Pearl, ucciso da al-Qaeda.  Si tratta di una domanda più che pertinente, perché questo significherebbe che il delitto è stato preparato con cura, se così si può dire. Ha ragione Henri-Levy quando dice è necessario trovare “chi insegna la crudeltà, chi sa che non si sgozza come si pugnala, non ci si risveglia una mattina decidendo, così, su due piedi, di decapitare un innocente”. Vedremo, comunque, che cosa ci dirà l’inchiesta in corso, che dovrà stabilire anche le responsabilità del genitore di un’alunna che aveva protestato con il preside del liceo e aveva condiviso un video sui social contro il Professor Paty; e dell’imam che ha emesso contro di lui una fatwa.

L’attentatore era un giovane di origine cecena con probabili simpatie islamiste. Nelle ore successive all’attacco sono state arrestate altre persone a lui vicine. Ma al di là della dinamica di questo evento, che sembra non molto diverso da quello di poche settimane fa in cui fu coinvolto un giovane di origine pachistana che accoltellò due persone sempre a Parigi, cosa si può dire dei profili di questi attentatori?

I numerosi studi sull’argomento segnalano che si tratta spesso di giovani, nati nel Paese dove i genitori sono immigrati e che si presumono “inseriti” nella società in cui vivono. Nel caso del giovane ceceno, Abdoulakah Anzorov, si tratta di una persona nata in Russia, ma che viveva in Francia da lungo tempo. Il problema grave è che questi giovani non sono affatto “integrati” come si vorrebbe ma che, e in special modo in Francia e in Belgio, si socializzano in quelle banlieues che il Presidente Macron ha definito “separatiste”, territori dove vige il comunitarismo islamista e che sono, nella realtà, fuori dal controllo dello Stato.

Cosa hanno di analogo, a quello di altri che hanno colpito in maniera simile negli scorsi mesi o anni nei paesi europei? Si può parlare in questi casi di lupi solitari?

Non mi piace il termine “lupo solitario”. I lupi solitari non esistono in natura, dal momento che i lupi agiscono sempre in branco. So che questo termine è diventato d’uso comune e, dunque, lo devo tenere presente. Comunque, se analizziamo approfonditamente tutti gli attentati messi in atto da queste persone, vediamo che, alla fine, non sono mai davvero solitari. Non hanno avuto l’ordine di agire direttamente da un gruppo jihadista, ma sono sempre collegati, in un modo o nell’altro, ad ambienti radicalizzati.

Quali sono i canali con cui, spesso, queste persone, soprattutto giovani, si radicalizzano o entrano in contatto con organizzazioni o reti jihadiste e magari decidono anche di colpire e compiere un attacco violento?

Internet è ormai riconosciuto come il luogo principe per la radicalizzazione dei giovani e si parla spesso, infatti, di auto-radicalizzazione. Come per i lupi solitari, però, quando si approfondisce l’analisi, risulta comunque i giovani che si avvicinano al mondo jihadista in rete lo fanno quasi sempre dopo qualche contatto avvenuto nel mondo reale. Il che non significa che poi non approfondiscano le loro conoscenze nel mondo virtuale. I vari social network e i numerosi canali in rete sono certamente il miglior veicolo di propaganda dei jihadisti.

La Francia è stata forse il paese europeo che in questa nuova ondata di attacchi jihadisti, dal 2012 in poi, è stata più colpita. È anche il paese da cui tra il 2011 e il 2016 sono partiti più foreign fighters verso la Siria. Perché è accaduto in Francia?

In primo luogo, la Francia è stata un Paese coloniale e sono numerosissimi i discendenti degli immigrati provenienti dal Magreb, soprattutto dall’Algeria. Inoltre, come ho già detto, si tratta di un Paese particolarmente fiero della propria laicità, che prevede sì la massima libertà religiosa, ma che certamente confina con decisione le manifestazioni religiose nella sfera privata. Questo non può piacere all’islamismo, per cui la religione è essa stessa politica e, dunque, è massimamente pubblica. Ho citato prima il discorso di Macron sul “separatismo”. Facendo una distinzione netta tra islam e islamismo, il Presidente sottolinea che il separatismo islamista è “un progetto consapevole, teorizzato, politico-religioso” che vuole “creare un ordine parallelo” mettendo in discussione le libertà di espressione, di coscienza”. Il suo intervento mette in luce quanto la situazione sia davvero grave, in Francia. I gruppi islamisti sono particolarmente abili nel dare soluzioni ai problemi sociali in cui lo Stato si dimostra assente; e lo fa proprio in quelle banlieues  dove la ghettizzazione ha raggiunto il massimo livello, come riconosciuto dallo stesso Macron. Il suo discorso contiene anche un mea culpa per le carenze statali e propone una soluzione “repubblicana”.

Quali altri paesi europei sono stati più colpiti da questi fenomeni violenti negli ultimi anni?

Il già citato Belgio, il Regno Unito, la Germania. Ma anche i Paesi scandinavi, che sono sempre stati i più aperti e inclusivi verso gli immigrati e i cittadini di religione musulmana. Ci deve essere qualcosa che non va nei modelli di integrazione utilizzati da tali Paesi. Anche il modello cosiddetto “multiculturalista” adottato nel Regno Unito, completamente diverso da quello francese, e che prevede la conservazione di ciascuna cultura nelle sue caratteristiche peculiari, è fallito, come dimostrano i numerosi attentati avvenuti nel Paese e l’alto numero di foreign fighter britannici. È necessario rendersi conto che le culture non sono “oggetti” sempre uguali a sé stessi, che l’identità, di cui tanto si parla, è anch’essa fluida; bisogna rivedere molti dei concetti su cui si basa la nostra idea di integrazione. È un compito complesso, anche complicato, che però dobbiamo affrontare per fermare il dilagare della violenza estremista e del terrorismo su base religiosa e non.

Il fenomeno della radicalizzazione violenta di matrice jihadista è un problema molto serio con cui le democrazie europee si sono trovate a fare i conti negli ultimi anni. In particolare sembra essere cresciuto il numero di convertiti radicalizzati e anche il coinvolgimento delle donne, sia nei processi di radicalizzazione che all’interno dei foreign fighters. Lei si è di questi temi nelle sue attività di ricerca, cosa ci può dire in proposito, rispetto alla presenza di donne e convertiti tra i radicalizzati europei e al loro ruolo ad esempio tra i foreign fighters?

La presenza dei convertiti e delle donne nel cosiddetto Stato Islamico è una novità, ed è una novità preoccupante. La conversione da una religione all’altra presuppone una volontà di completo cambiamento rispetto a ciò che si era, alla propria origine. Naturalmente, le conversioni non sono negative di per sé, ci mancherebbe; ma la conversione alle forme violente di islam deve preoccupare i musulmani stessi. Studiando il profilo di convertiti che hanno aderito all’ideologia dell’ISIS, si nota la volontà di distruggere la società cui si apparteneva, un odio particolarmente profondo verso tutto ciò che, prima della conversione, costituiva il proprio mondo. Si tratta di un altro problema difficile da affrontare e, a mio parere, non lo si può fare senza l’aiuto della psicologia, dell’antropologia e della sociologia. Dovremmo cercare di rispondere a una domanda fondamentale: che cosa, nelle nostre società, sta andando così male da spingere tanti giovani ad aderire ad un’ideologia politico-religiosa tanto efferata? Questo non significa che si giustifichi in alcun modo la reazione violenta a ciò che viene percepito come “sbagliato”, ma semplicemente che quanto avviene deve spingerci a riflettere in modo critico anche sulla nostra realtà.

Per quanto riguarda la presenza femminile in Daesh, il discorso è simile. Sto conducendo un’analisi approfondita dei profili delle donne italiane che hanno aderito alla sua ideologia, che sono partite per la Siria o che hanno tentato di farlo, che hanno fatto propaganda e reclutamento sul web. Sono tutte convertire o re-born, cioè donne di tradizione musulmana, che poco o nulla sapevano della propria religione, mai davvero praticata, e che sono “rinate” nella versione violenta ed estremista dell’islam. Si tratta spesso di persone che hanno alle spalle una storia familiare problematica, con madre o padre assenti; una socializzazione difficile; o, al contrario, di giovani originarie di Paesi a maggioranza musulmana che apparivano “completamente integrate” e che, invece, si ribellano alla famiglia e alla società in cui vivono. Profili a volte profondamente diversi, ma che conducono tutti alla medesima meta: l’estremismo violento. I dati su queste donne sono ormai numerosi, disponiamo anche di risposte al “perché lo fanno?”, che sono di natura psicologica e sociale e dipendono molto da fattori individuali. Un’unica risposta a quel “perché” non sembra possibile. Come antropologa, ritengo comunque che la ricerca debba continuare, anche tenendo presente che, ormai, si può parlare di una “cultura jihadista” che si è costruita nel tempo, sia per la presenza di un territorio reale su cui tale “cultura” ha potuto svilupparsi, sia grazie al web, che costituisce un pericoloso quanto fertile nuovo “territorio di coltura”. Insomma, continuiamo a cercare di capire, soprattutto parlando direttamente, “sul campo”, con queste persone.

Ultima domanda: la pandemia, con le sue ricadute e i suoi effetti sul piano sociale, economico, e anche individuale e psicologico, può incidere un un’eventuale nuova diffusione di forme di estremismo e di violenza, anche di matrice jihadista?

Durante i primi mesi della pandemia, i gruppi jihadisti hanno salutato il virus come “piccolo soldato di Allah”, dunque una sorta di alleato nella lotta contro l’Occidente, pesantemente colpito. Tutti i gruppi estremisti violenti sono stati particolarmente attivi sul web e, come abbiamo visto in tutto il mondo, quelli di destra e di sinistra hanno manifestato contro le chiusure. Proprio in questi giorni, l’ultra destra e i centri sociali hanno avuto scontri con la polizia a Napoli e a Roma contro le nuove misure restrittive del Governo. L’estremismo jihadista ha ricominciato ad essere attivo in Francia poco dopo il primo lock-down. Certamente, le ricadute di cui lei parla, dovute alla pandemia, possono essere sfruttate dai jihadisti per fare una propaganda mirata e per reclutare tra le fasce della popolazione più colpite e le sfavorevoli condizioni sociali, economiche e psicologiche possono spingere alcuni giovani a radicalizzarsi o, comunque, ad attuare azioni violente come quelle che abbiamo visto in Francia. I Governi di tutto il mondo devono stare particolarmente allerta per scongiurare il rischio che organizzazioni criminali ed estremisti di ogni bandiera approfittino della situazione per i propri scopi.

Intervista a cura della Redazione di Europa Atlantica

Immagine tratta da Pixabay

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