La zanzare e il leone; strategia e tattica della jihad.

La strategia del debole che combatte il più forte

“Non ho paura di te e non ti ritengo più forte”, dice la zanzara al leone, “per quale motivo saresti forte? Perché graffi con i tuoi artigli e mordi con le tue zanne? Io sono molto più forte di te.  Se non ci credi, combattiamo.” E la zanzara partì all’attacco, pungendolo sul muso, dove non ci sono peli, vicino alle narici. Il leone cercò di difendersi menando le zampe per aria, ma poteva soltanto ferirsi da solo. La morale della favola di Esopo è che anche la più piccola ed insignificante creatura può sconfiggere il re della foresta, se trova i punti deboli e lo colpisce dove è più vulnerabile, facendo in modo che a fiaccarlo sia la stessa forza con cui proverà a reagire. Questo è il punto centrale della strategia del terrorismo, che spera che chi subisce gli attentati reagisca in maniera così smisurata da danneggiarsi da solo. E’ una strategia talmente antica, consolidata e prevedibile, che dovrebbe essere agevolmente prevista. Per raggiungere il suo scopo il terrorismo evita i punti di forza del suo nemico e si concentra, senza rispettare alcuna regola, sul suo centro di gravità, che di solito è l’opinione pubblica. Non ha fretta, cerca di prolungare lo scontro nel tempo (“voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo” cit.), per sfiancare materialmente e psicologicamente l’avversario. Nelle guerre l’asimmetria è sempre esistita, perché ciascuno tenta di raggiungere il proprio scopo con i mezzi di cui dispone. Non c’è nulla di nuovo, in fondo, è sempre lo stesso schema che si ripete, seppure con strumenti e modalità diverse. Nel corso della storia le guerre asimmetriche sono le più comuni. Sono inusuali le grandi battaglie decisive: durante i 27 anni di guerra del Peloponneso, narrati da Tucidide nel suo trattato, ebbero luogo soltanto due grandi battaglie di terra (Delio nel 424 a.C. e Mantinea nel 418 a.C.), il resto è quello che oggi chiamiamo guerra asimmetrica, cioè terrorismo, attacchi a sorpresa, vessazioni alle truppe, distruzione dei terreni agricoli, avvelenamento dei pozzi. Alessandro Magno ha trascorso la maggior parte del suo tempo a combattere rivolte nei Balcani, nell’Hindu Kusk e in Battriana, subendo perdite maggiori che nelle grandi battaglie. Nelle terre dell’attuale Afghanistan dovette affrontare bande di guerrieri guidate dai signori della guerra locali che, protetti da un’orografia ostile all’invasore, adottavano strategie di accerchiamento, con gruppi di cavalieri che attaccavano gli elementi isolati dell’esercito alessandrino, per poi fuggire nella steppa o nel deserto e riapparire altrove, o dopo giorni. Così come l’Impero romano dovette affrontare i barbari ribelli nella Gallia, in Germania, in Bretagna e in Hispania. Ma l’esempio più emblematico di lotta impari, in cui il più debole vinse il più forte, è la ribellione partigiana spagnola all’invasione napoleonica. Guerrilla infatti è una parola spagnola, significa piccola guerra. Duecento gruppi di guerriglieri uccidevano in media quaranta francesi al giorno, impiegando tattiche irregolari, imboscate, attacchi alle retrovie. Napoleone fu costretto a ritirarsi dalla Spagna. Il colonnello britannico Thomas E. Lawrence[1], più conosciuto come Lawrence d’Arabia, nel suo libro The Evolution of a Revolt[2], spiegava come il debole deve agire contro il forte, e come lui ed i combattenti arabi attaccavano e sabotavano i turchi, durante la Prima guerra mondiale. Nella lunga marcia, l’Armata Rossa Cinese, guidata da Mao Tse-Tung, sconfisse il partito nazionalista Kuomintang di Chiang Kai-shek, che godeva di superiorità numerica, era meglio armato ed equipaggiato e combatteva in maniera convenzionale. Durante la Seconda Guerra Mondiale la Germania nazista subì la guerriglia paritigiana in Francia, in Italia ed in Jugoslavia, dove i partigiani di Tito costrinsero Hitler a ritardare di due mesi l’operazione Barbarossa, con l’esito tragico per il Reich, quando l’inverno russo e la resistenza invertirono le sorti di quella campagna militare, e della guerra. Nel Viet Nam la sproporzione delle forze degli americani ed i guerriglieri Viet Cong era enorme, ma non ha determinato l’esito della guerra a vantaggio del più forte, che fu costretto ad una rovinosa ritirata.  Tutti i casi che ho citato sono esempi di guerre asimmetriche, in cui le tattiche militari e le tecniche operative sono riconducibili alla forma del terrorismo, e infatti nella maggior parte dei casi i combattenti sono stati chiamati terroristi. In guerra il terrorismo non è dunque un’eccezionalità, o un’anomalia, ma è una forma normale e frequente di lotta asimmetrica. Nel manuale della CIA per le psychological operations in guerrilla warfare[3], è chiarito sin dalle prime pagine che la guerriglia è una lotta politica[4]. Non si tratta di conseguire obiettivi militari di importanza strategica, ma di conquistare il consenso, i cuori e le menti della popolazione. Dunque non abbiamo a che fare con tattiche e strategie nuove, ignote e misteriose. La tattica terroristica è solamente la modalità operativa adottata per realizzare la strategia politica della ricerca del consenso e della conquista dell’egemonia nella Ummah (la comunità di tutti i musulmani). Questa tattica funziona solamente nella misura in cui riesce ad indurre il nemico in errore, e lo costringe a reagire con smisurata forza. I leader politici dei Paesi democratici colpiti da attacchi terroristici, il cui potere dipende dal favore dell’opinione pubblica interna, hanno necessità di rilegittimarsi con azioni ad effetto, capaci di rassicurare l’elettorato. Per corrispondere alle aspettative degli elettori devono esibire forza e determinazione, per questo possono essere tentati dalle narrazioni muscolari, da impraticabili soluzioni “definitive”, e corrono così il rischio di diventare involontariamente ed inconsapevolmente collaborativi con i terroristi.  L’11 settembre del 2011 il mondo è stato chiamato a misurarsi con sfida nuova, è vero, ma è una sfida che utilizza metodi e tattiche antichi. Lo storico, saggista e professore universitario israeliano Yval Hoah Harari lo spiega utilizzando una metafora simile alla favola di Esopo: “I terroristi assomigliano a una mosca che cerca di distruggere un negozio di porcellane. La mosca è così debole che non può spostare neppure una singola tazza da tè. E allora come fa una mosca a distruggere un negozio di porcellane? Trova un toro, entra dentro il suo orecchio, e comincia ronzare. Il toro perde il controllo per la paura e per la rabbia e distrugge il negozio di porcellane. Questo è quello che è accaduto dopo l’11 settembre, quando i fondamentalisti islamici aizzarono il toro americano e riuscirono a fargli distruggere il negozio di porcellane mediorientale. Adesso nel caos si rafforzano. E non mancano tori irascibili nel mondo.”[5]

La paura come operazione psicologica, il terrorismo come lotta politica.

Il terrorismo è uno strumento malvagio, che causa dolore, sofferenza e psicosi nelle società che ne sono vittima, ma nel suo modus operandi c’è l’asimmetria per eccellenza, ed è proprio per questa ragione che viene utilizzato. I gruppi armati influenzati da ideologie politiche o religiose estremiste, lo prediligono. I terroristi che hanno scopi rivoluzionari, di insurrezione, di separatismo, di cacciata dell’invasore o di lotta settaria, utilizzano l’asimmetria perché puntano a sconfiggere un avversario che ritengono militarmente molto superiore, ma anche perché vogliono ottenere una pubblicità che giustifichi e legittimi la loro causa, per ricavarne combattenti, sostenitori, fondi. “I terroristi non hanno molte scelte. Sono deboli e non possono intraprendere una guerra. Quindi optano per lo spettacolo teatrale che sperano riesca a provocare il nemico e a farlo reagire in modo esagerato. I terroristi mettono in scena uno spettacolo di terrificante violenza che cattura la nostra immaginazione. Uccidendo un piccolo gruppo di persone i terroristi inducono in milioni di uomini e di donne una paura feroce. (…) I torroristi non pensano come i generali dell’esercito, pensano come impresari teatrali.”[6]  Il terrorismo è spettacolo, l’attacco è una messa in scena, e quindi i terroristi hanno le loro agenzie di comunicazione, altamente professionali, che lavorano per produrre e diffondere i loro messaggi, sperando nella massima risonanza mediatica. Daesh ha spietatamente pensato di uccidere persone innocenti in pubblico e pubblicizzarne la morte per puro scopo di propaganda. Si può credere che siano semplicemente dei sadici, che traggono piacere dalla propria ferocia, ma la loro apparente follia è anche pura e fredda logica[7]. I terroristi hanno capito che oggi i conflitti si decidono in base all’opinione pubblica e che nel mondo contemporaneo non c’è nulla che abbia maggiore impatto mediatico dell’immagine, per spaventare, e per esercitare pressione sui decisori politici, nazionali ed internazionali.[8] “Siamo ormai abituati a vedere questa bandiera sui nostri media: su uno sfondo nero è abbozzato un cerchio bianco che contiene una scritta in arabo: Maometto è il profeta di Allah, mentre un’altra scritta posizionata in cima, recita: Non c’è altro Dio al di fuori di Allah. Queste due righe compongono la shahada, la professione di fede mussulmana. (…) L’ISIS ha adottato ufficialmente la bandiera nel 2007, ma il colore nero e la shahada sono  simboli panislamici che non si dovrebbero associare necessariamente al terrorismo; l’astuzia dell’ISIS è proprio aver creato questa associazione. (…) Combattenti e sostenitori dell’Isis tendono a mantenere una grandissima coerenza nei messaggi. (…) Quando vediamo questa bandiera, pensiamo quasi tutti a un fanatismo perverso. E’ quanto di più alieno si possa rappresentare. Ma per i suoi devoti è un simbolo di eroica determinazione a compere l’opera di Dio sulla terra, a qualunque costo. Il fatto che sia immediatamente riconoscibile, in termini comunicazionali, è positivo. (…) E alla conoscenza di quel nome si accompagna un potenziale appoggio, sia nei giovani musulmani che vengono da tutto il mondo a fare carne da cannoni, sia nei ricchi aspiranti benefattori che alimentano la jihad globale.”[9] Usano l’infosfera, il cyberspazio, in particolare il web 2.0, per proclamare al mondo che la loro terribile minaccia può arrivare ovunque. Compiere un attacco terroristico significa farsi conoscere, e quindi il successo delle azioni terroristiche si misura sulla risposta del pubblico. “I terroristi sono molto abili nell’arte del controllo mentale. Uccidono un numero limitato di soggetti, ma riescono a terrorizzarne miliardi e a sconvolgere potenti strutture politiche come l’Unione Europea o gli Stati Uniti. (…)[10] Nel terrorismo c’è quasi solo la paura, ed esiste una enorme sproporzione tra l’effettiva forza dei terroristi e la paura che riescono a suscitare.”[11]

Quando si analizza un attacco terroristico bisogna sempre considerare entrambe le dimensioni, quella concreta, l’aspetto militare dell’azione volta a colpire obiettivi precisi, e quella mediatica, volta a veicolare un messaggio. Come scrive il generale Carl Jean, “ nei conflitti asimmetrici questa seconda dimensione – comunicativa – ha importanza pari, se non maggiore, della prima. Talune operazioni sono addirittura finalizzate a produrre effetti psicologici nell’opinione pubblica propria e nelle popolazioni dei territori in cui si opera, oltre che nei combattenti nemici. (…) Risultano così definitivamente erosi i confini tra guerra e politica, conflitto e pace, soldato e civile.”[12] Fattori strategici determinanti sono il dominio dell’informazione[13] e la narrativa. Con il progresso tecnologico aumenta l’informazione ed il dominio si espande in dimensione e rilevanza. Alla fine dell’era analogica, con l’avvento di internet, e poi del web 2.0, il dominio diventa pervasivo e ricopre tutti gli aspetti dell’esistenza umana. “Nel mondo contemporaneo, la coscienza umana prende forma tramite un filtro senza precedenti. Televisione, computer e smartphone formano una tripletta che offre un’interazione quasi costante con uno schermo durante tutto il giorno. Le interazioni umane nel mondo fisico vengono inesorabilmente sospinte nel mondo virtuale dei dispositivi connessi in rete.”[14] Se gli esseri umani passano realmente la metà del loro tempo di veglia davanti ad uno schermo le informazioni ed i messaggi possono raggiungere qualsiasi audience, in qualsiasi luogo, in tempo reale e attraverso mezzi diversi. E’ inevitabile che questo spazio diventi un campo di battaglia per le guerre ibride, dove la dimensione informativa svolge un ruolo fondamentale. Il dominio è congestionato da una miriade di attori, con una mobilità di migrazione e mutazione talmente rapida da renderli quasi inafferrabili. Infatti Al Qaeda e, ancora meglio ISIS, hanno sfruttato lo spazio digitale ben prima di consolidare le loro capacità sul campo, sviluppando contemporaneamente organizzazione e forze con caratteristiche militari, raggiungendo ed conquistando anche piccoli gruppi o individui singoli, marginalizzati o alienati (i cosiddetti lone wolves, lupi solitari). Al Qaeda ha preferito agire come project sponsor di gruppi regionali locali, o singoli individui, mentre ISIS, proiettando l’immagine del Califfato, ha guadagnato spazio e tempo nel dominio dell’informazione. Questa “è la forma di guerra che domina gli attuali conflitti etnico-identitari e insurrezionali. La maggiore vulnerabilità dell’Occidente nell’affrontare questi ultimi è data dal fatto che hanno luogo entro le società, considerate dai responsabili politici e militari occidentali semplici entità fisiche, anziché culturali; ovvero piramidi, anziché reti di gruppi autonomi, tribù, e clan.”[15]

Cultura islamica e Jihadismo.

“Il potere si basa sulla collaborazione delle masse, la collaborazione delle masse si basa sull’identità delle masse – e le identità delle masse si fondano su storie fittizie, non su fatti scientifici e nemmeno su condizioni economiche. Nel XXI secolo la distinzioni degli esseri umani in ebrei e musulmani, polacchi e russi è ancora basta su miti religiosi. (…) Così nel XXI secolo le religioni non portano la pioggia, non guariscono dalle malattie e non costruiscono bombe – ma determinano chi siamo noi e chi sono loro, chi dovremmo curare e chi bombardare.”[16] Non sembri questa una divagazione fuori luogo, perché nessuna guerra può essere vinta senza conoscere il nemico contro di cui si deve combattere. Parafrasando il generale Dalla Chiesa, che diceva che per combattere la mafia bisogna imparare a pensare mafioso, potremmo dire che non si può combattere il terrorismo jihadista senza pensare Jihadista, e senza comprendere quelle fondamenta culturali e religiose del mondo islamico, che impregnano a fondo la forma mentis, il modo di sentire e pensare, della civiltà in seno alla quale nascono e si sviluppano le subculture jihadiste. Thomas E. Lawrence, nel suo libro Seven Pillars of Wisdom[17], descrive così gli arabi: “Dogmatici per natura, disprezzavano il dubbio, la nostra moderna corona di spine. Non capivano le nostre angosce metafisiche, l’ansia d’introspezione. (…) I procedimenti arabi sono chiari, le menti arabe funzionano logicamente come le nostre: non vi è nulla di radicalmente incomprensibile e diverso, eccetto le premesse. Non c’è scusa o ragione fuorché la nostra pigrizia e ignoranza per chiamarli imperscrutabili orientali o misconoscerli.” La cultura araba è impregnata dei concetti di onore e vergogna. Questo è il vero pilastro della vita, che va rispettato ad ogni costo. Lawrence spiega che nel mondo arabo le persone si inchinano davanti all’uomo forte, a colui che domina, che sia un capo tribale, un patriarca familiare un leader spirituale o religioso, un potente uomo d’affari, un membro della classe dirigente. Ad esso vengono tributati i più alti onori, e lo si segue con cieca obbedienza, ma se cade in disgrazia, o quando compare un altro leader che lo supera in grandezza, viene abbandonato. Questo capita regolarmente ai leader dei gruppi salafiti-jihadisti, che riescono a farsi seguire dai propri fedeli finché hanno un ruolo dominante e risultano i più carismatici, come si è visto nel passaggio di lealtà di molte organizzazioni da Al-Qaeda allo Stato Islamico. Pur essendovi una distinzione dottrinale tra siyasah diniyah (poliitca religiosa) e siyasah ‘aqliah (politica razionale), non bisogna mai scordare che il potere dominante nella civiltà islamica è quello teocratico, nel quale il potere temporale ed il potere spirituale sono con-fusi, come accadeva per il papato nel nostro medioevo. La lettura che meglio permette di comprendere il potere politico nella società islamica credo che sia ancora la Muqaddimah[18] di Ibn Khaldun (1332-1406), il maggior filosofo e sociologo della storia di tutto il medioevo euro-mediterraneo, da molti accostato a Hobbes, Vico e Marx. L’opera di Khaldun[19] è di una straordinaria modernità, come dimostrano le moltissime letture e interpretazioni che la riprendono per proporre analisi delle società arabe contemporanee, perché analizza le forme in cui si costituisce il potere, mettendo in rilievo ed in contrapposizione dialettica due elementi fondamentali: spirito di corpo e religione. “Per avere il controllo della massa (al-kaffah) non si può fare a meno dello spirito di corpo” scrive Ibn Khaldun “”Questo si trova nella Tradizione profetica: Dio non ha mandato nessun profeta che non avesse l’appoggio del suo popolo. E se questo accade ai profeti che sono coloro che possono compiere cose straordinarie, cosa pensare degli altri? Che essi non possono compiere cose straordinarie per ottenere la superiorità senza (appoggiarsi sullo) spirito di corpo.”[20] Ogni potere, compreso quello sostenuto dall’elemento religioso, ha un ciclo vitale ed è quello che l’autore chiama spirito di corpo che favorisce l’espansione territoriale e il controllo del gruppo che detiene la ‘asabyiah (Antonio Gramsci l’avrebbe chiamata egemonia). Ciò accade perché “lo spirito di corpo è formato dai diversi gruppi, dei quali uno risulta più forte di tutti gli altri; così li sottomette e conquista il loro potere fino a ridurli sotto il suo dominio”(par. X)[21]. Lo spirito di corpo è dunque condizione per l’affermarsi di un potere regale – mulk (di un potere che eserciti un’autorità e si istituzionalizzi). “Il vero significato del potere regale (mulk) è che si tratta di una forma di organizzazione sociale (ijtima’) necessaria all’umanità e gli occorrono superiorità e forza, entrambe segno della natura irascibile e animale (degli uomini) (par. XXV)”[22] Il governo, secondo la legge religiosa, è il califfato, e come tale ne rappresenta senz’altro la miglior forma: “Sarà quindi chiaro il significato del califfato se consideriamo che: l’esercizio del potere naturale (mulk tabi’i) fa agire la massa come richiesto dai suoi (di chi governa) progetti e desideri, mentre l’esercizio del potere politico (mulk siyasi) fa agire la massa come richiesto dalla ragione (il potere razionale) per salvare i suoi interessi mondani ed evitare ciò che potrebbe essere nocivo; il potere califfale fa agire la massa come richiesto dalla legge religiosa (salvaguardando) i suoi interessi in questo e nell’altro mondo (par XXVI)” Il califfato (obiettivo strategico dichiarato da Al-Qaeda e perseguito nell’immediato da Daesh) come forma di governo e di esercizio del potere è un dovere collettivo (fard kifaya) e la sua necessità non è di origine divina, ma giustificata dal consenso dei compagni del profeta che ne hanno sancito l’importanza per guidare la ummah islamica (la comunità di tutti i credenti nell’islam). Sullo sfondo della strategia jihadista c’è sempre questo concetto, e la lotta interna per la conquista del potere nel mondo islamico. Il terrorismo non è altro che uno strumento che serve per perseguire il vero obiettivo strategico: guidare la ummah per distruggere i confini artificiali tra gli Stati costruiti dai colonizzatori occidentali ed istituire una grande Stato Islamico, patria di tutti i credenti in Allah, guidato dalle leggi religiosi e dei principi scritti sul Corano.

La guerra tra la gente

“Il primo, ed in pari tempo il più considerevole e decisivo atto di raziocinio esercitato dall’uomo di Stato e condottiero, consiste nel giudicare sanamente, (…) la guerra che egli sta per intraprendere”, scriveva il barone Carl von Clasewitz, nel primo libro del suo celebre Vom Kriege (Della Guerra). Per questo è necessario, prima di perdere la visione d’insieme, concentrandosi su singoli fatti, eventi, attacchi terroristici, comprendere la natura del conflitto che ha portato l’Occidente ad impegnarsi militarmente in diverse parti del mondo, e al tempo stesso lo ha drammaticamente insanguinato con le vittime civili cadute negli attacchi subiti in casa. La “guerra tra la gente” è il nuovo paradigma interpretativo che il generale britannico Rupert Smith, veterano della Guerra del Golfo e del Peacekeeping balcanico, propone come nuova forma di espressione della violenza organizzata, in un suo fortunato saggio[23] sul dopo Guerra Fredda. Descrive una tipologia di conflitto caratterizzato da indeterminatezza e complessità, dove gli aspetti politici, militari, culturali appaiono confusamente interconnessi e dove la soluzione è difficile da trovare, proprio perché non ci è dato di sapere in quale dimensione cercarla. La violenza non è più confinata in uno spazio fisico e mediatico definito, ma è ovunque. In mezzo alla popolazione civile come lungo una provvisoria ed ipotetica linea di fronte, nell’assedio di una città in un’area di crisi, come nelle strade di una metropoli occidentale, attraverso immagini di ostaggi decapitati, rese fruibili al mondo intero via internet, o con l’imboscata ad un convoglio logistico teoricamente lontano dalla linea del fuoco. I civili non sono solo vittime casuali di ciò che accade, loro malgrado, nello spazio circostante, ma sono un target volutamente casuale, facile ed indifferenziato. Possono essere strumento di guerra psicologica, per l’impatto logistico di masse di profughi in movimento da un territorio ad un altro, e la loro sofferenza può avere un impatto mediatico ancora più importante di quello fisico. I conflitti degli anni ’90, dai Balcani al Medio Oriente, all’Africa, precedenti l’attacco jihadista contro il MC World[24] dell’11 settembre 2001, erano già guerre tra la gente. La contiguità di violenza e popolazione civile era una costante, ma il jihadismo contemporaneo ha prodotto un cambio di prospettiva su alcuni punti. Innanzitutto i conflitti oggi vengono combattuti normalmente da Stati o alleanze, spesso operanti sotto il mando delle Nazioni Unite, contro movimenti irregoli ed organizzazioni reticolari (Taliban, Hetzbollah, Hamas, Al Qaeda, ISIS, ecc.), che possono essere proxy altrui, ma giuridicamente non rappresentano uno Stato sovrano. Sono attori che mirano a sovvertire un ordine costituito o ad indebolire la volontà del loro avversario a continuare la lotta, piuttosto che a conseguire un obiettivo territoriale o distruggere le risorse materiali del nemico. Anche nel caso di Daesh il possesso territoriale non era un obiettivo, ma un mezzo per affermare la legittimità del Califfato. Gli elementi fondamentali di cui bisogna impossessarsi per potere condizionare la volontà dell’avversario sono la determinazione e l’appoggio della popolazione civile, per questo la conquista dei cuori e delle menti è il centro di gravità. Il consenso ed il favore delle popolazioni locali, nei conflitti post-coloniali, serviva a supportare l’azione militare, ora invece è l’obiettivo politico. L’indeterminatezza del contesto e la difficoltà a comprendere questo cambiamento di paradigma ha condizionato strategie e determinato errori nell’impegno statunitense e NATO sia in Iraq che in Afghanistan. Sin dai tempi di Sun Tzu (conoscere il nemico, se stessi ed il campo di battaglia), e poi di Clausewitz (collegare razionalmente obiettivo militare a scopo politico), sappiamo che se non si comprende chiaramente contro chi si sta combattendo non è semplice concepire strategie di risposta appropriate, né approntare gli strumenti adeguati. Bin Laden era un figlio frustrato del regno Saudita che, nel 1989 tornò dal Jihad antisovietico dell’Afghanistan e, ispriandosi al testo di Qutb, fondò un’organizzazione combattente di avanguardia Al-Qaeda (la Base), promuovendo un nuovo Jihad, i tutte le direzioni. Per Bin Laden la lotta tra la vera fede ed il mondo miscredente non poteva essere condotta utilmente con metodi pacifici, per  generare paura nei nemici e indebolirne la volontà di resistere la tattica necessaria era quella dell’assassinio, del terrorismo. I suoi nemici vicini erano i Sauditi ed i suo partner regionali, i lontani erano gli Stati Uniti e l’Occidente più in generale. L’ambiziosa campagna di Al-Qaeda cominciò con attacchi a strutture americane in Medio Oriente ed in Africa. L’attacco a New York e Washington dell’11 settembre 2001, che uccise 2977 persone, rappresentava però un cambio di prospettiva e di scala delle ambizioni dei terroristi, ed era una dichiarazione di guerra all’Ordine Mondiale. La diffusione dell’austero credo wahhabita in tutto il mondo, predicato nelle tante madrase (scuole religiose) finanziate dalle ricche monarchie del Golfo, hanno (involontarimente) alimentato quel fervore jihadista che ha finito col minacciare anche lo stesso Stato saudita ed i suoi alleati. Nella mitologia dell’automa privo di intelligenza, la  diverse creature mitologiche che vanno dal golem della Cabala ebraica, fatto con l’argilla, al gigante creato con pezzi di cadaveri dal dottor Frankenstein, quando il mostro prende vita sfugge ad ogni controllo, incluso quello del suo creatore, e diventa una minaccia anche per lui.  Finché la maggior parte degli Stati sunniti era governata da regimi militari le cose sembravano funzionare, ma le cosiddette “primavere arabe” hanno scoperchiato una pentola che già bolliva silenziosamente. I colori delle bandiere di Siria, Iraq e Libia erano quelli del panarabismo, cioè di quel nazionalismo arabo, vagamente socialista, che sognava di creare un soggetto politico unitario ed autonomo che potesse rappresentare tutti i popoli arabofoni, ma oggi, dopo le “primavere arabe” e le guerre degli ultimi vent’anni, potrebbero non essere nemmeno più in grado di ricostituirsi come Stati unitari. Dal momento che le loro fazioni in conflitto cercano appoggio da parte di comunità affiliate in tutta la regione e oltre, la loro lotta mette repentaglio la coesione di tutti i Paesi vicini. Se nel cuore del mondo arabo più Stati diventano incapaci di stabilire Governi legittimi e di avere autonomamente il controllo dei loro territori, si ha una disintegrazione dello Stato in unità tribali e settarie, alcune delle quali a cavallo di frontiere esistenti, che non osservano più alcuna norma comune, se non la legge del più forte. Se si compisse questa mutazione, conseguenza della guerra tra la gente di cui abbiamo parlato, l’organizzazione territoriale nata con gli accordi di Sykes-Picot[25] al termine della Prima Guerra Mondiale sarebbe giunta al capolinea. Non sfuggirà al lettore che questo era proprio il primo obiettivo strategico dichiarato da Bin Laden e dalle altre organizzazioni jihadiste emerse nella regione MENA (Middle East and North Africa). Herry Kissinger ha spiegato in modo molto chiaro come l’ordine che si era determinato nel Medio Oriente, per quanto precario e relativo, perché basato sull’equilibrio tra le tre principali Nazioni Sunnite, Arabia Saudita, Turchia ed Egitto, è oggi andato in fibrillazione.  “Dopo che al-Qaeda ha fatto la sua comparsa sulla scena, I’Iran degli ayatollah ha affermato la sua leadership su un’area militante rivoluzionaria in tutta la regione e la Fratellanza musulmana ha minacciato di prendere il potere in Egitto e altrove, l’Arabia Saudita si è trovata a dover affrontare due forme di guerra civile nel Medio Oriente, che i suoi stessi sforzi di proselitismo avevano (sia pure involontariamente) contribuito a scatenare: una tra regimi musulmani che erano membri del sistema statale vestfaliano e islamisti che consideravano il concetto di Stato e le istituzioni esistenti dell’ordine internazionale un abominio del Corano; e un’altra tra sciiti e sunniti in tutta la regione, con Iran e Arabia Saudita nel ruolo di leader delle due prati in conflitto.”[26] Quando gli Stati non sono governati nella loro integrità si creano spazi vuoti che occupano porzioni rilevanti della carta geografica ed anche l’ordine internazionale regionale comincia a disgregarsi. Il collasso di uno stato trasforma il territorio in una base per il terrorismo, per il traffico di armi e per il contagio delle spinte settarie verso i vicini. Si tratta di conflitti civili che sono al tempo stesso religiosi e geopolitici, perché la religione viene utilizzata come arma per conseguire obiettivi geopolitici, ed i civili vengono destinati allo sterminio in ragione delle loro affiliazioni settarie. E’ connaturato ad essi che si tratti di forme di guerra che si combattano tra la gente e che germogliano con grande facilità nel terreno fertile degli spazi vuoti. I partecipanti ai vari conflitti cercano appoggi esterni, come è successo in Libia o in Siria, e non è affatto detto aiuti a ritrovare un ordine basato sulla sovranità nazionale. Non aver compreso la natura del conflitto nel quale il mondo è stato precipitato dagli attacchi dell’11 settembre del 2001 ha portato l’Amministrazione americana del Presidente George W. Bush a compiere alcuni errori di carattere strategico, sia in Iraq che in Afghanistan, le cui conseguenze ancora oggi alimentano il terrorismo che sfida l’Occidente.  

L’intervento militare in Iraq: ragioni e conseguenze.

Scrisse l’ammiraglio Mahan che “come in un edificio, che, per quanto bella sia la sovrastruttura, è radicalmente rovinato e imperfetto se le fondamenta sono insicure – così se la strategia è sbagliata, l’abilità del generale sul campo di battaglia, il valore del soldato, la brillantezza della vittoria, per quanto altrimenti decisiva, falliscono nel loro effetto.” Nella lotta a progetto jihadista queste parole sono particolarmente attuali, come dimostrato dal pantano iracheno, seguito alla seconda guerra del Golfo, e da ultimo dalla disavventura afgana. I fatti ed il tempo hanno dimostrato la gravità dell’errore strategico del Presidente George W. Bush, che ha persino presentato alle Nazioni Unite inesistenti prove della minaccia di inesistenti armi di distruzione di massa, in possesso del regime di Saddam Hussein, per invadere l’Iraq. Certamente vi era a priori una propensione della destra neo-con americana ad una politica militare interventista in Medio Oriente, ma forse gli Stati Uniti sono stati indotti in errore anche dall’aver prestato troppo ascolto agli esuli iracheni, che millantavano una profonda conoscenza del loro Paese, ma intendevano promuovere i propri interessi personali. Il principale fu Ahamed Chalabi[27], che mentiva sia sugli arsenali di Saddam e sull’accoglienza che le truppe americane avrebbero ricevuto laggiù, allo scopo di spingere gli Stati Uniti ad invadere il suo Paese e rovesciarne il Governo. Tuttavia aveva molto ascolto dall’establishment della Casa Bianca, e convinse i politici di Washington che sarebbe stato un eccellente leader per l’Iraq. In realtà Chalabi era legato all’Iran e l’unico suo obiettivo era deporre Saddam Hussein e favorire le ambizioni imperiali di Teheran, che voleva un Iraq in preda al caos. Alla fine della guerra del Golfo del 1991, in un documento segretissimo, rassicurava sul fallimento del tentativo dei gruppi islamici sostenuti dall’Iran nel Sud dell’Iran, che avrebbero deluso le speranze della popolazione. Li rappresentava come una forza sconfitta e compromessa, per minimizzare il peso della minaccia, invece quei gruppi avrebbero poi vinto le elezioni parlamentari del 2005, ed ora rappresentano il legittimo governo dell’Iraq (per quanto sia ora in difficoltà, come quello di Teheran). Washington fu colta alla sprovvista quando l’Iran si fece avanti per riempire il vuoto venutosi a creare in Iraq. Una volta tolto di mezzo Saddam Hussein l’Iraq laico era finito e gli sciiti iracheni erano maturi e pronti a prendere le armi per combattere una guerra santa contro l’occupazione occidentale. Utilizzarono lo stesso modello strategico sperimentato in Libano: dominare l’Iraq senza invasioni militari, ma grazie al controllo di una forza locale, diffondendo la dottrina religiosa e impiegano le nuove tecniche di guerriglia sperimentate nell’82 dai proxy libanesi. Il risultato è stato un successo strategico per gli Iraniani, che di fatto ora controllano l’Iraq, ed un doppio disastro per l’Occidente, perché il secondo effetto dell’invasione dell’Iraq (dello scioglimento del partito Baath e delle forze armate) è stata l’insorgenza terroristica sunnita, in reazione al potere sciita, che ha mutato l’organizzazione terroristica Al-Qaeda in Iraq, fondata dal giordano Abu Musab al-Zarqawi, nell’ultimo mostro jihadista, l’ISIS. Combinando l’attività dell’intelligence e delle forze speciali la nuova organizzazione è stata decapitata più volte, senza riuscire a neutralizzarla. Ucciso al-Zarqawi con un attacco aereo mirato, e così poi anche i primi suoi successori, subentra alla guida dello Stato Islamico il religioso Abu Bakr al-Baghdadi, sfrutta l’opportunità dei generosi finanziamenti offerti dalle monarchie del Golfo ai volontari combattenti contro il regime siriano di Bashar al-Assad (sostenuto dall’Iran tramite Hezbollah, oltre che dalla Russia) per rafforzare ed armare le milizie dell’Isis, strutturare il progetto del nuovo Califfato islamico ed auto proclamarsi Califfo, nella grande moschea al-Nuri, a Mosul. Così la lotta contro l’insorgenza terroristica è diventata una vera e proprio guerra ibrida, che sovrappone il conflitto con forme convenzionali sul terreno alle iniziative terroristiche e alla guerra dell’informazione, sul web.

L’intervento militare in Afghanistan.

Il caso dell’Afghanistan è diverso, anche se presenta tratti simili, forme di guerra ibrida. Caduto nel 1992 il regime filosovietico del presidente Najibullah, quando la guerriglia entrò a Kabul il governo era indebolito dalla defezione del suo uomo forte, Abdul Rashid Dostum. Seguì un rigurgito di tensioni etnico regionali e all’Alleanza del Nord, che aveva occupato la capitale, si oppose Guldbuddin Hekmatyar, di etnia pashtun e leader del partito islamico afgano, che attaccò Kabul. Mentre il Paese veniva diviso tra i signori della guerra e l’economia collassava, il saccheggio divenne il modo migliore per approvvigionare le forze combattenti. Questa situazione fu contrastata dal movimento talebano, con base a Kandahar e appoggiato dal Pakistan, che aspirava alla stabilità e all’ortodossia religiosa. Usufruendo del sostegno pashtun e dei profitti derivanti dal traffico di oppio, i talebani occuparono buona parte del Paese, conquistando Kabul nel 1996. Nelle aree non pashtun, soprattutto al Nord, rimasero sacche forti di resistenza al nuovo regime talebano. Fu a queste sacche di resistenza, etnicamente minoritarie, che si appoggiarono le forze americane nel 2001, quando rovesciarono il regime talebano, che aveva rifiutato di consegnare Osama Bin Laden e altri membri di Al-Qaeda, responsabili degli attentati dell’11 settembre. L’intervento militare americano disponeva di una potenza e capacità incomparabili alle forze talebane[28],  che furono presto sopraffatte sul terreno dalle forze afgane, soprattutto quelle del Fronte unito, la cosiddetta “alleanza del Nord”. Immediatamente dopo la caduta di Mazar-e Sharif, Herat e Kabul i talebani non riuscirono a riorganizzarsi: le defezioni derivate dalle loro divisioni interne accentuarono l’insuccesso a livello di comando e controllo. Tuttavia la campagna vittoriosa non determinò lo sperato e netto trionfo degli americani. L’impatto degli attacchi aerei americani era stato ovviamente notevole, dato il vantaggio tattico, ma ebbero minore successo le operazioni di terra contro i talebani ed i sopravvissuti di Al-Qaeda nei pressi di Tora Bora, e nel corso dell’operazione “anaconda”, a est di Gardez. La capacità dei talebani di approfittare della conformazione del terreno per mimetizzare e nascondersi. Già allora era chiaro che la guerra convenzionale era finita e che cominciava la guerriglia, che ha un lessico ed una grammatica diversa. Bastava conoscere la storia per capire che si riproponeva una situazione analoga a quella che conobbero un secolo prima gli inglesi, quando occuparono l’Afghanistan senza difficoltà, ma furono poi costretti a restare dalla resistenza che si era riorganizzata sulle montagne, chiudendo i valichi e le comunicazioni commerciali con l’esterno. Restare a tempo indeterminato ha fiaccato la superiorità militare degli inglesi e li ha costretti alla fine a ritirarsi, sconfitti. Una situazione analoga si è riproposta dopo più di un secolo ed ha costretto la coalizione internazionale a restare in Afghanistan a tempo indeterminato, esattamente come era successo nell’ottocento agli inglesi, e negli anni ottanta del novecento ai sovietici. Dopo venti anni di presenza militare, politiche di stabilizzazione del Paese, State building e capacity building delle forze di sicurezza afgane, la NATO ha ottenuto importanti risultati nella lotta al terrorismo e nella tutela e conquista dei diritti civili, soprattutto per le donne, che hanno potuto studiare e ricoprire ruoli importanti nella società e nelle istituzioni rifondate. Tuttavia questo non è bastato per conquistare i cuori e le menti della popolazione, che in larga parte ha continuato a vedere le forze armate straniere come eserciti di occupazione e simpatizzato per i talebani. Preso atto dell’impossibilità di raggiungere risultati più avanzati gli Stati Uniti hanno deciso di uscire dal teatro, negoziando un accordo con la laeadership politica dei talebani. Gli accordi di Doha, promossi dall’Amministrazione Trump, sottoscritti dai rappresentati dell’amministrazione USA e dei Talebani, hanno di fatto delegittimato il Governo Afgano, e questo ha determinato la sua mancanza di leadership e di capacità di organizzare e guidare le forze armate nella resistenza all’avanzata talebana. Una volta terminato l’impegno internazionale della NATO, in pochissimo tempo le principali città dell’Afghanistan sono cadute nelle mani dei Talebani, e l’Occidente si è visto costretto ad organizzare un precipitoso esodo dei collaboratori afgani delle forze armate occidentali, delle loro famiglie, e di coloro che restando in Afghanistan correvano un reale rischio di vita. Le immagini dei disperati, ammassati davanti all’aeroporto di Kabul, che tentavano invano di fuggire dal nuovo regime talebano, hanno colpito l’opinione pubblica occidentale e perché avevano il sapore di una vera e propria disfatta. A consuntivo di un impegno militare poderoso, che è costato un tributo alto di vite umane, moltissimi feriti, ed un impegno economico impressionante, è naturale ed opportuno trarre un bilancio complessivo dell’operazione e chiedersi se sia davvero valsa la pena di sacrificare tanto nella “guerra più lunga” per poi riconsegnare il potere agli stessi talebani che lo detenevano prima.

Antefatto: Hezbollah e la mano occulta dell’Iran.

“Nel maggio 2000 si verificò un evento straordinario. Per la prima volta nella storia mediorientale, un piccolo esercito di guerriglieri sconfisse un esercito occidentale convenzionale, ben attrezzato e addestrato. Prima di essere sconfitto in Libano, Israele, non aveva mai perso una guerra. Fu la prima volta che Israele cedette territori davanti alla forza delle armi.”[29] Questa vittoria dell’Iran in Libano non era prevista. Nel 1982, quando all’aeroporto di Damasco una ventina di pasdaran scesero dal 747 dell’Iran Air, nessuno avrebbe creduto che potessero combinare realmente qualcosa, perché il Libano era un caos e perché i Libanesi, sciiti compresi, consideravano i persiani come degli stranieri, una razza diversa, e non era affatto detto che li avrebbero accettati come alleati. Gli altri arrivarono in seguito, mai più di cinquecento per volta. C’era la guerra Iran Iraq in corso e l’ayatollah Khomeini spediva ondate di martiri iraniani sul fronte iracheno ad uccidere arabi. Anche se i Guardiani della rivoluzione non arrivavano in Libano per ammazzarli, i libanesi erano comunque arabi. Durante i primi anni della guerra in Libano non c’era molto di più che i pasdaran potessero fare, se non seminare disordine. Nell’aprile dell’83 fecero esplodere un camion bomba contro l’ambasciata americana a Beirut; nell’ottobre fecero saltare ina aria le caserme marines americane e dei militari francesi della forza multinazionale di pace, nell’ottobre dell’84 toccò alla nuova ambasciata americana. Rapirono e uccisero decine di occidentali, guadagnandosi la reputazione di assassini spietati e sovversivi. Apparentemente erano come altri stranieri, baathisti, siriani o palestinesi, venuti a rimestare nel torbido in Libano. Ma in realtà la strategia iraniani si basava su due aspetti. Innanzitutto sapevano che che i libanesi non volevano essere occupati da nessuno, né dagli israeliani, né dai siriani, né dagli americani, né da chiunque altro. Inoltre in Libano c’era un bacino enorme in cui reclutare guerriglieri, ottimi combattenti che si erano formati nella dura prova della guerra civile libanese. Quella in Libano è il modello di guerra che l’Iran ha adottato per conquistare il suo impero: una guerra combattuta da emissari in grado di governare i territori occupati. Certo “gli iraniani non immaginavano che a tre anni dal ritiro israeliano dal Libano gli Stati Uniti avrebbero commesso l’errore madornale di invadere l’Iraq e distruggere Saddam Hussein, nemico storico dell’Iran, offrendo lor il paese su un piatto d’argento.”[30]Nel 1982 l’ingresso israeliano in Libano era stato molto più rapido di quanto si potesse immaginare. L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che occupava il Libano, disorganizzata e male armata come era, divisa in una ventina di milizie corrotte ed in competizione tra loro, non poteva reggere il confronto con le forze armate israeliane, che in cinque giorni arrivarono alla periferia di Beirut, pronte ad invadere la città più moderna e sofisticata del mondo arabo. Come l’Iraq nel 2003 anche il Libano aveva smesso di essere una nazione nel 1975, quando fu sparato il primo colpo della guerra civile, fratturandosi lungo le linee delle tre principali confessioni, sciiti, sunniti e cristiani, che si odiavano tra loro più di quanto odiassero gli israeliani. “più che ritirarsi l’OLP si disperse come uno stormo di piccioni colpito da un fulmine: i palestinesi abbandonarono Beirut senza combattere, ritirandosi nella valle della Bekaa e nel Libano settentrionale. Lo stesso Yasser Arafat batté in ritirata fino al porto libanese di Tripoli da dove fu stretta a partire il 20 dicembre 1983 a brodo di una nave greca, diretto verso un lungo e inglorioso esilio in Tunisia.”[31] Così “Israele aveva creato in Libano il vuoto perfetto e l’amministrazione Reagan era euforica, convinta che il Libano, una volta liberato dai terroristi palestinesi, sarebbe tornato a essere la Svizzera del Medio Oriente. Un avamposto occidentale, un faro del cambiamento. (…) Esattamente quello che avrebbero pensato nel 2003 i neoconservatori a proposito dell’Iraq. (…) Ma c’era un dettagli che avevano trascurato sia la Casa Bianca di Reagan, sia gli israeliani: la generazione di quei giovani e induriti guerriglieri libanesi più abituati al kalashnikov che a una scheda elettorale. ”[32] Fu questo che sfruttarono gli iraniani, che guadagnarono la fiducia degli sciiti del Sud, dei più poveri, frustrati ed arrabbiati, e li convinsero a combattere contro gli israeliani. Erano musulmani sciiti devoti, ma la guerra che volevano combattere non era di natura religiosa, era una guerra di rivalsa contro i colonizzatori, a prescindere al fatto che fossero gli antichi ottomani, i francesi, un’élite araba occidentalizzata o gli israeliani. Così andarono le cose. L’Iran sovvenzionava in silenzio i libanesi che combattevano contro Israele. Gli iraniani proseguivano una lunga tradizione: nel corso della storia i persiani hanno sempre creduto che ogni operazione importante debba essere compiuta nell’ombra. La guerra che avevano in mente doveva essere coperta dal segreto e combattuta per procura, esclusivamente dai libanesi, gli iraniani si sarebbero limitati a fornire le armi e il denaro. Ogni attacco autobomba, ogni rapimento e ogni omicidio eseguito dai jiahdisti aveva l’approvazione dei Guardiani, che a loro volta l’avevano avuta da Khomeini, e poi da Khamenei. “L’Iran non ebbe la meglio in Libano diffondendo la propria religione e la propria cultura, bensì grazie alle più classiche basi del potere: le armi e il denaro. (…) Purtroppo gli americani sono come ciechi di frotne a scenari così complessi e trovano più facile ridurre l’Iran a una teocrazia. Questo è un errore che ha indotto gli Stati Uniti a fare appello alla democrazia e ai valori occidentali per abbattere il regime iraniano, per dimostrare che i mullah erano falsi profeti. Ciò di cui non ci rendiamo conto è che i nostri ideali non abbatteranno mai i mullah, perché già da tempo i mullah hanno barattato il Corano con il kalashnikov.”[33] La lealtà di clan e l’elusività degli sciiti rendono Hezbollah poco intelligibile. In virtù del principio della taqqiya il credente sciita ha il permesso di mentire, e l’inganno può essere permanente, permeare ogni aspetto della vita, per proteggere la propria fede. Questo è uno dei motivi per cui né l’intelligence americana, né quella israeliana, sono mai stati in grado di infiltrarsi in modo efficace in Hezbollah. La capacità di tenere un segreto è un aspetto essenziale per vincere una guerra di guerriglia, e gli hezbollah conoscono bene il principio della compartimentazione delle informazioni, in base al quale ogni combattente deve sapere solo lo stretto necessario per portare a termine la sua missione.  “Ancora oggi né americani, né israeliani conoscono i nomi dei comandanti sul campo di Hezbollah. Israele ha combattuto contro un fantasma.”[34] Sotto certi aspetti questo modello è persino più pericoloso di Al-Qaeda e di Daesh. La spaventosa strage dell’11 settembre, orchestrata da Bin Laden, in fin dei conti che risultato ha prodotto per Al-Qaeda? Nessun territorio, nessuna concessione, nessuna simpatia. Bin Laden è stato ucciso ed i sopravvissuti della sua leadership continuano a vivere nelle grotte esattamente come prima, come se le torri gemelle non fossero mai crollate. La modernizzazione della guerriglia attuata dall’Iran rappresenta uno sviluppo della tattica militare importante almeno quanto l’introduzione della mitragliatrice nella Prima guerra mondiale o dei carri armati nella seconda. Sotto l’aspetto militare le specificità e le innovazioni delle tattiche di guerriglia sono significative e rilevanti, vanno dall’elusione della sorveglianza dai cieli e del bombardamento aereo alla capacità di essere visibili ed invisibili, nascondendo le identità dei capi militari, dalla segretezza e sicurezza delle comunicazioni alla capacità di decifrare i codici degli avversari, dall’uso di autobomba e camion bomba all’impiego di nuovi esplosivi e di ordigni platter charge e sagomati. L’Iran negli anni ha messo a punto un orientamento strategico contro l’Occidente che potremmo definire “a sciami”, ed ora ha una strategia realistica e pragmatica. La sua trasformazione da Stato terrorista a potenza militare che domina milizie guerrigliere proxi come Hezbollah in Libano, Hamas a Gaza, o le forze del sud dell’Iraq, come il partito  Da’wa, rappresenta una minaccia significativa e reale di espansione nell’area. Finché ci saranno nel Medio Oriente le condizioni di rabbia ed insoddisfazione diffusa ideali per arruolare nuovi mujaheddin l’Iran replicherà il modello di Hezbollah dove gli sarà possibile, per attuare il suo disegno imperialistico, e rappresenterà la principale minaccia strategica di cui preoccuparci in tutta l’area.

Che fare?

“Alcuni Stati non avrebbero mai dovuto nascere – e in realtà non sono mia esistiti. La geografia del mondo moderno (…) è il prodotto di secoli di colonialismo occidentale, ed è una geografica che si sta decomponendo: alcuni Stati si dividono, altri collassano, altri ancora sembrano sul punto di sparire del tutto. La globalizzazione ha riempio questo vuoto con un colonialismo del XXI secolo perseguito dagli Stati più forti, dalle agenzie internazionali, dalle ONG e dalle grandi multinazionali. Dietro lo schermo dell’indipendenza formale, questi attori stanno guidando un numero crescete di paesi”[35] Ignorando questo punto, riconducendo tutta alla militarizzazione della lotta al terrorismo, non lo si può sconfiggere. Gli stati non coincidono con le nazioni, i confini non rendono giustizia delle legittime aspirazioni dei popoli ad avere una propria Patria. Ciò genera un senso di ingiustizia, produce sentimenti di rabbia, crea il terreno fertile perché il disegno egemonico e la brama di potere di attori malvagi crei ed alimenti il terrorismo jihadista. Come sostiene Andrea Manciulli il terrorismo è come l’Idra di Lerna, quella creatura mitologica serpentina dotata di un numero incredibile di teste, una sola delle quali era immortale. Quando Ercole l’affrontò scoprì che ogni volta che le tagliava una testa altre due crescevano a prenderne il posto, rendendo il mostro ancora più pericoloso. Per sconfiggerla l’eroe escogitò il sistema di cauterizzare con il fuoco le ferite, ogni volta che le tagliava una testa, impedendole di ricrescere. E’ una bella metafora perché evidenzia l’inutilità di colpire il terrorismo senza eliminarne la capacità di rigenerazione, di reclutamento di forze nuove, di reperimento di risorse finanziarie, di capacità di seduzioni ed ispirazione per migliaia di giovani arrabbiati, persi nella spirale infinita del risentimento. Bisogna bonificare i giacimenti dell’odio, per cauterizzare le ferite ed impedire al mostro di generare nuove teste. Nel Nord Africa ed in Medio Oriente abbondano i giacimenti di odio: dalla Siria alla Palestina, dal Libano a Gaza, dall’Iraq, dall’Afghanistan. I giacimenti di odio sono nella penisola arabica, nel Maghreb, nel Sahel, nel Corno d’Africa, in Africa Centrale, ma anche nelle periferie degradate delle nostre belle capitali europee. L’azione di intelligence, di prevenzione e di repressione, sono fondamentali. Mitigano il rischio ed indeboliscono le strutture organizzative, comunicative e militari delle reti terroristiche, ma non bastano. Serve una nuova politica per la pace, fatta di investimenti, di nuove opportunità per chi pensa di non averne più. E’ l’unico modo per isolare e togliere forza alle eminenze grigie che coltivano l’odio per alimentare le schiere dei combattenti jiahdisti al servizio dei loro biechi interessi di potere. Questo è vero in molti casi, come nel conflitto arabo israeliano, che prendiamo ad esempio. Lo ha detto con coraggio e forza il nuovo ministro degli Esteri di Israele, Yair Lapid: “La politica che Israele ha perseguito fino ad ora non ha cambiato sostanzialmente la situazione. Le chiusure non hanno fermato né il contrabbando, né la produzione di armi. (…) Cosa dovremmo fare? In breve, la risposta è che dobbiamo iniziare un grande processo pluriennale di economia per la sicurezza. E’ la versione più realistica di quello che in passato si chiamava riabilitazione per la demilitarizzazione. Lo scopo del processo è quello di creare stabilità su entrambi i lati del confine, dal punto di vista civile, della sicurezza, dell’economia e della diplomazia. La comunità internazionale e la gente di Gaza devono sapere che il terrorismo di Hamas è ciò che si frappone tra loro e una vita normale. Inoltre, questo processo permetterà ad Israele di concentrare le sue risorse e al sua attenzione sulla vera lotta: il programma nucleare iraniano e il tentativo di diventare una potenza regionale diffondendo terrore e violenza. (…) Lo dico chiaramente: questa non è una proposta di negoziare con Hamas. Israele  non parla con le organizzazioni terroristiche che vogliono distruggerlo. Dal punto di vista dello Stato d’Israele, l’organo rappresentativo dei palestinesi non è Hamas, ma l’Autorità Palestinese. Israele non distribuirà premi alle organizzazioni radicali terroristiche, né indebolirà l’autorità che lavora in parallelo con noi in modo organizzato. (…) E’ ora di fare pressione su Hamas. E’ tempo di far si che i residenti di Gaza facciano pressione su Hamas, perché capiscano cosa si perdono a causa del terrorismo e quanto abbiano da guadagnare se esso si ferma.” Si tratta di un cambiamento strategico molto rilevante, nella politica israeliana. Se questa nuova strategia verrà realmente adottata innescherà certamente reazioni importanti nel quadrante mediorientale. Messo a fuoco il vero nemico, l’Iran ed i suoi burattini di Hamas, il disegno strategico punta a determinare una frattura nel mondo palestinese tra i terroristi e quella parte di popolazione che è stanca di lutti e sofferenze e vorrebbe vivere in pace, ed in sicurezza. E’ il contrario di quel che si fa da tanti anni. Non si è solo perso del tempo, si è alimentato quel risentimento che ha favorito i terroristi e permesso loro di reclutare tanti giovani, alimentati con messaggi di odio verso Israele. Rispetto al passato il contesto sociale è molto compromesso. Al momento pochi giovani palestinesi credono nella possibilità della pace e della convivenza con gli israeliani. Ma non ci sono idee migliori in campo, c’è solamente l’alterantiva di continuare con la semplice politica militare repressiva, che si è già dimostrata inefficace, per non dire controproducente, sul piano strategico. Vale la pena di tentare una strada nuova. Presumibilmente la reazione Iraniana sarà feroce ed utilizzerà Hamas per attuare ritorsioni e sabotare questo piano. Probabilmente gli estremisti della destra estrema Israeliana non saranno da meno. Ma alla base di questa strategia c’è un pensiero. C’è l’idea che la maggior parte dei palestinesi sia costretto dallo stato delle cose a solidarizzare con Hamas, ed utilizzato dagli iraniani per perseguire i loro disegni di egemonia sull’area mediorientale. E c’è l’idea di interrompere questo gioco. Di trovare nuovi alleati per la pace e per la sicurezza. Di indebolire il nemico sul terreno che gli ha permesso di crescere e di rafforzare le sue posizioni, quello politico, del consenso e dalla forza derivata dalle sofferenze dei più disperati. Non è una strategia velleitaria, di anime belle, pacifisti ideologici o ingenui. E’ una strategia politica e militare lucida e concreta, che ricorda le antiche parole di Sun Tzu “Trasformare la distanza in vicinanza; il disagio, in comodità, la fame, in sazietà; è questo il metodo per controllare il vigore (…) la vera vittoria è la vittoria sull’aggressione, una vittoria che rispetti l’umanità del nemico rendendo così inutile un ulteriore conflitto”. Nel recente passato del medioriente ci sono stati militari che hanno combattuto per garantire la sicurezza e politici che hanno combattuto per conquistare la pace. Gli unici progressi reali sono stati ottenuti quando entrambe le azioni miravano realmente allo stesso risultato. Nel 1977 il presidente egiziano Muhammad Anwar al Sadat, che aveva voluto e perduto la guerra dello Yom Kippur, andò in Israele, dove incontrò il primo ministro israeliano Menachem Begin e fu invitato a parlare alla Knesset, il parlamento israeliano, per discutere di come ottenere una pace duratura tra i due paesi. L’anno successivo, Sadat e Begin vinsero congiuntamente il premio Nobel per la Pace, e nel 1979 firmarono gli accordi di pace a Camp David, negli Stati Uniti, alla presenza dell’allora presidente statunitense Jimmy Carter. L’Egitto divenne il primo paese arabo a riconoscere l’esistenza di Israele. Nel 1993 Yitzhak Rabin, che era stato capo di stato maggiore dell’esercito di Israele al tempo della guerra dei sei giorni, sottoscrisse ad Oslo, davanti al presidente americano Bill Clinton, un accordo per la pace con il leader dell’OLP Yasser Arafat, e negoziò insieme a Simon Peres un accordo di pace con la Giordania nel 1994[36]. Anche allora il tentativo di bonificare i giacimenti dell’odio per creare le condizioni di una pace duratura trovò la reazione feroce dei più intransigenti. Sia Sadat che Rabin furono assassinati, ma resta l’ispirazione e la strada tracciata dal loro lavoro. Sconfiggere il terrorismo e le dottrine di intimidazione violenta è la condizione per venga finalmente il giorno della svolta, quando la visione riesce a superare la realtà, e si creano le condizioni per la stabilità e la pace nel Medio Oriente, e la sicurezza dell’Ordine Mondiale.

Alberto Pagani


[1] Militare ed archeologo, agente segreto dell’intelligence britannica, scrittore, la cui storia racconta nel film Lawrence d’Arabia (diretto da David Lean nel 1962), fu uno degli ispiratori e capi della rivolta araba durante la Prima Guerra Mondiale. 

[2] T.E. Lawrence, La guerriglia nel deserto, 1921, Passigli, Antella, 2006.

[3] “This book is a manual for the training of guerrilas in psychological operations, and its application to the concrete case of the Christian and democratic crusade being waged in Nicaragua by the Freedom Commandos” p 100.

[4][4] “This conception of guerrilla warfare as political war turns Psychological Operations into the decisive factor of the results. The target, then is the minds o the population, all the population. Our troops, the enemhy troops and the civilian population.” P.100

[5] Yuval Noah Harari, 21 Lessons for the 21st Century, trad. it. 21 Lezioni per il XXI secolo. Bompiani, 2018, p 237,238.

[6] “Il ricordo degli attacchi dell’11 settembre dimostra che il pubblico ha una memoria selettiva. Se chiedete alla gente che cosa è accaduto l’11 settembre, vi dirà ceh al-qaieda ha abbattuto le torri gemmelle. Ma l’attacco non era limitato alle Torri, comprendeva anche altre due azioni, in particolare un riuscito attacco al Pentagono. Perché in pochi se ne ricordano? Se l’operazione dell11 settembre fosse stata una convenzionale campagna militare, l’attacco al Pentagono avrebbe dovuto attirare gran parete dell’attenzione: infatti, in questo caso al-Qaida riuscì ad arrecare significativi danni al quartiere generale del nemico, uccidendo e ferendo comandanti e analisti esperti. Perché la memoria collettiva dà molta più importanza alla distruzione di due edifici civili e all’uccisione di agenti di borsa, contabili e impiegati? Questo accade perché il Pentagono è un edificio relativamente piatto e convenzionale, mentre le Torri del World Trade center erano un altissimo totem fallico il cui collasso produsse un immenso effetto scenografico. Tutti coloro che hanno visto le immagini del loro crollo non potranno mai dimenticarle. Poiché intuitivamente comprendiamo che il terrorismo è una forma di spettacolo, lo giudichiamo sulla base del suo impatto emotivo piuttosto che sulla base della sua portata materiale.” Yval Noah Harari, Op. cit., p. 240, 241.

[7] “L’esempio più clamoroso è la conquista di Mosul, la seconda città dell’Iraq, nel giugno 2014. A Mosul ci vivevano 1,8 milioni di persone, difese da circa 30.000 soldati iracheni che sono fuggiti di fronte ai fanatici incendiari, torturatori dell’ISI, che avevano pubblicizzato con dovizia di particolari i mostruosi eccidi compiuti man mano che avanzavano in direzione delle città. Sulle loro teste sventolava la bandiera che avevano cooptato, poi divenuta per definizione la bandire dell’ISIS.” Tim Marshall, Worth Dying For. The Power and Politics of Flags. 2016, trad. it. Le 100 bandiere che raccontano il mondo, Garzanti, 2019., p. 150

[8] “Al fine di mitigare queste paure, lo Stato è portato a rispondere al teatro del terrore con il suo teatro della sicurezza. La risposta più efficace al terrorismo potrebbe essere una competente attività di spionaggio e un’azione molto segreta e dura contro le reti finanziarie che lo alimentano. Ma questo non è qualcosa che i cittadini possono vedere in televisione. I cittadini hanno visto lo spettacolo raggelante delle Torri Gemelle che crollano. Lo Stato si sente obbligato a mettere in scena un contro-dramma altrettanto spettacolare, con effetti ancora più speciali. Così, invece di agire nel silenzio e con efficienza, lo Stato scatena una potente tempesta che non di rado realizza i sogni più sfrenati dei terroristi.” Yuval Noah Harari, Op. cit., p 244.

[9] Ibidem, p. 150-155.

[10] “Dopo l’11 settembre 2001, ogni anno i terroristi hanno ucciso circa cinquanta persone nell’Unione Europea, circa dieci negli Stati Uniti, circa sette in Cina, e poco sopra le 25.000 unità in tutto il mondo (la maggior parte della quali in Iraq, Afghanistan, Pakistan Nigeria e Siria). Mentre ogni anno gli incidenti automobilistici uccidono circa 80.000 europei, 40.000 americani, 270.000 cinesi e 1,35 milioni di individui nel complesso. Il diabete e la glicemia alta mietono fino a 3,5 milioni di vittime all’anno, mentre arrivano a circa 7 milioni i decessi imputabili all’inquinamento atmosferico. E allora perché abbiamo più paura del terrorismo che dello zucchero, e perché i governi perdono le elezioni a causa di sporadici attacchi di terroristi ma non a causa del cronico inquinamento dell’aria? “ Op. cit.

[11] Yuval Noah Harari, Op. cit., p 235-236.

[12] Carlo Jean Op. cit., p 57.

[13] “…tutto lo spazio in cui l’informazione esiste, viene generata o è trasmessa per mezzo dei vari media”, F. Zinzone e M. Cagnazzo, L’arte della guerra nell’era post-moderna. “La battaglia delle percezioni”, (edizione in lingua italiana), edito da Zinzone e Caganzzo, 2020.Cap. 1.

[14] Henry Kissinger, World Order, 2014 trad, it. Ordine mondiale, Mondadori 2015, p. 345.

[15] Carlo Jean, “La stategia nelle guerre di quinta generazione”, in Luciano Bozzo (a cura di) Studi di strategia. Guerra, politica, economia, semiotica, psicoanalisi, matematica. Egea, 2012, p. 56

[16] Yuval Noah Harari, Op. Cit. p 202.  

[17] T. E. Lawrence, I sette pilastri della saggezza, 1922, Grandi tascabili economici, Newton Compton, 2006.

[18] Ibn Khaldun, Antologia della Muqaddimah (a cura di Francesca Forte), Jaca Book, 2019.

[19] Per introdurre alla conoscenza di questo straordinario autore arabo si consiglia Massimo Campanini, Ibn Khaldun e la Muqaddima. Passato e futuro del mondo arabo. Edizioni La vela 2012.

[20] Ibn Khaldun, Op. cit., p. 18.

[21] Ibidem p. 19

[22] Ibidm, p. 20.

[23] R. Smith, The Utility of Force, Random Hous, New York 2005.

[24] B.R. Barber, Jiahd vs Mc World, Ballantine, new York 1995.

[25] Siglato durante laPrima Guerra Mondiale, l’accordo Sykes-Picot stabilì le future zone di influenza e di controllo di Impero britannico e Francia sui territori mediorientali e anatolici dell’Impero ottomano.

[26] Henry Kissinger, World Order, trad it : Ordine monidale, Mondadori 2018, p 140-141.

[27] “Poche persone sono state più amate e più odiate a Washington di Ahmed Chalabi, un espatriato iracheno che ha affascinato i politici americani e ha sostenuto apertamente la guerra in Iraq del 2003. (…)Che se lo sia meritato o no, il nome di Chalabi è diventato sinonimo della precipitosa guerra americana in Iraq e dei suoi fallimenti nella più ampia regione del Medio Oriente. La storia personale di Chalabi è impressionante. Chalabi lasciò l’Iraq alla fine degli anni Cinquanta, arrivando negli Stati Uniti dove ottenne una laurea in matematica al Massachusetts Institute of Technology (MIT) e un dottorato all’Università di Chicago. Prima che iniziasse la guerra in Iraq, abitava a Londra in un appartamento di 12 stanze arredato con eleganti mobili e opere d’arte molto costose. Il suo innegabile genio era nel conoscere Washington e i suoi meccanismi. Brian Katulis, un analista esperto di Medio Oriente per il Center for American Progress, ha detto che Chalabi «era ascoltato dalle amministrazioni sia Repubblicane che Democratiche». Negli anni Novanta la CIA e il Congresso americano stanziarono milioni di dollari per il Congresso nazionale iracheno, il partito politico guidato da Chalabi che operò per molto tempo in opposizione a Saddam Hussein. In quegli anni Chalabi si muoveva tra Washington, Londra e le regioni del nord dell’Iraq controllate dai curdi. Il suo ruolo crebbe dopo che George W. Bush fu eletto presidente. Chalabi e il suo partito cominciarono a far uscire dall’Iraq gli oppositori di Hussein, gli stessi che raccontarono che il regime iracheno era in possesso di armi chimiche e nucleari (informazioni che si rivelarono quasi del tutto infondate). Convinse importanti funzionari dell’amministrazione Bush che la guerra in Iraq sarebbe stata veloce e facile. L’allora vice-presidente Richard Cheney disse alla vigilia dell’invasione: «Saremo accolti come dei liberatori». Cheney stava di fatto ripetendo le cose che diceva Chalabi.” https://www.ilpost.it/2015/11/04/ahmed-chalabi/

[28] “Le forze americane disponevano di una dotazione “che comprendeva bombardieri a lungo raggio B-52e B-2 stealth, la possibilità di vasti rifornimenti in volo, aerei e missili da crociera Tomahawk su gruppi di portaerei e navi da guerra nel mare arabico, le “cannoniere volanti”Ac-130 per l’appoggio aereo tattico, velivoli teleguidati e munizioni “a effetto combinato” Cbu-130 (cluster bomb unit: bomba a grappolo) che seminavano bombe a frammentazione. La possibilità di poter ricorrere a una doppia modalità (guida laser e GPS) per le bombe aumentò il grado di precisione, mentre gli assalti aerei poterono contare di su informazioni provenienti da numerose fonti, compresi il controllo aereo avanzato e i sistemi GPS di terra.” Jeremy Black, Le guerre nel mondo contemporaneo, il Mulino – le vie della civiltà, 2006.

[29] Robert B. Baer, The devil we know 2008, trad. it Iranyana. Un agente segreto nel cuore dell’impero di Ahmadinejad. Piemme, 2010, p. 75

[30] Ibiem, p. 80.

[31] Ibidem, p. 84.

[32] Ibidem, p. 84,85.

[33] Ibidem, p106.

[34] Ibidem, p109.

[35] P. Khanna, Come si governa il mondo, 2011, p. 134.

[36] In occasione dell’accordo di pace con la Giordania Rabin parlò a una sessione congiunta del Congresso degli Stati Uniti insieme a re Hussein di Giordania: – Oggi stiamo iniziando una battaglia in cui non ci sono morti né feriti, né sangue né dolore. Questa è l’unica battaglia che è un piacere ingaggiare: la battaglai delal pace…

Nella Bibbia, il nostro Libro dei Libri, la pace è menzionata nelle sue varie locuzioni duecentotrentasette volte. Nella Bibbia da cui noi traiamo i nostri valori e la nostra forza, nel Libro di Geremia, troviamo una lamentazione per la matriarca Rachele. Essa dice: “Trattieni la tua voce dal piangere, i tuoi occhi dal versare lacrime: poiché l’opera loro sarà ricompensata, dice i Signore”. I non mi tratterrò dal piangere per coloro che se ne sono andati. Ma in questo giorno d’estate a Washington, lontano da casa, sentiamo che la nostre opera sarà ricompensata, come predisse il profeta.


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