Come l’annunciato ritiro statunitense cambia la guerra in Siria

 

L’annuncio del Presidente Donald Trump di ritirare, in virtù della sconfitta dell’ISIS, il contingente di circa 2.000 militari, segna un’ulteriore variabile della recente fase del conflitto siriano.

Congelato, con la tregua dello scorso 15 ottobre tra Russia e Turchia il fronte di Idlib e contenute per il momento le capacità delle milizie qaediste di Hayat Tahrir al – Sham, due restavano i fronti militarmente più critici: l’area a Nord Est del paese controllata dalle milizie curde addestrate dagli Stati Uniti e il confine con Israele in prossimità delle alture del Golan.

Nel Nord Est della Siria, la presenza statunitense aveva molteplici motivazioni: addestrare le forze curde contro le restanti sacche dell’ISIS, svolgere una funzione di deterrenza e pressione diplomatica nei confronti della Russia e contenere il ruolo dell’Iran all’interno della Siria e in prossimità del confine iracheno.

Una presenza sostanzialmente limitata ma che, tuttavia, consentiva a Washington di esser parte attiva, seppure in contrasto con la Turchia, nel mosaico militare e diplomatico del conflitto siriano.

L’annuncio del ritiro, definito dalle forze curdo – siriane, una “pugnalata alla schiena” segue le dichiarazioni di pochi giorni fa del Presidente Recep Erdogan, di voler avviare operazioni militari in territorio siriano contro le milizie curde che, è bene ricordarlo, sono state sostenute in funzione anti – ISIS dagli Stati Uniti.

L’annuncio del ritiro, insieme al ridimensionamento della presenza in Afghanistan ha determinato l’ennesimo scossone nell’amministrazione Trump. La scorsa notte infatti, il Segretario alla Difesa James Mattis ha annunciato le sue dimissioni, rimarcando in modo inequivocabilmente polemico che “ il Presidente Donald Trump merita un segretario alla Difesa con idee che sono allineate alle sue”. Una presa di posizione mai così netta da parte del Pentagono che teme non soltanto il ritorno dell’ISIS, dato più volte per sconfitto più di un anno fa sia da Putin che da Nasrallah, ma anche la possibile e definitiva affermazione dell’Iran e della Russia nella crisi siriana. Va infatti riconosciuto che, seppure limitata a circa 2.000 militari, la presenza statunitense in Siria era l’unico strumento nelle mani di Washington per incidere in qualche modo nei due paralleli e contraddittori strumenti di negoziazione operanti oggi in Siria: i negoziati di Ginevra sotto l’egida dell’Onu e quelli di Astana voluti da Putin.

Intanto la situazione sul campo di battaglia nella Siria orientale si fa sempre più fluida.

Le forze curde rischiano di trovarsi schiacciate tra la pressione turca, il dover abbandonare qualsiasi ipotesi indipendentista (Rojava) oppure ricercare un compromesso con Damasco. Un compromesso, peraltro cercato invano lo scorso luglio e che ora sembra essere l’ultima carta da giocare per evitare lo scontro con la Turcha.

Il Premier Netanyahu ha dichiarato ad Haaretz di esser stato messo al corrente dal Segretario di Stato Mike Pompeo dell’imminente ritiro e che gli Usa avrebbe utilizzato altri modi per esercitare la propria influenza nell’area.

L’Iran, esposto al pressing delle sanzioni statunitensi, potrebbe in qualche modo beneficiare, sotto il profilo del consolidamento della propria presenza in Siria, dell’imminente ritiro Usa senza tuttavia uscire, al momento, dal sempre più stringente isolamento internazionale che rischia di deteriorare ulteriormente l’economia iraniana.

Sotto il profilo militare inoltre, il ritiro non coincide né con la sconfitta di quel che resta delle milizie dell’ISIS né facilita i compiti di stabilizzazione di un’area che rischia, anche in virtù della prossimità con l’Iraq, di veder riemerge forme d’insorgenza analoghe a quelle conosciute negli ultimi dieci anni.

La possibilità che all’azione militare, così decisiva e prolungata contro l’ISIS in questi anni, non coincida e soprattutto non faccia seguito un processo inclusivo di peacebuilding, rischierebbe di vanificare l’azione della Comunità internazionale e, nella peggiore delle ipotesi, replicare l’errore del ritiro prematuro dall’Iraq intrapreso dall’amministrazione Obama.

In questo scenario la Russia sembra essere l’unica potenza in grado di dialogare con tutti gli attori regionali e i non state actors coinvolti in Siria. Un ruolo che dovrà però saper bilanciare i risultati raggiunti con la Turchia nella tregua di Idlib, la presumibile volontà di Damasco di recuperare tutti i territori ancora oggi in mano a forze ribelli e porsi anche come garante della sicurezza di Israele che vede con preoccupazione la fuoriuscita degli Stati Uniti dal campo di battaglia siriano.

Una sintesi di interessi apparentemente inconciliabili, sui quali Vladimir Putin e Sergej Lavrov cercheranno di far valere l’approccio adottato in questi anni, basato sul classico “divide et impera” e sul dialogo tra attori apparentemente inconciliabili in quello che, almeno fino al prossimo annuncio, sembra essere il Medio Oriente “post – americano”.

Matteo Bressan è analista della NDCF, docente presso LUMSA e SIOI

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