Perché è necessario lavorare sulla prevenzione al fenomeno della radicalizzazione jihadista. L’analisi di Michele Groppi

Seppur i dati confermino che il 2018 sia stato un anno “contenuto” in termini di attentati, non possiamo permetterci di abbassare la guardia.

Strasburgo, le continue minacce di quel che resta dello Stato Islamico, nonché il sanguinoso attentato in Kenya, ci ricordano che la minaccia jihadista è viva e vegeta. E purtroppo, è probabile che questa sia destinata ad accompagnarci per diversi anni a venire.

Esperti illustri, tra cui Lorenzo Vidino, Peter Neumann e Alex Schmid, nonostante riconoscano il buon operato degli apparati di sicurezza nazionale e continentale, richiamano l’attenzione sulla necessità di migliorare le politiche di prevenzione, soprattutto a livello sociale. In sostanza, il problema non potrà sempre essere lasciato in mano solo a perquisizioni, arresti ed espulsioni. Occorre anche un approccio maggiormente olistico ed interdisciplinare, che si focalizzi, in questo caso, su come prevenire che certi individui si radicalizzino e accettino o prendano parte ad atti terroristici.

In realtà, è proprio la prevenzione a livello sociale ad essere il fulcro di numerose iniziative anti-radicalizzazione a noi più o meno prossime. Nei Paesi Bassi, alcune scuole superiori offrono corsi di inclusione volti all’integrazione e alla normalizzazione di qualsiasi gruppo etnico e culturale con l’intento di sensibilizzare e diminuire sentimenti di emarginazione e risentimento. In Gran Bretagna e in Belgio, in aggiunta a politiche ministeriali – concepite anche in vista del ritorno di foreign fighters dal Califfato – l’attenzione è posta sul ruolo dei community leaders, al fine di offrire punti di riferimento a soggetti potenzialmente vulnerabili all’interno di contesti urbani e suburbani. Così come accade in Austria, dove l’iniziativa viennese Sisters Against Violent Extremism unisce madri che operano contro la radicalizzazione dei figli. Ma anche qualora un individuo fosse già radicalizzato, Danimarca e Germania offrono programmi di “contenimento” e “uscita”. Ad Aarhus, per esempio, tutor specializzati collaborano con le autorità competenti, offrendo consigli su come interagire con soggetti radicalizzati, mentre estremisti tedeschi di ogni genere (estrema destra/jihadisti) sono incoraggiati a contattare i membri di Exit per qualsiasi tipo di assistenza.

In Marocco, il Re ha investito grandi risorse nella formazione di Imam ai quali è stato affidato il compito di contrastare l’estremismo. Di particolare interesse è L’Institut Mohammed VI Pour La Formation Des Imams, Morchidines, et Morchidates, inaugurato più di dieci anni fa ededito alla formazione di donne studiose dell’Islam, le quali combattono ignoranza e manipolazione religiosa. Anche l’Arabia Saudita, terra dell’Islam Wahabita, ha lanciato numerosi corsi e programmi che minano l’ideologia jihadista e qaedista, offrendo persino un lavoro a ex jihadisti. In Mali, il governo ha riconosciuto l’esigenza di investire nelle fasce della popolazione maggiormente a rischio radicalizzazione, portando lavoro e speranza. In Nigeria, nelle aree precedentemente controllate da Boko Haram, le autorità intendono ristabilire la coesione sociale attraverso partite di calcio che uniscano giovani cristiani e musulmani. E negli Stati Uniti, sebbene l’amministrazione Trump abbia diminuito i fondi destinati alla lotta all’estremismo, dozzine di centri e istituti continuano lo studio di tale fenomeno arricchendo sia il dibattito accademico che quello politico.

In Italia, invece, non sempre si affronta il tema della prevenzione a livello sociale. Indubbiamente il nostro Paese vanta misure preventive d’indagine tra le migliori al mondo. E all’interno del sistema carcerario esistono programmi innovativi e di spessore volti proprio al contrasto alla radicalizzazione e alla deradicalizzazione dei detenuti. Tuttavia, in confronto alle realtà sopraelencate, in Italia l’ambito sociale resta abbastanza inesplorato. Una ricerca di dottorato svolta dal sottoscritto per il King’s College di Londra su un campione indicativo, ma pur sempre rappresentativo della comunità islamica italiana, dimostra che, sebbene non vi sia alcun collegamento statisticamente significativo tra emarginazione e sostegno alla violenza di stampo religioso, il 50% degli esaminati (220/440) si sente discriminato in quanto musulano; l’82% (358/440) crede che esista una guerra mediatica contro l’Islam; e più del 60% (281/440) sostiene che le istituzioni italiane non facciano abbastanza per facilitare l’integrazione della comunità. Quest’ultimo dato è particolarmente rilevante poiché, come affiora nelle interviste, promuove sentimenti di isolamento e vittimismo che, se non affrontati, potrebbero portare al sostegno del terrorismo.

Sia chiaro: non siamo ancora stati attaccati perché vantiamo un’esperienza decennale di lotta al terrorismo. Perché applichiamo misure preventive efficaci (controlli e espulsioni). Perché, come sostiene Vidino, in Italia non sembrano esserci ancora quelle condizioni che hanno portato al terrorismo in paesi come Francia, Belgio, Inghilterra e Germania. E perché, a volte, i jihadisti prioritizzano i loro attacchi. Infatti, almeno fino ad oggi, per diversi motivi, alcuni più evidenti, altri meno, il nostro Paese non è stato al centro delle mire jihadiste allo stesso modo di altri paesi, forse perché considerato un bersaglio meno appetibile.

Ma credere che le cose resteranno sempre così potrebbe essere rischioso. I tempi stanno cambiando e con essi si scorgono i primi “segnali” del mutamento. La composizione demografica del Belpaese si evolve. Flussi migratori e multiculturalismo divengono tematiche sempre più politicizzate. Aspirazioni e tensioni sociali emergono sempre di più. Si intravedono le prime banlieues all’italiana nelle periferie di Milano, Torino e Roma. E non posso fare a meno di domandarmi se nei prossimi 10-15 anni le condizioni in queste aree, se non affrontate, cambieranno a tal punto da fomentare il Jihadismo in Italia.

Fortunatamente credo che il nostro Paese si possa considerare distante da tali scenari. Rimango dell’idea, però, che l’Italia non possa permettersi di minimizzare il tema della prevenzione a livello sociale. Nelle scuole, nel dibattito accademico, nelle periferie, in chiese e moschee, ma anche in Parlamento, dove proposte di legge come quella Dambruoso/Manciulli potrebbero contribuire alla nascita di un percorso di prevenzione simile a quelli dei nostri partner internazionali. Mi sembra chiaro dunque, che non possiamo stare con le mani in mano. Ogni settore della società civile deve dare il suo contributo. Si può e si deve migliorare in tutti i campi. Prevenire è sempre meglio che curare.

Michele Groppi, laureato in relazioni internazionali presso Stanford University, Master in antiterrorismo e sicurezza nazionale presso l’IDC di Herzilya e PhD in studi della Difesa presso il King’s College di Londra. Attualmente docente associato alla Accademia della Difesa del Regno Unito, dove insegna presso corsi su sicurezza nazionale.

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