Energia e geopolitica. Quale ruolo per l’Europa nello scacchiere energetico mediterraneo?

Energia e geopolitica sono sempre di più legate. Tra Russia, Stati Uniti, paesi produttori del Medio Oriente e Cina, quale ruolo può giocare l’Unione Europea nel complesso sistema di scambi e rivalità nel settore energetico? Il sogno di un nuovo corridoio sud, oltre la Russia e il Nord Africa.

La politica estera russa degli ultimi anni, anche a garanzia di un aumento costante delle quote di export energetico sui clienti tradizionali come l’Europa, ha visto un pesante intervento nei paesi di prossimità europea, Ucraina e Siria su tutti.

Parallelamente, abbiamo assistito alla costruzione di una sponda, anche militare, della Russia con l’Iran che garantisce al governo di Putin una voce tra le più potenti in Medio Oriente, dalla Siria e l’Iraq fino allo Yemen passando per il Libano di Hezbollah. Tutto questo potrebbe determinare un potenziale interesse strategico della UE a dissaldare l’asse Russia-Iran, consentendo in caso l’evacuazione di gas iraniano verso l’Europa per garantire la tenuta del paradigma energetico europeo di sicurezza.

È pur vero che la Russia è il principale produttore di Gas a livello globale e detentore del maggior numero di riserve al mondo, che ha un confine di alcune migliaia di chilometri con L’Europa, che siede all’ONU e ne orienta o ne impedisce le scelte e che è un partner nella lotta al terrorismo. Fermo restando tutto questo e tenendo vivo un dialogo con la Russia, è importante per l’Europa rilanciare una politica estera che passi per un grande progetto energetico infrastrutturale, per l’Iran e per la Cina.

L’Europa ha costruito dal dopoguerra il suo paradigma di sicurezza energetico centrandolo su due assi di intervento: da un lato la differenziazione delle rotte di approvvigionamento energetico e dall’altro, parallelamente, la diversificazione nel paniere energetico di diverse fonti di energia, puntando decisamente su fonti meno o non inquinanti e ponendosi come modello di sviluppo sostenibile globale. Questo ha significato, tra le altre cose, un aumento significativo della produzione da fonti rinnovabili e un progressivo decrescere del consumo da fonti fossili con la sola eccezione del gas, fonte pulita, economica e ragionevolmente garantita.

Nel corso degli ultimi quarant’anni, l’Europa si è assicurata le forniture di gas necessarie al suo fabbisogno tramite cinque principali rotte di approvvigionamento. Dal Nord Africa, dall’Algeria e dalla Libia, tramite l’ingresso in Italia come importante paese di transito, dalla Norvegia e UK dai giacimenti nel Mare del Nord e, in modo sempre più rilevante e tramite un articolato network di gasdotti, dalla Russia specialmente tramite l’Ucraina e, per via diretta, tramite il North Stream e il suo prossimo raddoppio che legano la Russia alla Germania. L’ipotesi di una evacuazione di gas russo tramite un corridoio meridionale, il South Stream, che avrebbe dovuto trasportare un totale di 63 miliardi di metri cubi di gas a fronte di una domanda interna europea di import gas di circa 400 miliardi di metri cubi e che vedeva nella sua compagine azionaria le principali aziende petrolifere europee, è stato osteggiato da molti paesi dell’est Europa che temevano una ingerenza crescente nelle loro politiche interne da parte russa. Questa opposizione ha trovato una formidabile sponda negli Stati Uniti per motivazioni sia di ordine politico che economico.

Infatti, i massicci investimenti effettuati a partire dal 2000 nel settore dello shale gas e nella liquefazione del gas negli Stati Uniti hanno determinato che nel breve torno di pochi anni gli US siano diventati un esportatore netto, ritrovando così una posizione di leadership globale nel segmento oil&gas. Il governo statunitense, premendo sui suoi partners europei, ha favorito nel 2013 la cessazione del progetto South Stream assicurando alle sue aziende, al contempo, la vendita di Liquefied Natural Gas (LNG) prodotto in US la cui quota complessiva di consumo europea è aumentata di circa cinque volte in pochi anni.

La situazione politica in Nord Africa con la Libia in disarray e l’Algeria che assorbe buona parte della produzione gasiera per esigenze interne e la conseguente drastica diminuzione di export gasiero verso l’Europa in termini assoluti, l’esaurirsi progressivo dei giacimenti del Mare del Nord, hanno portato de facto ad un massiccio incremento di import di gas russo la cui percentuale sulla domanda europea è di circa il 40% del totale, con un incremento sostanziale negli ultimi anni a detrimento soprattutto della quota libica. Questo aumento, nonostante risponda alla lettera del regolatorio europeo che impone delle quote massime ai singoli importatori, mette a rischio quella misura di sicurezza politica che vuole un equilibrio fra fonti di approvvigionamento.

La sicurezza dell’approvvigionamento di una fonte, a sua volta, si definisce dalle rotte di evacuazione e dal prezzo. Per decenni il gas è stato esportato tramite gasdotti che, se pure hanno un costo economico importante, garantiscono una sicurezza degli approvvigionamenti tramite un razionale anche politico fra costo di produzione/trasporto e prezzo e con un orizzonte temporale misurato in decenni oltre che una politica di vicinato fra paese esportatore e paese importatore basata su un piano di concretezza. Shale gas statunitense e LNG hanno cambiato il paradigma di sicurezza energetica garantendo uno sviluppo anche in Europa di import di LNG e di progetti infrastrutturali connessi. Tuttavia, il gas liquefatto messo in barili e trasportato come il petrolio o qualsivoglia merce su navi o binari cambia il suo prezzo in funzione della domanda anche giornaliera, esponendosi al trading e alle sue insidie. Le oscillazioni di prezzo, ancorché calmierate da misure di protezione finanziaria, impediscono una ragionevole sicurezza per il fabbisogno europeo. Quindi i gasdotti manterranno una preminenza dal punto di vista delle scelte di sicurezza poiché legano il paese produttore ai paesi di transito e consumatori e assicurano una certezza dell’export con prezzi negoziati a lungo termine.

Dal punto di vista delle infrastrutture energetiche, il progetto su cui si declina la politica estera cinese, la Belt and Road Initiative (BRI) lanciata nel 2013, sembra essere la più potente realtà politica a livello globale. Fingere che non stia accadendo o che possa essere impedita è una malattia di certa politica. Soprattutto per lo sviluppo della rete energetica legata alla BRI, l’Europa deve cercare di farne parte come soggetto attivo. Pena, ancora una volta, il rischio di restare ai margini dei giochi internazionali, di subirne gli impatti economici e di sicurezza. L’approccio cinese, non dissimile in questo da quello russo sul piano energetico, consiste già nel negoziare singolarmente con ciascuno stato europeo una posizione che, gioco forza, è minoritaria rispetto alla possibilità di un fronte negoziale comune. Un orizzonte di intervento europeo, dentro cui l’Italia può ritagliarsi un ruolo, dovrà disinnescare il ruolo di leader della Russia che oggi pare preminente in medio oriente, trovare una mediazione fra US e Iran e farlo legandosi al grande gioco dei gasdotti che legheranno l’Europa alla Cina passando dalla Russia, dai paesi dell’Asia Centrale e dall’Iran.

Per esempio il progetto di costruire un gasdotto che importi gas dall’Iran all’Europa alleggerirebbe il ruolo dell’export russo e garantirebbe una immensa ulteriore fonte di supply di gas che aggiungerebbe una gamba fondamentale al paradigma di sicurezza energetico europeo. Il gasdotto, partecipato dalle principali aziende petrolifere europee, avrebbe diverse rotte possibili di evacuazione con l’opzione turca che attraverserebbe l’intera penisola garantendo quel ruolo di hub energetico verso l’Europa che la Turchia ha sempre cercato e che legherebbe le politiche di Ankara a quelle della UE, mai così lontane come adesso.

Un progetto così ambizioso e di lungo periodo dovrebbe poter garantire alle majors petrolifere un ritorno alla produzione in Iran congiuntamente ad un percorso di legami anche finanziari fra occidente e Iran tramite l’acquisto di debito pubblico iraniano, ad oggi a livelli bassissimi anche al netto di una recente impennata dovuta alle sanzioni in corso. L’emissione di Bond potrebbe legare lo sviluppo industriale iraniano alla dimensione europea. Aprendo così l’Europa al sistema industriale iraniano e dando al paese una via di fuga dal ricatto delle sanzioni, sarà possibile veicolare il portato valoriale europeo, combattendo le spinte conservatrici nel paese e stimolando un dialogo su basi nuove e con prospettive sociali diverse.

A questo progetto sarebbe importante affiancare una definizione più ampia dell’autorità europea in materia di energia attraverso un’Autorità Unica Europea per l’energia che lavori come centro di negoziazione e di acquisto del supply energetico, che favorisca la partecipazione delle principali aziende petrolifere europee in azioni e nel management dei gasdotti di transito e, in generale, delle reti di trasporto energetico nei paesi di prossimità europea.

Una nuova politica infrastrutturale che lavori sui rigassificatori, sui siti di stoccaggio così come sulle infrastrutture di connessione interne al territorio dell’Unione e lo faccia seguendo una logica europea che ci liberi dai ricatti del territorio locale e di non mai ben definite comunità salvifiche che dicono di proteggere e invece distruggono sovranità, e con essa un futuro fuori dal sogno testardo di chiudersi dentro piccole false patrie.

Simone Valle

Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni di Europa Atlantica

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