Oltre la vittoria dei conservatori. Cosa ci dicono le elezioni nel Regno Unito

I risultati elettorali britannici pongono diversi interrogativi: dal destino della Brexit,  alla crisi dei Laburisti fino al futuro dei rapporti con l’Europa. Qualche valutazione sulle elezioni nel Regno Unito

Dopo una breve e intensa campagna elettorale, di cui Boris Johnson è stato il protagonista indiscusso (e lo si è visto anche nei risultati), il voto britannico ci ha restituito dei responsi, abbastanza chiari, su cui è possibile fare alcune valutazioni e qualche prima, provvisoria, analisi. In attesa di vedere come, dopo le elezioni, il nuovo governo guidato dai conservatori riuscirà ad affrontare il complesso confronto con l’Unione Europea.

La prima valutazione, evidente, che si può fare è legata all’indiscutibile vittoria dei Tories e del loro istrionico leader, che ha giocato tutto, anche con una certa dose di spregiudicatezza, sulla ruota della Brexit. Vincendo. Una vittoria dovuta a molti fattori, oltre che alla debolezza e alle divisioni dei suoi avversari, ma, molto, anche alla capacità comunicativa di Bo-Jo, alla sua efficacia, dovuta anche a una certa capacità provocatoria e, soprattutto, all’essere riuscito a comunicare con grande fermezza un messaggio diretto. Gli elettori inglesi, con questo risultato, hanno confermato la generale tendenza in atto da anni in tutti i paesi occidentali: ovvero la preferenza verso guide politiche percepite come autorevoli, in grado di comunicare messaggi forti e diretti. In questo c’è la conferma di quanto alcuni capi politici definiti un po’ “populisti” riescano a raccogliere simpatie e consenso, proprio per la loro capacità evidente di stabilire una più efficace e diretta empatia con gli elettori. Senza filtri o mediazioni.

Ma oltre a questo primo elemento, si conferma anche lo spostamento progressivo dei partiti popolari e conservatori verso destra, frutto di un più generale spostamento del consenso elettorale verso destra. Un processo in atto in tutto il continente europeo, e non solo, a cui,  molto spesso, i partiti del fronte opposto sembrano voler contrapporre un eguale maggiore radicalismo, senza grandi risultati. Il dato vero, anche dopo le elezioni britanniche, è che le leadership politiche più forti, in questo momento, a parte Macron e Angela Merkel, ormai abbastanza consumata e decisamente avviata verso l’uscita di scena, sono in gran parte ad appannaggio di uomini più o meno marcatamente di destra o comunque con una forte connotazione nazionalista, che incarnano e comunicano con grande capacità messaggi molto chiari oltre che la rappresentanza diretta degli interessi e dello spirito nazionale della propria comunità, a volte usando metodi e linguaggi non troppo “istituzionali” o politicamente corretti, ma forse per questo apprezzati dal “popolo”.  Leader forti, che investono comunicativamente molto nel trasmettere l’idea della propria determinazione, che per questo vengono apprezzati dall’elettorato, anche quello un tempo moderato, in cerca sempre di più in tempi di incertezza, paura e rancore strisciante, di punti di riferimento e appigli certi. In questo clima non sorprende la simpatia che riscuotono, in alcuni paesi europei, anche leaders stranieri di paesi autoritari,  percepiti come più capaci e forti, di quelli democratici, e in grado di risolvere i problemi del proprio paese.

Poi,  che le reali capacità dei leaders scelti possano confermare promesse e intenzioni è tutto da vedere. Ma in generale stiamo assistendo a una generale fuga verso destra, una destra per certi versi non tradizionale,  che in tempi di insicurezza generale, non solo si sta rilanciando grazie a un certo nazionalismo, che è pur sempre un’idea molto forte e di grande presa, ma anche dando risposte spesso semplicistiche a questioni che interessano moltissimo soprattutto i ceti popolari un tempo tradizionalmente più vicini alla sinistra: crisi economica, immigrazione, disoccupazione, sicurezza. La risposta ai mali e ai problemi della modernità sembrano essere ricercate in un ritorno sempre più forte dentro i propri confini, a difesa dei quali è necessario ergersi, poiché tutte le minacce che pregiudicano lo stato di benessere conquistato sembrano provenire da fuori di essi. Per certi versi si affronta la complessità del presente e la paura per il futuro non senza qualche nostalgia del passato, e una certa retorica di grandezza, tipica dei nazionalismi di ogni epoca, diventa il collante per la speranza di un rilancio e di una nuova grandezza. Dal “Make America great again” di Trump, per certi versi il vero apripista di questa nuova destra, al richiama di Johnson alla grandezza perduta del Commonwealth, fino alle promesse di riscossa nazionale, dei sovranisti francesi, italiani, olandesi, tedeschi, svedesi, spagnoli. Ognuno declinando a proprio uso e consumo interno, slogan e promesse che in realtà potrebbe sembrare molto simili (per quanto diversi). Forse, la nuova destra sovranista, poco moderata e molto social, ha indubbiamente compreso meglio come la comunicazione politica ai tempi della rivoluzione digitale necessiti messaggi molto diretti e poco articolati. Puntando tutto sui messaggi, rivolti alla pancia degli elettori, che però non sono privi di riferimenti culturali forti: quelli propri del nazionalismo e di una certa idea di protezione e sicurezza e anche individuando avversari precisi contro cui scagliarsi. Può piacere o meno, ma sono messaggi che affondano le proprie radici nelle più profonde esigenze delle persone, nelle paure più intime, nel desiderio di protezione, e non sono alieni da un’idea di società che viene trasmessa con grande facilità agli elettori.

Seconda valutazione: gli inglesi hanno confermato la scelta  per la Brexit. A scanso di tanti dubbi che in questi ultimi anni erano cresciuti vuoi per il risultato risicato del referendum del 2016, vuoi per i sondaggi che rappresentavano il paese diviso a metà, oggettivamente, una larga parte dell’elettorato inglese ha confermato la sua volontà di uscire dall’Europa. O almeno, ha scelto il partito che su questo punto, dopo anni e mesi di incertezze, dietrofront, polemiche e teatrini imbarazzanti, aveva di più e meglio espresso parole chiare dando una prospettiva diretta a chiudere, una vola per tutte, quel teatrino.

Dall’altra parte, tra gli anti-Brexit, non è emerso un messaggio altrettanto forte e chiaro in grado di raccogliere il consenso di chi, pur molti, erano ostili all’uscita del Regno Unito dall’Europa. La differenza, tal volta, sta anche nella compattezza dei blocchi elettorali. Quello pro-Brexit è rimasto più compatto e ha trovato nei Tories e in Boris Johnson soprattutto, il proprio campione. Gli altri non hanno avuto la stessa fortuna e non hanno potuto contare da un lato su un partito pro-Remain altrettanto forte nei numeri e nel radicamento elettorale su tutto il paese, come potevano essere i Laburisti con un leader abbastanza forte e credibile. Non è escluso che qualche indeciso, o qualche elettore comunque preoccupato o contrario alla Brexit, abbia scelto comunque i Tories, perché rappresentavano la promessa di voler, in tempi rapidi, chiudere questo lungo estenuante percorso durato troppi anni e con troppi intoppi.

Terza valutazione: hanno perso clamorosamente i liberali, che erano sembrati nel corso degli ultimi mesi un partito in crescita e hanno perso nonostante la loro volontà di voler essere il partito più anti-brexit. Segno che il sistema politico inglese, anche per il suo sistema elettorale, rimane fondamentalmente bipolare, quasi bipartitico, a parte il caso delle regioni come Irlanda del Nord e Scozia e molto meno il Galles, dove prevalgono, sempre di più, i partiti locali e regionali. Liberali e verdi, che in altri paesi europei si erano affermati come partiti emergenti tra i politici classici, in Gran Bretagna sono rimasti molto marginali.

Quarto punto: la Scozia adesso potrebbe tornare ad essere un problema, visto il risultato rotondo dello SNP e la distanza, sempre più forte, sugli obiettivi, tra scozzesi e inglesi. La Scozia potrebbe diventare, con le dovute differenze, una sorta di “nuova Catalogna, con l’aggiunta che potrebbe anche diventare l’apripista ad altri problemi simili in Irlanda del Nord, e nel Galles.

Sul piano politico interno, la possibilità che crescano nuove tensioni spinte da nuove pulsioni autonomistiche nelle regioni periferiche del regno, è forse oggi il fatto più rilevante e pericoloso, insieme alle possibilità che il percorso di Brexit possa subire nuovi inciampi e possa avere ricadute negative sul piano interno.

Quinto: l’Europa ha perso ancora. Andrebbe capito cosa avrebbe significato una vittoria per l’UE, ma siamo convinti che abbia comunque perso. Alcuni dicono che forse con questo risultato si ha la certezza che dopo tanta incertezza si potrà raggiungere un finale alla vicenda Brexit. Sono tre anni che i reciproci errori, le incomprensioni, le polemiche, hanno creato un clima che in qualche modo ha favorito questo risultato.

Ma deve essere chiaro che dall’uscita del Regno Unito tutti perderanno qualcosa, anche sulla base di come potranno proseguire concludersi i prossimi passaggi e gli accordi futuri tra UE e UK. Ma non è ancora chiaro, invece, quale potrà essere il guadagno per entrambe. L’UE certamente  perderà uno dei suoi membri più importanti e non sembra, purtroppo, aver voluto fare molto per convincerlo a rimanere, anche quando poteva sembrare possibile. Hanno pesato le storiche inimicizie e ostilità, tra alcuni paesi continentali e la Gran Bretagna, anche in questo approccio remissivo e rinunciatario dell’Unione Europea? O forse e più in generale ha pesato la sostanziale incapacità di affrontare una situazione inedita e inaspettata? Forse entrambi.

Alcuni, oggi, ritengono che, quando i britannici saranno fuori dall’Unione, a patto che riescano a esservi in tempi rapidi, in Europa potremo riuscire a fare dei veri passi avanti, sul processo di integrazione politica, mai fatti prima. Come se la colpa delle non-scelte del passato derivi solo dalla presenza dei britannici.  Mi pare molto ottimistico e anche un po’ riduttivo. Il dubbio, al netto che si riesca a trovare un accordo finale su Brexit in tempi rapidi, è che, invece, altri sul modello britannico possano decidere nei prossimi anni di andarsene, e soprattutto, le relazioni tra paesi atlantici possano comunque complicarsi. Ci sono partite, dalla difesa alla sicurezza a tutte le questioni di tipo economico e commerciale fino ai rapporti UE-NATO, su cui il rapporto tra paesi europei e gran Bretagna è fondamentale. Che ne sarà? Non è dato saperlo. Ma per quanto tentata dalle sirene americane, anche alla Gran Bretagna non converrà mai allontanarsi troppo dalle sponde contentali, così come all’Europa, fare si che questo allontanamento avvenga.

Inoltre è importante cercare di comprendere la sconfitta di Corbyn e dei Laburisti. Permettetemi di indugiare un po’ su questo punto, il tema merita un po’ più di una semplice riflessione per diversi motivi. Innanzitutto per le dimensioni della sconfitta: storica. Poi perché in tanti, anche sul continente, guardavano all’esperimento di Corbyn con la speranza di poter vedere affermarsi una sorta di rinascita della sinistra dura e pura, che una vittoria elettorale nel paese che aveva dato i natali alla tanto vituperata e ripudiata Terza via e al Blairismo, avrebbe finalmente fatto giustizia della storia e dei suoi errori riportando al canto di “Bandiera rossa”, la “vera”sinistra al governo. I risultati sono stati l’opposto. Di vera c’è solo la disfatta. Non solo è franato il Red Wall, ma il risultato complessivo del partito ha segnato un negativo che non si registrava così pesante da molto tempo.

Le cause di questa sconfitta? Ci vorrà un po’ di tempo, per analizzare bene i risultati, ma appare chiaro, come molti organi di stampa e commentatori inglesi hanno fatto notare, come abbiano influito diversi elementi: in primis la scarsa credibilità e popolarità di Corbyn, un leader poco amato nel paese, e soprattutto, attaccato di recente su molti e diversi versanti, non ultimo per importanza, per le accuse ricevute di antisemitismo. Del resto le posizioni di Corbyn su Israele sono note e per un partito di governo della sinistra del terzo millennio, non accettabili.

È stato fatale anche il programma del Labour: lungo e superato. Altro che svolta radicale, si è trattato di un ritorno a temi e slogan novecenteschi assolutamente fuori luogo e inadeguati a rappresentare e rispondere alle necessità e ai problemi della seconda decade del terzo millennio: dalla crisi dei certi medi, all’immigrazione, alle diseguaglianze crescenti, alla politica estera. Infine la vera tragedia politica: le posizioni ambigue e contraddittorie su Brexit.

Alle parole d’ordine determinate e precise di Bo-Jo, Corbyn ha contrapposto dei balbettii incerti, da cui era sostanzialmente molto difficile capire quale fosse la linea del partito, e la sua, sul tema Brexit.  Una linea più decisa e magari nettamente europeista sarebbe bastata per vincere? Difficile dirlo, forse no, ma  in un sistema politico cosi marcatamente bipolare o quasi bipartitico nella rappresentanza istituzionale, avrebbe trasmesso agli elettori un messaggio più chiaro sull’unico vero tema su cui si potevano attaccare Johnson e i conservatori, visti gli errori commessi in questi tre anni. Poteva essere la bandiera su cui ricompattare non solo l’elettorato progressista ma anche un parte di ceti medi più moderati spaventati o preoccupati dalle possibili conseguenze di una Brexit disordinata. Invece, accarezzando l’idea, illusoria, di poter riconquistare voti nei ceti popolari filo-Brexit, e sostanzialmente non affatto convinti dell’adesione alla UE, si è preferito essere ambigui e poco convinti, nella convinzione che con quelli che un tempo votavano i laburisti, nella zone oggi deindustrializzate e in crisi dell’Inghilterra profonda, bastasse riportare qualche bandiera rossa e qualche slogan dal sapore un po’ vintage per recuperare i voti persi. Un errore. Perché quelle stesse aree urbane o rurali, perché quegli elettori “popolari”, da anni, ormai, in Gran Bretagna come in Francia o in Italia o nella Germania profonda, hanno scelto di sposare altre parole d’ordine che stanno in bocca ai partiti sovranisti e nazionalisti, i quali, promettono soluzioni facili ai problemi complessi attraverso garanzie e certezze sociali ed economiche in nome di nuovi dazi, per difendere le produzioni nazionali, e di confini sicuri, contro gli immigrati che “rubano il lavoro”, in nome di più sicurezza, di più fermezza, e di maggiore decisione nella guida del paese, in barba alla burocrazia e alla lentezza dei processi decisionali democratici. Nazionalizzazioni e promesse di riforma del welfare possono essere la risposta a messaggi che invece si rivolgono direttamente alle paure più profonde delle persone e che in maniera più semplicistica, cercando di dare un approdo certo, una risposta concreta e facile da capire, in tempi di grande insicurezza? Alla diffusa sfiducia verso lo Stato, portato di decenni di propaganda neoliberista e antistatalista, si pensa di poter rispondere proponendo più Stato, magari anche attraverso formule un po’ sorpassate nel tempo?

La realtà è che la capacità di analisi e di risposta ai dilemmi della società odierna e alla crisi generale che le nostre società occidentali attraversano, che non è solo economica, ma anche sociale e culturale, messe in campo in tutta Europa dai partiti di sinistra è molto carente e forse anche inadeguata. La destra sta cercando di dare risposte spesso demagogiche, fondate su idee forti come sovranismo e nazionalismo e una certa radicalità di messaggi. La sinistra quando va bene rispolvera vecchie soluzioni e vecchi slogan novecenteschi, spolverati con un po’ di massimalismo 2.0. oppure balbetta, incapace anche di formulare una qualche idea forte alternativa e innovativa rispetto a quelle degli ultimi decenni. In entrambi i casi perde, perché sul continente, per esempio, ha visto crescere formazioni più radicali e populiste alla sua sinistra oppure movimenti ambientalisti o libertari che per lo meno avevano proposte politiche più innovative capaci di parlare e mobilitare una parte di voto di opinione o giovanile. Il caso di Melanchon, Macron o dei Verdi tedeschi sono emblematici, ma anche degli stessi 5 stelle in Italia (con i dovuti distinguo).

Non vi è dubbio che la politica dei nostri tempi richieda maggiore decisione e messaggi diretti. E forse anche una certa radicalità, espressa, però, soprattutto attraverso leadership in grado di suscitare un interesse mediatico e di comunicare in modo diretto. Leader forti che esprimano messaggi chiari. La sinistra europea è tutta in crisi, non certo solamente Corbyn è l’espressione di questa crisi, in quanto, fondamentalmente, incapace di trovare una comune progettualità riformista in grado di rispondere alla esigenze attuali, dei ceti medi e popolari, ma anche di realizzare una visione nuova, di società e di mondo e di formulare risposte concrete a esigenze primarie delle persone che nel corso degli ultimi anni, dopo la crisi del 2008, si sono scoperte (o sentite) più deboli ed esposte all’insicurezza. La Terza via, per quanto possa aver fallito, era stata un tentativo, nel furore neoliberista degli anni Novanta, di trovare risposte nuove per la sinistra, in un tempo di crescita economica. Oggi, probabilmente, in tempi così diversi e in una fase della storia mondiale così complessa, serve altro, anche in ragione delle nuove fratture sociali e culturali che stanno attraversando la società europea e occidentale in genere.

È infatti l’ultima riflessione che queste elezioni ci portano a fare e riguarda la nuova distinzione, sempre più forte, negli orientamenti di voto, tra “campagne” e “città”. Per non banalizzare un tema serio, mi riferisco, ovviamente, alle distanze, in termini di scelte elettorali, sempre più marcate ed evidenti, tra le realtà rurali o di periferia, soprattutto nella provincia profonda e nei piccoli centri, e le grandi aree urbane, non solo delle metropoli. Tenenza in atto da alcuni anni in tutto l’Occidente, Stati Uniti compresi. Anche in aree storicamente ad appannaggio di scelte elettorali di sinistra, nel corso degli ultimi anni sono aumentati notevolmente i consensi ai partiti di destra e populisti. Mentre nelle città, soprattutto nei centri urbani, un tempo storicamente sedi di un forte insediamento elettorale dei partiti di opinione e moderati, si è allargata la forbice a favore dei candidati e dei partiti di sinistra e progressisti. Evidentemente le motivazioni sono molteplici, e derivano oltre che dai cambiamenti in corso a livello culturale e sociale, anche dagli effetti della globalizzazione e della crisi finanziaria del 2008, dai processi di deindustrializzazione e di impoverimento delle aree più marginali, alla crisi di rappresentanza dei corpi intermedi fino alla precarizzazione del mercato del lavoro. È chiaro che nelle aree più fragili, nelle periferie e nella zone rurali, la crisi economica ha colpito più in profondità sollevando reazioni più dure, e un maggiore senso di incertezza e di paura che ha spinto non pochi elettori, un tempo di sinistra, verso le nuove formazioni sovraniste e populiste, soprattutto di destra.

In quelle stesse aree la mobilità sociale e le occasioni di riscatto sono indubbiamente minori rispetto ai centri urbani e alle aree metropolitane, e la sensazione, oltre alla realtà, di un peggioramento nei livelli personali di benessere è più forte e diffusa. Questo ha portato ad una chiusura progressiva verso l’esterno e a una maggiore ostilità verso i processi di trasformazione in atto, siano di natura economica, che culturale o sociale. Non può sorprendere se nelle aree deindustrializzate dell’America più profonda, come nelle province del Red Wall inglese vincono Donald Trump con la sua promessa di dazi o le posizioni dei brexiteers. Così come in alcune province dell’Italia del Nord o del centro, un tempo serbatoi elettorali di sinistra e moderati, o nelle province della Francia settentrionale più impoverite dalla crisi e dai processi di globalizzazione e di evoluzione del mercato del lavoro.

In queste realtà dove il morso della crisi ha affondato con più forza i suoi denti, dove la paura per il diverso e il nuovo è più radicata, le ricette della destra sovranista, in questa fase storica, appaiono come più credibili, anche perché capaci di incanalare la rabbia sociale e il rancore verso soggetti ben identificati: l’Unione Europea o gli immigrati, la burocrazia statale o le grandi banche. La sinistra di governo, spesso arroccata in posizioni difensive, viene associata con l’establishment o in difesa dell’esistente, e ha perso terreno, in alcuni casi rischiando anche di scomparire. In Gran Bretagna ha riportato una sconfitta cocente, come era già avvenuto in molti altri paesi europei, nonostante il tentativo di riproporsi come più “radicale”.

In sintesi, è evidente che il risultato britannico non può sorprendere, essendo la somma di una serie di vicende e di fenomeni, interni ed esterni alla politica britannica, che hanno giocoforza contribuito al suo dato finale e di cui, Boris Johnson, ha saputo alla fine approfittare. Dalla debolezza e incertezza dei suoi avversari, alla stessa debolezza del suo partito che ha saputo trasformare nella sua forza personale, dal favore delle forze di destra in questa fase storica alla voglia di chiudere una pagina frustrante della politica nazionale degli elettori britannici. Il tema Brexit nel suo complesso ha avuto probabilmente il ruolo principale tra tutti i fattori.

È un risultato però che adesso può produrre diversi scenari e conseguenze, sia a livello nazionale, che internazionale. La via verso la Brexit, per quanto accelerata, potrà essere ancora impervia. E la stabilità e il consenso del futuro governo Johnson non è detto che sarà sempre così forte. Dipenderà da come il percorso verso Brexit andrà avanti, e dai risultati che produrrà nel tempo sul paese, soprattutto l’impatto economico. Ma anche da come, tensioni e problematiche che il voto non ha cancellato,  soprattutto nelle regioni dove sono più forti in venti autonomisti, potranno riesplodere o emergere. E infine, dipenderà anche dallo spazio internazionale che il Regno Unito saprà ritagliarsi, tra i cugini americani e gli alleati europei, dopo la promessa di un ritorno del Regno Unito ai fasti di un tempo, grazie a Brexit , in un mondo complicato dove l’Occidente dovrebbe avere la forza di essere più unito a fronte della competizione crescente tra potenze, vecchie e nuove.

Quale ruolo vorrà (e potrà) interpretare a livello europeo e globale il Regno Unito, qualora riesca a completarsi il percorso della Brexit, è ancora una grande incognita e dipenderà anche da come questo stesso percorso si svilupperà. Di certo non è e non sarà un tema banale, non solo per il futuro delle relazioni transatlantiche, ma anche per il futuro dell’Europa.

Enrico Casini, Direttore di Europa Atlantica

Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni di Europa Atlantica

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