Strategia e Interesse Nazionale in Italia: Avvertenze e Modalità d’Uso

L’analisi di Niccolò Petrelli, docente di studi strategici all’Università Roma Tre.

La crisi prodotta dalla diffusione del Covid-19 ha reso il contesto della politica estera italiana ancor più volatile, contribuendo da un lato all’accelerazione della competizione fra USA e Cina e dall’altro esasperando ulteriormente una serie di fratture pre-esistenti, sia all’interno delle istituzioni dell’Ue, che tra i Paesi membri. L’impressione generale suscitata da tali eventi è stata che si evolvessero in maniera troppo rapida e inaspettata rispetto alla capacità di risposta del paese, che il processo decisionale fosse frammentato, non sempre coerente, e molto reattivo, dettato da contingenze e da tentativi (più o meno riusciti) di cogliere “finestre di opportunità”, più che da una coerente visione generale del corso d’azione da seguire. Come molto spesso già accaduto nel corso della storia repubblicana, diverse voci si sono levate lamentando un annoso problema: l’incapacità dei vertici politici di operare coerentemente in politica estera e di collegare in maniera sistematica tale sfera alla dimensione interna della politica nazionale al fine di promuovere “l’interesse nazionale” del paese.

C’è del merito in queste critiche. Com’è ampiamente noto, l’Italia ha per decenni rinunciato a portare avanti una riflessione sobria, spassionata ed ampia in relazione agli “interessi nazionali”, limitandosi a considerarne la sola dimensione esterna, generalmente fatta coincidere con l’essere un membro responsabile e di rilievo della comunità internazionale, dell’Alleanza Atlantica, l’Unione Europea e l’Organizzazione delle Nazioni Unite. Eppure allo stesso tempo sottintendere, come i critici implicitamente fanno, che il concetto di “interesse nazionale”, sic et simpliciter, possa essere efficacemente utilizzato in funzione normativa, come strumento deputato a fornire standard in base ai quali sviluppare obiettivi e linee d’azione, e rispetto a cui analizzare la gestione della res pubblica, appare problematico. Il concetto di “interesse nazionale” è infatti di per sé astratto, intrinsecamente ambiguo e legato al contesto in cui viene utilizzato, dunque facile preda di strumentalizzazioni.

Uno strumento alternativo attraverso cui l’Italia potrebbe dare struttura e coerenza alla propria politica estera, integrandola con quella interna è la grand strategy o strategia nazionale, che al concetto di “interesse nazionale” è strettamente collegata.

Il concetto di interesse nazionale infatti non può e non deve essere pensato come una sorta di monade. Come sottolineato da diversi studiosi nel corso degli anni, esso è coestensivo con gli obiettivi generali di uno stato e le politiche atte a promuoverli. Proprio per questa ragione nel discorso pubblico, ed anche in termini colloquiali, si tende a parlare di “interesse nazionale” più che in termini astratti, riferendosi ad elementi come “il benessere economico della collettività”, in termini concreti, equiparandolo ad obiettivi piuttosto immediati o con specifiche politiche, ad esempio affermando che la stipulazione di un trattato con gli USA, una disciplina di Golden Power o una serie di accordi di libero scambio sono “nell’interesse nazionale”. In pratica il concetto di interesse nazionale sussume i fini e i mezzi (ovvero la strategia) individuati per promuoverlo e proteggerlo.

L’idea di utilizzare la grand strategy come architettura intellettuale volta ad integrare, connettere logicamente e dare coerenza a politiche e obiettivi nazionali, potrebbe apparire eccessivamente ambiziosa, laboriosa ed anche inadatta alla cultura politica e struttura istituzionale di un paese come l’Italia; in realtà non è questo il caso, una volta fatta chiarezza sulla natura del concetto.

Quando si pensa alla grand strategy si tende ad associarla ad un documento formale che enunci un principio generale, come ad esempio il containment USA durante la Guerra Fredda. Più spesso, riflettendo le origini militari del termine, si ritiene che essa consista in un piano ampio, che, dopo aver identificato i fini supremi che uno stato persegue e le risorse disponibili, elabori una sequenza di mosse attraverso cui realizzare tali fini. Ciò è possibile, anche probabile se si guarda alla produzione di documenti di sicurezza nazionale che caratterizza le “grandi potenze” del sistema internazionale contemporaneo, ma non necessario. In una prospettiva più ampia ed ecumenica la grand strategy può infatti essere pensata come un semplice “quadro intellettuale”, per citare Hal Brands, uno schema generale. In altre parole, la si può considerare una dichiarazione di intenti orientata verso il futuro e un’indicazione dei parametri in base ai quali un certo numero di risorse verranno generate ed impiegate in taluni modi per soddisfare tale intento. Secondo la definizione concisa ma efficace fornita da Stephen Brooks e William Wohlforth, essa altro non è che “un insieme di idee per distribuire le risorse di una nazione al fine di raggiungere i suoi interessi di lungo periodo”.

L’idea prevalente è che una volta articolata una grand strategy che descriva dove si vuole andare, lo stato finale desiderato, ci si muova nella direzione indicata in maniera lineare, attraverso una serie di tappe sequenziali più o meno ordinate. Al contrario, a dispetto di ogni intenzione, l’attuazione della grand strategy non potrà che avere luogo attraverso una serie di avanzamenti, arretramenti e spostamenti laterali, spesso non previsti con esattezza, e soprattutto attraverso continue modifiche dei mezzi prescelti e revisioni degli obiettivi prefissati. Il modo migliore per pensare la grand strategy all’opera è infatti quello di immaginarla come una sequenza di passaggi transitori da una posizione ritenuta sufficientemente stabile per fungere da base per un successivo spostamento, ad un’altra ritenuta realisticamente raggiungibile dal punto in cui si trova. Ad ogni passaggio alcuni mezzi saranno scartati e ne verranno trovati di nuovi, ed i fini come originariamente pensati potrebbero dover essere corretti, con conseguenti modifiche del percorso generale ipotizzato verso lo stato finale desiderato. In poche parole, il processo della grand strategy rimarrà sempre governato dal punto iniziale, dallo stato in cui ci si trova al momento di prendere una decisione e non dal punto finale verso cui si tende, una posizione a carattere più stabile e permanente che sarà raggiungibile, in ogni caso, solo cumulativamente.

La dinamica appena descritta è suffragata da una solida base empirica proveniente dalla storia della politica internazionale, e dal mondo del business. Da tale evidenza nasce una serie di implicazioni, alcune delle qualipotrebbero apparire piuttosto controintuitive, di cui chiunque decida di sviluppare ed attuare una grand strategy deve essere consapevole.

La prima è che gli “strateghi” durante la fase di articolazione ed esecuzione non coincidono. La fase di articolazione è generalmente circoscritta al governo e le forze politiche che sostengono il governo (più una serie di stakeholders istituzionali e attori esterni che il governo vorrà coinvolgere). Non è così invece per l’attuazione, una volta elaborato, dello schema integrato in cui la grand strategy consiste. Essa vede infatti coinvolto un insieme molto più ampio ed eterogeneo di istituzioni e uffici all’interno della macchina dello stato. Le decisioni prese da questo insieme di attori sono spesso erroneamente viste come meramente esecutive e non, come invece di fatto sono, costitutive del processo della grand strategy.

La seconda è che lo schema integrato iniziale non svolge una funzione di guida fornendo alla leadership politica uno strumento sistematico di supervisione dell’operato delle istituzioni e individui chiamati a dare esecuzione alla grand strategy. Il suo vero valore consiste infatti nell’essere uno strumento di apprendimento, finalizzato a promuovere consapevolezza circa la logica sottesa alle politiche fondamentali di impiego delle risorse nazionali ai vari livelli della macchina dello stato. Lo “schema integrato” prodotto dalla fase di articolazione serve lo scopo di incrementare la capacità di tali soggetti di improvvisare di fronte a situazioni non previste ed inaspettate, favorendo la coerenza e sistematicità di tali sforzi di adattamento.

Una terza implicazione riguarda i ruoli della leadership politica e dei vertici della amministrazione dello stato durante le fasi della grand strategy. Questi ultimi, soprattutto ai livelli più alti, prestano un contributo essenziale “attorno” sia allo sviluppo iniziale sia al riesame periodico del framework della grand strategy, fornendo input e feedback. In altre parole contribuiscono alla formazione di un consenso tra i leader politici su priorità e trade-offs, apportando consapevolezza pratica circa le opportunità ed i rischi emergenti, una prospettiva realistica dell’ambiente operativo, ed una più profonda comprensione delle sfide di attuazione. Il ruolo dei leader politici consiste d’altra parte non solo nell’articolare un framework intellettuale iniziale, ma nel ridisegnarne continuamente i contorni, sviluppando opzioni creative per muovere da una posizione a un’altra sulla base del feedback ricevuto dai livelli inferiori e dello “stato di attuazione” della grand strategy. La leadership politica è chiamata a decidere in che misura incorporare gli elementi emersi nel corso dell’attuazione della grand strategy, fornendo ad essi contesto e riformulandoli in più ampi adeguamenti incrementali dello schema iniziale.

La quarta ed ultima implicazione che chi decide di utilizzare la grand strategy come strumento politico deve prendere in considerazione riguarda il suo scopo generale, al di là degli obiettivi specifici che ogni attore ad essa assegna. Lo scopo verso cui questo processo dovrebbe tendere non è, contrariamente a quanto spesso sostenuto, solamente controllare o “plasmare” il futuro. L’obiettivo generale della grand strategy rimane sempre alterare in termini favorevoli la relazione tra se stessi e l’ambiente strategico, direttamente, intraprendendo azioni suscettibili di generare cambiamenti esterni, oppure indirettamente, riconfigurando la propria posizione al suo interno. La grand strategy non deve dunque essere pensata come finalizzata solo a determinare azioni (o inazioni) da parte degli attori con cui si interagisce, ma anche a condizionare la struttura all’interno della quale tali azioni vengono prese manipolando il sistema di interrelazioni, i parametri ambientali che determinano i mezzi utilizzati e i fini scelti dagli attori che lo popolano.

Questa breve esame della grand strategy e delle relative implicazioni pratiche fornisce alcuni spunti su come realisticamente essa potrebbe essere sviluppata ed attuata in Italia. La prospettiva qui suggerita è “modesta”, in considerazione del fatto che nel nostro paese tale concetto rimane per la gran parte ancora pressoché estraneo al vocabolario e alla prassi della classe politica e delle istituzioni pubbliche.

Per quanto riguarda la fase di articolazione, essa dovrebbe coinvolgere inizialmente solo alcuni elementi del governo (ad esempio le componenti incluse nel Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica – CISR) e i leaders delle forze politiche che lo sostengono, ed essere ispirata ad una logica bottom-up. In altre parole non si dovrebbe tentare di partire da obiettivi condivisi (il che potrebbe portare a difficoltà simili a quelle inerenti l’impiego del concetto di “interesse nazionale”), ma più modestamente da una serie di idee condivise circa un insieme di politiche ritenute prioritarie e (almeno in linea di principio) inderogabili, e su cui esista consenso circa le modalità di attuazione. A ciò potrebbero fare seguito una serie di incontri finalizzati a ricevere feedback dai vertici delle istituzioni e dei principali dicasteri, nonché da soggetti privati “strategici”.

Per le stesse ragioni, lungi dal poter essere pensata in termini di stretta centralizzazione e controllo da parte dei vertici, la successiva attuazione della grand strategy dovrebbe essere ispirata ad una convergenza di lungo periodo, una fusione di sforzi volti ad una deliberata esecuzione dello schema iniziale con modelli emergenti. Il modello di attuazione che si sta qui suggerendo non dovrebbe rassomigliare ad un processo di “pianificazione strategica” di tipo militare, ma a quello che dagli anni ’70 la multinazionale di consulenza McKinsey & Company ha definito il processo di “gestione strategica” (strategic management). Con tale concetto si fa riferimento all’integrazione dell’articolazione, attuazione e controllo della strategia come processo di gestione della crescita organizzativa in un ambiente in evoluzione. Trasposto nell’ambito della strategia nazionale si tratterebbe dunque di assicurare la fusione delle politiche identificate come prioritarie dalla grand strategy con la programmazione dei vari dicasteri e la loro attività operativa ordinaria in un unico processo integrato.

Un’ultima raccomandazione per una grand strategy “modesta” discende da quanto detto precedentemente circa il suo scopo generale. Poiché l’Italia è una “media potenza”, è più probabile che abbia successo nell’alterare in termini favorevoli la relazione con l’ambiente circostante in maniera indiretta. In pratica, adottare quello che potrebbe definirsi un “approccio indiretto” (citando Basil Liddell-Hart) equivale a suggerire due tipi di azioni. Da un lato, dare priorità a politiche interne di “rigenerazione e riposizionamento”, (innovazione tecnologica, riforma della pubblica amministrazione ecc..). Dall’altro, ripensare in senso strategico l’impiego in ambito internazionale di strumenti come quello economico o legale che, per via del contesto di forte interdipendenza in cui operano, specialmente in ambito UE, più facilmente possono generare vantaggi competitivi.

Articolare e dare attuazione ad una grand strategy non è mai facile, nemmeno nella versione “light” qui proposta per l’Italia. L’alternativa, ovvero navigare a vista, è tuttavia come spesso sottolineato, molto costosa. L’Italia infatti non solo opera in un quadro geo-strategico sempre più volatile con risorse limitate (ed in prospettiva gravemente limitate, a causa delle conseguenze economiche del Covid-19), ma interagisce a vari livelli con attori che sempre più spesso, come testimoniano discorsi, documenti e decisioni, scelgono di imprimere coerenza e sistematicità alla propria azione in politica internazionale attraverso l’adozione di grand strategies. Le grand strategies di altri hanno un interesse nei nostri confronti, essere a nostra volta disinteressati non conviene.

Niccolò Petrelli

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