Gli spazi del terrorismo internazionale

Come il terrorismo jihadista può evolvere e differenziarsi a seconda delle diversità territoriali e geografiche, ma anche di natura sociale. L’analisi di Andrea Sperini

Le manifestazioni del terrorismo islamista sono caratterizzate da una serie di variabili che ne definiscono la capacità di incidere nei contesti sociali e culturali. Nonostante permanga la classica lettura di un jihad intimamente connesso alla mission ideologica globale, è di tutta evidenza come in determinate realtà vi siano state delle rivelazioni fenomeniche molto particolari.

A partire dal 2012, una serie di eventi e condizioni hanno determinato importanti cambiamenti nelle logiche di azione del terrorismo che, complici alcune variabili circostanziate, ha fatto si che questo assumesse particolari atteggiamenti in relazione agli specifici contesti. Se nel continente africano si assiste all’azione di un certo terrorismo, particolarmente sensibile alla gestione di traffici illeciti e attivo nel tentativo di definirsi come referente statuale, illegittimo ma reale, in Europa appare evidente come il fenomeno abbia virato verso manifestazioni quantomeno particolari, talvolta in netta contraddizione con la previgente tradizione qaedista. Ecco, dunque, che lo spazio di azione diviene protagonista degli stessi aspetti “evolutivi” del fenomeno terroristico il quale, volendo richiamare la teoria dell’evoluzione dei sistemi dinamici, tende a ristrutturarsi nel tempo e in conformità alle condizioni del momento. Che si tratti dell’azione di un soggetto che agisce in uno spazio ideologico percepito, caratterizzato da sentimenti individuali proiettati in funzione antisistema[1], o della gestione certosina e metodica di uno spazio geografico da parte di un’organizzazione strutturata, appare evidente come il terrorismo jihadista evidenzi una grande capacità di penetrare i sistemi sociali e di dare forma a nuovi assetti strutturali.

LO SPAZIO IDEALMENTE CONDIVISO

L’attrattiva esercitata dall’esperienza dell’autoproclamato stato islamico -IS- rappresenta un ulteriore momento di manifestazione del jihad, divergente rispetto ai canoni dogmatici già teorizzati dalla “classica” reinterpretazione in chiave moderna[2]. Cogliendo e argomentando una percepita distonia sociale, Islamic State ha fatto in modo che migliaia di giovani, europei e cittadini stranieri qui stabilmente residenti, fossero attratti da una proposta alternativa e credibile. Sulla base di queste premesse l’efficacia della propaganda[3] generata dal califfato ha segnato il punto di caduta nel passaggio tra la concezione del rigido jihadismo, esercitabile solo dagli eletti mujāhiddin, e un nuovo modello, tendenzialmente qualunquista, caratterizzato da una libera e immediata adesione indipendentemente dalle reali “competenze” ideologiche. La chiave del successo di tale esperienza si rinviene in una sorta di incontro di volontà e di mutuo soddisfacimento. È innegabile che questa esperienza abbia ridefinito, in modo importante, determinate dinamiche di azione e di comprensione. Tra i confini del vecchio continente si è evidenziata una nuova tendenza, rinvenibile in una morfogenesi dell’idea stessa di jihad che ora sembra essere strettamente connessa alla relazione dialettica tra individuo e società piuttosto che ai classici assetti formali di una strutturata ideologia.

Il nuovo approccio sembra essere definito da un prepotente individualismo e da una chiara strumentalizzazione del messaggio jihadista, ridotto a mezzo di azione, attraverso il quale veicolare repressi sentimenti di odio e rancore contro il sistema sociale occidentale; a tal proposito è indicativo che una gran parte dei giovani terroristi europei, protagonisti di azioni violente negli ultimi quattro anni, provenissero dal mondo della microcriminalità, primo approccio della contestazione sociale. Alla base di questa condotta si pone l’esperienza di un processo di totale isolamento dell’individuo e  di un confronto ristretto solo con chi abbia la medesima percezione, la fase successiva sarà un’azione solitaria guidata da un covato rancore.  Questi sono i nuovi format di un terrorismo da molti definito  come “liquido” che, a ben vedere, altro non è che l’epilogo di un tormentato processo emotivo, sempre meno intriso di assetti ideologici e sempre più eccitato da laici sentimenti di negazione del sistema socio-culturale contro cui attivamente ci si oppone; è in definitiva, il termine ultimo di una rivalsa personale generata da una moltitudine di ragioni, tante quanti sono i casi che le generano.

 Non mancano i momenti di condivisione di questa rabbia sociale; spesso il confronto all’interno di un ristretto gruppo di amici[4] diventa il punto di massima esaltazione, fungendo da moltiplicatore del condiviso sentimento di opposizione che non tutti avranno il coraggio di tramutare in azione.

Si è in presenza dell’espressione di un terrorismo ispirato al jihadismo ma concretamente supportato da una matrice preminentemente sociologica? Probabile che in alcuni casi sia così; di certo alla base vi è una rimodulazione identitaria[5] del soggetto, un totale cambio della percezione di sé, anche rispetto del contesto sociale di provenienza, che passa attraverso il momento di una veloce radicalizzazione. Quest’ultimo concetto, tuttavia, appare svuotato dal senso originario che lo identifica come un lungo e cosciente percorso introspettivo; ora la veloce azione di radicalizzazione sembra ridursi alla semplice acquisizione di un codice di appartenenza che consente all’individuo di entrare a far parte del nuovo sistema cui si intende aderire; un momento di transito culturale che passa, in prima istanza, attraverso la negazione di ciò che si è stati in un determinato spazio sociale. Con queste premesse è evidente la netta scollatura tra il ruolo del soggetto radicalizzato e il presunto aspetto ideologico che viene rivendicato e proclamato, ma non realmente acquisito nei contenuti. A ben vedere, il percorso della rapida fidelizzazione si concretizza nella formula dell’agire contro piuttosto che in quella del combattere in favore di, nucleo etico dell’esercizio del jihad inteso come dovere primario.Un evidente passaggio dal concetto di oltranzismo ideologico a quello, ben più banale ma non meno allarmante, di opposizione al vecchio sistema socio-culturale e del tentativo di ridefinirne i tratti strutturali “agendo in conformità del desiderio che li abita”[6].

 Se accettata questa lettura del fenomeno, si dovrà riconsiderare il valore stesso dell’ideologia in seno alla filiera che lega il momento della radicalizzazione a quello terminale dell’azione violenta, ora agita, in fin dei conti, per soddisfare un umano e assolutamente laico sentimento di rivalsa.

In sintesi, l’ideologia da obiettivo ultimo diviene una condizione strumentale rispetto alle finalità dell’azione violenta del soggetto che, attraverso il suo esercizio, tende al massimo soddisfacimento di tensioni individuali pur assegnando alle stesse un superiore e legittimante significato corale e ideologico. Sostenendo questa ipotesi interpretativa  si dovrà ammettere che nella sostanza molto è cambiato e che, probabilmente, molto altro cambierà.

È plausibile ritenere come un’ulteriore strutturazione e convergenza di questo fenomeno possa portare alla definizione di un vero e proprio spazio ideale ibrido, intriso di criticità sociali e caratteri jihadisti che operi in permanente opposizione al sistema. In questo caso, essendo questa tendenza caratterizzata da un’intraprendenza che nasce da pulsioni individuali, tendenzialmente prive di logiche gerarchiche e organizzate, quali saranno le meccaniche di azione?

Una domanda cui non è facile dare una risposta; tuttavia sulla base delle dinamiche osservate, e ipotizzando una proiezione delle stesse in uno spazio ideale che raccolga questa categoria di adesioni individuali, si possono rinvenire dei caratteri fondanti:

  • carattere soggettivo: volontà di agire ed esternare la propria rabbia individuale contro il sistema e, contestualmente, volontà di assegnare al proprio gesto un valore simbolico corale rivendicando l’appartenenza al mondo del jihad.
  • carattere oggettivo: esercizio di azioni di contrapposizione violenta o di sostegno alle stesse, indirizzate contro il sistema socio-culturale nel quale si vive e non ci si riconosce[7].

Le ultime evidenze portano a pensare come in prospettiva, “la struttura anti-sistema si sta definendo come un terzo spazio, che prende forma grazie alla sintesi tra le endogene criticità europee e la spinta opportunistica esercitata dallesperienza jihadista dellautoproclamato stato islamico, tuttaltro che svanita[8]”; rispetto all’organizzazione di questo spazio ideale e condiviso, il  modello gerarchicamente organizzato, e funzionalmente predefinito, sembra essere superato da un mutuo riconoscimento tra individui che si potrebbero raccordare attraverso una sorta di principio di solidarietà. Le richiamate manifestazioni al jihad, sopra descritte, rappresentano una modalità che convive con le logiche del terrorismo “organizzato” in una sorta di sistema binario rispetto alle manifestazioni del fenomeno. Appare, quindi, necessario prendere atto delle descritte peculiarità al fine di approntare condivise strategie di opposizione che siano capaci di coglierne e contrastarne la specificità; in tal senso, previa una lettura dello specifico fenomeno, diviene fondamentale rimodulare le politiche di de-radicalizzazione e indirizzarle anche in chiave di recupero sociale qualora si comprenda che la presunta assunzione ideologica ortodossa sia, in realtà, il frutto di aspetti di contrapposizione che poco hanno a che vedere con la reale assunzione ideologica. Detto aspetto segna in parte il fallimento delle politiche di de-radicalizzazione; come si potrebbe, infatti, far regredire una percezione ideologica estrema quando questa non sia mai stata intimamente assunta ma semplicemente dichiarata? Comprendere che talvolta l’azione violenta, rivendicata nel nome del jihad nasconda, in realtà, una delle tante motivazioni laiche che danno luogo a sentimenti contro il sistema socio-culturale europeo, che in esso si originano e si strutturano, è il primo, necessario passo per tentare di arginare un fenomeno con cui si dovrà convivere per i prossimi decenni. Assumere nuovi schemi di pensiero che prescindano dalle classiche e riduttive visioni interpretative rappresenta una priorità irrinunciabile.

IL TERRORISMO E LO SPAZIO GEOGRAFICO E SOCIALE 

La storia recente ha messo in evidenza la capacità di organizzazioni e gruppi terroristici di definirsi come veri e propri attori geopolitici, fino al punto di interpretare e condizionare l’agenda della Comunità Internazionale. Se è vero che la momentanea esperienza dell’ autoproclamato “Califfato” in Siria, Iraq e in altre aree del Middle East and North Africa ha cristallizzato l’attenzione globale e ridefinito i rapporti di forza regionali, proprio in quel periodo, in determinate aree del continente africano, altri attori non statuali legati al terrorismo internazionale sono riusciti a dar corso ad una vincente politica di azione definita da una sapiente metodologia. È il caso di Al Qaeda nel Maghreb Islamico -AQIM- che, assurto a protagonista, sia come referente ideologico sia in qualità di attore criminale dedito alla gestione di parte dell’economia illegale, è riuscito a perseguire una serie di obiettivi in una vasta area del Sahel.

L’acquisizione del controllo del territorio, interessato dalle rotte attraverso le quali vengono veicolati i traffici illeciti, e una successiva e graduale penetrazione del tessuto sociale hanno fatto in modo che Al Qaeda nel Maghreb Islamico e i gruppi satellite ad esso affiliati potessero dar corso ad una, mai dichiarata, concreta esperienza di governo parallelo.

In questo caso la gestione di spazi geografici non governati[9], ed il contestuale sfruttamento degli stessi in relazione ai traffici illeciti che li attraversano, si è posta come base per la nascita di un integrato e strutturato sistema socio-culturale generato da una realtà terroristica.

Il ragionamento appena proposto definisce un link particolarmente interessante tra l’azione dell’organizzazione terroristica e lo spazio geografico[10] sul quale questa insiste, evidenziando un chiaro rapporto di causa-effetto tra l’agire dell’organizzazione su un dato spazio di azione e le conseguenti ricadute nel più ampio contesto ambientale.

Quanto appena detto impone uno sforzo di comprensione nell’analisi interpretativa geopolitica dovendo affermare come in determinate condizioni strutturali, e in presenza di attori criminali dalla consolidata capacità di azione, uno spazio geografico che sia ufficialmente definito come ungoverned[11], perché di pertinenza di un weake o failed state,[12] in concreto debba essere considerato  come “diversamente governato” da attori non statuali.

Funzionalmente questo momento di acquisizione e strutturazione si estrinseca in diverse fasi; la prima azione dell’organizzazione terroristica è certamente  quella di estendere una progressiva egemonia in ambito spaziale, al fine massimizzarne il controllo e di accreditarsi quale referente unico e imprescindibile all’interno di una sistemica e milionaria filiera di traffici illeciti[13]. Controllo del territorio e gestione economica dello stesso divengono, dunque, due variabili interdipendenti che iniziano a definire un sistema funzionale nel quale coinvolgere, in una terza fase, la popolazione locale; questo avviene attraverso una strategia pensata in doppia chiave, sociale ed economica. Dal punto di vista sociale il suggellare matrimoni tra i jihadisti dell’organizzazione terroristica e le ragazze delle tribù locali garantisce l’acquisizione di diritti irrinunciabili; dal punto di vista economico, arruolare i giovani di quelle stesse tribù consente di assicurarsi forza lavoro e di stringere ulteriormente un legame tra l’organizzazione terroristica e il tessuto sociale con il quale è entrata in relazione. Su queste basi AQIM ha definito un nuovo corso rispetto alla sfera socio-culturale in vaste aree della regione del Sahel, ma non solo; strutturandosi nel tempo, e comprendendo le dinamiche sociali, ha ritenuto di dover funzionalmente riadattare il momento ideologico, proponendolo in una versione tale da renderlo accettabile per inserirlo in quello che sarebbe divenuto un sistema valoriale tribale integrato; una vera e propria strategia di rimodulazione identitaria che nel medio-lungo periodo costituirà un nuovo e condiviso modello socio-culturale, caratterizzato e conformato secondo i caratteri di un jihad “temperato”.

Assumendo la capacità di interazione tra le variabili sopra descritte, ovvero il controllo del territorio, la gestione economica e l’infiltrazione sociale si può senza dubbio affermare che ci si trova in presenza di un terrorismo “ibrido[14]”, un vero e proprio sistema all’interno del quale convivono varie anime e interessi interdipendenti e convergenti.

Appare evidente come questo si traduca in una concreta governance che viene progressivamente rafforzata da una certa legittimità, riconosciuta dal basso, generata principalmente dall’inclusione nel ciclo “produttivo” dell’economia illegale.

In questo senso, l’esperienza di AQIM fa comprendere come lo spazio economico possa diventare un vero e proprio terreno di incontro tra il terrorismo organizzato e parte della popolazione; un concreto punto focale dal quale prendono il via dinamiche geopolitiche e antropologiche che investono l’intero ciclo funzionale dei contesti sociali preesistenti; si determina una nuova forma di convivenza basata sul soddisfacimento di convergenti interessi che limita gli aspetti conflittuali nello spazio vitale e che consegna all’organizzazione terroristica, protagonista del cambiamento, la piena capacità di azione e gestione politica di intere comunità, tanto da porre le basi perché si possano evidenziare caratteri insorgenti[15].

Detto aspetto sarà ulteriormente amplificato nel prossimo futuro quando verrà progressivamente meno l’originario tratto ideologico del radicalismo “arabo” che sarà progressivamente sostituito da una progettualità di matrice locale/regionale, sempre più slegata dalle logiche del jihad globale e per un certo periodo definitivamente proiettata sull’esclusivo interesse della massimizzazione del profitto nell’area.

 CONCLUSIONE

Le diverse manifestazioni del terrorismo nello spazio, ideale o geografico, rappresentano una variabile complessa. In Europa, come in specifiche aree del continente africano le logiche del terrorismo jihadista sembrano, comunque, definirsi attraverso un approccio sociale adeguatamente attagliato ai singoli spazi di azione.

Se nel vecchio continente la violenza ideologica in chiave anti-sistema preoccupa, anche in funzione dello stretto legame con criticità sistemiche endogene, in alcuni contesti africani i processi di radicalizzazione e di adesione sembrano percorrere sempre meno la strada di una violenta imposizione ideologica in favore di una proposta di adesione al sistema jihadista che garantisce il soddisfacimento di gran parte bisogni primari. In entrambi i casi vi è una definita ristrutturazione identitaria di individui e comunità. Che si condivida o meno questa idea, è di tutta evidenza come alla base di un certo terrorismo vi sia una sapiente progettualità che tende a porre le basi per la costituzione di nuovi modelli sociali cercando, sempre più, di intercettare esigenze e sentimenti di opposizione ai sistemi precostituiti; in tal senso la rimodulazione del gradiente ideologico e l’ostensione dello stesso a chiunque intenda aderirvi palesa una volontà di azione ad ampio raggio, sempre meno finalizzata ad una semplice azione di opposizione esclusivamente “militare” e ideologica ma, al contrario, sempre più proiettata ad una politica propositiva, tesa alla costruzione di sistemi sociali alternativi. È più che mai necessario abbandonare le vecchie certezze interpretative del fenomeno e collimarlo con un approccio parzialmente visionario; arginare la capacità di infiltrazione di un terrorismo jihadista meno rigido del passato e proprio per questo più capace di infiltrare spazi ideali, geografici e sociali, rappresenta la nuova sfida.

BIBLIOGRAFIA

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A.Sperini, L’attrattiva del califfato sulle seconde generazioni: identikit del terrorista europeo, Gnosis – Rivista italiana d’Intelligence, 1/2017

A.Sperini, I modelli sistemici del jihadismo: aspetti evolutivi in chiave anti-sistema, in Comprendere il Terrorismo,  Pacini Giuridica, 2019

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C.K. Winkler– C.E. Daubei (Eds.), Visual propaganda and extremism in the online environment, Strategic Studies Institute and U.S. Army War College Press, Carlisle (PA) 2014

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http://www.fondazioneicsa.info/2020/06/25/il-jihadismo-in-africa-ai-tempi-del-covid-19/.

PROFILO AUTORE

Dottore di Ricerca in Geopolitica/Geopolitica Economica presso l’Università Guglielmo Marconi di Roma con focus sull’evoluzione del terrorismo in Africa. Ha conseguito i Master di II livello in “ Peacekeeping and Security studies” e in “Intelligence e Sicurezza Nazionale”. Ha integrato la propria esperienza di ricerca sul fenomeno terrorismo presso l’International Institute for Counter-Terrorism di Herzlyia (Israele). Collaboratore esterno del Ce.MiSS del Ministero della Difesa-, ha condotto attività di ricerca sull’implementazione del ciclo d’intelligence attraverso l’utilizzo della Social Media Intelligence (Socmint). È docente e autore di pubblicazioni in materia di terrorismo, finanziamento al terrorismo e intelligence.


[1] A.Sperini, L’attrattiva del califfato sulle seconde generazioni: identikit del terrorista europeo, Gnosis – Rivista italiana d’Intelligence, 1/2017, pp.55-63.

[2] S. QUTB, Milestones, Islamic Book Service Ltd., New Dheli 2015.

[3] Per approfondimenti sul tema si consulti anche C.K. Winkler– C.E. Daubei (Eds.), Visual propaganda and extremism in the online environment, Strategic Studies Institute and U.S. Army War College Press, Carlisle (PA) 2014.

[4] O. ROY, Le djihadisme est une révolte génerationelle et nihiliste, «Le Monde» (24 novembre 2015).

[5] Cfr. W. Koomen – J. Van Der Pligt, The Psychology of Radicalization and Terrorism, Routledge, London-New York 2016, pp.127-134.

[6] J.lacan, Il Seminario. Libro VI. Il desiderio e la sua interpretazione (1958-1959), Einaudi, Milano 2016.

[7] A.Sperini, I modelli sistemici del jihadismo: aspetti evolutivi in chiave anti-sistema, in Comprendere il Terrorismo,  Pacini Giuridica, 2019, p.97.

[8] A.Sperini, le manifestazioni del jihad in Europa, contenuti e rimodulazione dei caratteri in chiave antisistema, Gnosis, Rivista Italiana d’Intelligence, 4/18, p.153.

[9] Per territorio non governato si intenda uno spazio ove non vi sia la presenza, reale e percepita, di una forza statuale legittima che sia capace di dar corso a una reale azione di governo.

[10] Cfr. R.M. Medina, G.F. Hepner, The Geography of International Terrorism, an introduction to spaces and places of violent non -state groups, Taylor&Francis Group, London, 2013.

[11] Cfr. AA.VV., Ungoverned territories – understanding and reducing terrorism risk, rand Corporation, Pittsburg, 2007.

[12] In termini geopolitici con tali termini si indica la condizione di debolezza o fallimento di uno Stato; si utilizza tale espressione in lingua inglese poiché standardizzata nel contesto della ricerca geopolitica.

[13] C. De Stefano – E. Santori, Terrorismo criminalità e contrabbando, Rubettino, 2019, p.274.

[14] Per approfondire il concetto si consulti B. Ganor, Global Alert, Columbia University Press, New York, 2015.

[15] C. De Stefano-E. Santori, Il Jihadismo in Africa ai tempi del Covid-19, Fondazione ICSA, report scaricabile all’indirizzo: http://www.fondazioneicsa.info/2020/06/25/il-jihadismo-in-africa-ai-tempi-del-covid-19/.


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