Cosa può cambiare con i nuovi accordi di pace in Medio Oriente. L’analisi di Alessia Melcangi

Gli “Accordi di Abramo” sono stati firmati martedì 15 settembre a Washington. Cause e possibili conseguenze di questo accordo storico secondo il punto di vista della Prof.ssa Alessia Melcangi.           

Martedì 15 settembre a Washington è stato siglato un accordo di pace tra i rappresentati degli stati di Israele, Bahrein e Emirati Arabi Uniti, alla presenza di Donald Trump che ha cosiglato l’intesa. Tutti i partecipanti hanno definito l’accordo “storico”. Ne abbiamo parlato con la Professoressa Alessia Melcangi, Docente di Storia Contemporanea del Nord Africa e del Medio Oriente e di Globalizzazione e Relazioni Internazionali all’Università La Sapienza di Roma e Non-Resident Senior Fellow presso l’Atlantic Council di Washington.

 Professoressa Melcangi, cosa ha davvero di storico questo accordo per il Medio Oriente?

L’aspetto storico di questo accordo, così come declamato numerose volte da Trump, sta in più fattori: innanzitutto, nel fatto che fino ad oggi, ad esclusione di Egitto e Giordania, nessun paese arabo aveva mai ufficializzato la normalizzazione dei propri rapporti con Israele. Il passo fatto dalle Monarchie del Golfo è davvero molto rilevante, ma la convergenza di interessi tra i paesi del Golfo (Arabia Saudita principalmente) e Israele in funzione anti-iraniana era già una realtà da diversi anni.

Poi è funzionale a Trump: il presidente americano è in piena campagna elettorale per le elezioni che si profilano quanto mai incerte e che al momento lo vedrebbero dietro al suo sfidante, il democratico Joseph Biden. Sebbene le questioni di politica estera solitamente non abbiano mai pesato in modo rilevante sulle scelte elettorali degli americani, Trump pensa di poter comunque aumentare i consensi presentandosi come l’artefice della pace, il peacemaker mondiale, enfatizzando questo accordo che presenta come un suo successo personale. E che, tutto sommato, potrebbe anche distogliere per un momento l’attenzione degli americani dalla crisi sanitaria ed economica che stanno vivendo.  Ma nelle intenzioni di Trump presentare il piano come storico vuol dire affidargli un’accezione risolutiva, come se esso fosse in grado di mettere un punto definitivo sul processo di pace. Ecco, in questo caso direi che di storico poco può avere: esso rappresenta una base di partenza per riprendere il processo, ma non si prefigura certo come la risoluzione definitiva per la pace e la stabilità mediorientale, anche solo partendo dai profondi bias che mantiene sulla questione palestinese e i loro diritti e quindi su una reale possibilità di aprire trattative credibili tra le delegazioni, israeliana e palestinese.

Perché si tratta di un accordo importante per Israele?

Per Netanyahu rappresenta un grande successo diplomatico poiché formalizza la normalizzazione dei rapporti con un paese arabo importante come gli Emirati Arabi Uniti (EAU). Permette di rafforzare la collaborazione politica e di intelligence in funzione anti-iraniana in tutta la regione, nel Levante e nel Golfo, e sappiamo quanto Netanyahu sia ossessionato dalla minaccia iraniana. Permette, inoltre, al paese di ridurre il suo storico isolamento e infine fornisce al primo ministro un’ottima exit strategy per rimandare sine die il progetto di annessione unilaterale dei territori palestinesi nella Cisgiordania sottoposti a regime di occupazione militare e così riconosciuti dalla comunità internazionale: tale progetto, infatti, avrebbe suscitato reazioni contrarie e critiche da parte internazionale e sul piano regionale, rischiando di provocare una possibile incrinatura della convergenza tattica regionale con Arabia Saudita ed EAU e con i vicini Giordania ed Egitto. Ma anche all’interno del paese, dato che molti erano fortemente contrari a questo colpo di mano. Tuttavia dovrà dichiararlo come una sospensione, e non rinunciarvi completamente, per ammorbidire i gruppi politici e le fazioni pro-annessione, come la destra ultranazionalista.

Perché può essere importante invece per i due paesi arabi che l’hanno sottoscritto?

Le motivazioni e i vantaggi che hanno portato gli EAU a siglare questo accordo sono più poliedrici e a volte meno immediati da percepire rispetto a quelli israeliani, ma non per questo meno importanti per il paese. Abu Dhabi è stata accusata di aver ottenuto molto poco da Israele, ma in realtà mirava ai seguenti obiettivi: proporsi come la diplomazia araba del Golfo più dinamica e affidabile scavalcando quella saudita che ha molti più vincoli sia per le sue ambizioni di porsi come leadership regionale che per la sua delicata posizione di guida del mondo musulmano; rafforzare il coordinamento con Israele, specialmente negli ambiti tech e cyber  e la  collaborazione nel campo dell’intelligence per contrastare l’attivismo dell’islam politico e dell’Iran. Ma vi è un aspetto non indifferente ma anzi fondamentale per gli EAU, ossia l’essersi accreditati nei circoli politici di Washington come la monarchia più affidabile su cui puntare nel Golfo. È evidente che Abu Dhabi miri a ottenere dagli Stati Uniti la vendita di strumenti d’arma di ultima generazione finora concessi solo a Israele. Un “side-effect” che neppure Israele aveva previsto e che sta già generando non poca preoccupazione. Allo stesso modo gli EAU possono esibire l’immagine di potenza abbastanza rilevante e risoluta da essere riuscita a convincere Tel Aviv a bloccare il piano di annessione, sfruttando la questione palestinese ad uso di una narrazione positiva a livello domestico e regionale.

Con quali altri paesi nella regione Israele ha già stipulato accordi precedenti a questo o relazioni solide?

Il primo paese arabo ad aver firmato un accordo con Israele fu l’Egitto del presidente Anwar al-Sadat nel 1979: i famosi Accordi di Camp David, in questo caso davvero accordi di pace, visto che facevano seguito alla guerra dello Yom Kippur del 1973. La decisione egiziana ebbe ripercussioni fortissime in tutto il mondo arabo poiché venne visto come un tradimento della causa palestinese, tanto più che fino a quel momento l’Egitto si era presentato come il campione del panarabismo e della lotta contro Israele, con il presidente Gamal ‘Abd al-Nasser, leader del mondo arabo. Questa scelta costò cara al Cairo: il paese venne espulso dalla Lega Araba che spostò la sua sede a Tunisi e lo stesso Sadat venne assassinato nel 1981 in occasione di una parata ufficiale da un esponente dei gruppi islamici radicali che non gli perdonarono la decisione di riconoscere Israele. Qualche anno dopo fu la volta della Giordania, nel 1994, con un trattato di pace siglato tra l’allora primo ministro israeliano Yitzhak Rabin e il re Husayn di Giordania in cui venivano normalizzate le relazioni bilaterali congiunte e si predisponeva un piano di risoluzione delle dispute ancora in corso, come ad esempio l’annosa questione della condivisione delle risorse idriche. Anche se non formalizzati diplomaticamente sono ben noti gli stretti legami con l’Arabia Saudita, in particolare dopo l’ascesa del principe ereditario Muhammad Bin Salman. Ora si aggiunge il Bahrein, che ha un’importanza politica molto limitata ma, poiché legato a filo doppio all’Arabia Saudita, indica chiaramente che quest’ultima benedice l’accordo con Trump. Per Riyadh normalizzare i rapporti con Israele è una mossa decisamente più complicata, data la sua maggiore complessità politica interna, le sue ambizioni di leadership regionale e la fermezza storicamente espressa dal re Salman sulla necessaria difesa della causa palestinese. Per un cambiamento in senso positivo verso Israele credo che si debba attendere la transizione al potere di MBS. Nel complesso, considerando i decenni di ostilità con Israele, tutti i paesi arabi andranno avanti con molta cautela.

Che ricadute può avere questo accordo a livello politico e geopolitico nella regione?

Sul fronte degli oppositori, questo accordo sta esasperando le tensioni con l’Iran e con i paesi che ancora sostengono, sia pur in modo strumentale, la causa palestinese come Qatar e Turchia. L’Iran ha, neppure tanto velatamente, minacciato ritorsioni contro gli EAU dato che è evidente la funzione anti-iraniana dell’accordo. A livello dell’opinione pubblica araba, esso aumenta la percezione di estrema occidentalizzazione e di alienazione dai valori tradizionali del panarabismo operato dalle monarchie sunnite del Golfo. In molti paesi arabi, sui social network, questo accordo è stato presentato come un “tradimento” della causa palestinese: e in effetti, l’assedio israeliano sulla Striscia di Gaza, l’espansione degli insediamenti in Cisgiordania e il rifiuto di una soluzione alla questione dei rifugiati rimangono una ferita aperta per gli arabi. Le organizzazioni della società civile in tutta la regione rimangono ferme nella loro opposizione alla normalizzazione delle relazioni con Israele. Importante sarà anche vedere nel tempo cosa accadrà tra Israele e gli altri membri del Consiglio di cooperazione del Golfo, come Arabia Saudita e Oman: per Ryadh sarà difficile poter seguire a livello ufficiale Emirati e Bahrein in tempi brevi come detto prima, mentre l’Oman ad oggi appare più interessato a mantenere relazioni equidistanti tra il fronte anti-iraniano e gli iraniani. Del resto in Oman la reazione della società civile è stata di nettissimo rifiuto dell’accordo. Il Qatar e la Turchia, sebbene alleate degli Stati Uniti e nonostante abbiano rapporti diplomatici non sempre sereni con Israele, hanno subito puntato il dito contro l’intesa Trump-Emirati-Bahrein, soprattutto Ankara che vede in questa mossa un rafforzamento pericoloso del fronte anti-turco. Ma in tutto ciò non possiamo dimenticare anche le reazioni palestinesi che sono a pieno titolo investiti dalle conseguenze di questi accordi e in generale del processo di pace presentato dalla Casa Bianca a gennaio 2020, dalla quale derivano poi le altre iniziative. La leadership palestinese ha rifiutato l’accordo e ha richiamato il suo ambasciatore da Abu Dhabi: la normalizzazione in corso dei legami tra Israele e gli EAU rappresenta l’ennesimo tradimento della causa palestinese e sottolinea quanto con Israele e gli Stati Uniti di Trump sia sempre più difficile trovare un punto di mediazione. Ed è ancora evidente quanto la questione palestinese, delle terre e dei profughi palestinesi, sebbene rimanga viva nell’opinione pubblica, stia invece sempre di più diventando marginale e debole rispetto alle dinamiche geopolitiche della regione. Rispetto a ciò, possiamo inoltre aggiungere che per gli Emirati e per il Bahrein nel medio e lungo termine gli effetti dell’accordo dipenderanno molto dalle scelte politiche israeliane: tanto più Israele continuerà su una politica di aggressività e chiusura verso i palestinesi e di umiliazione della popolazione nei territori occupati e tanto più questo accordo sarà costoso in termini di immagine e di popolarità nelle piazze arabe. Se invece Israele modererà le proprie politiche, gli Emirati avranno buon gioco nel vendersi come il principale stato capace di mediare con Israele per i palestinesi.

Come si inserisce questo accordo nella strategia di politica estera che Donald Trump e la sua amministrazione stanno portando avanti in Medio Oriente?

Parlare di strategia politica nell’amministrazione Trump è difficile. In realtà questa amministrazione che ha volutamente indebolito e spesso ignorato le opinioni del Dipartimento di stato e che si è mossa troppo spesso per iniziative mal programmate e repentine, come ad esempio il sostanziale abbandono dei Curdi in Siria, l’annunciata e mai veramente attuata ritirata dei militari dalla Siria, la totale assenza in Libia, l’uccisione del generale Suleimani in Iraq dettata più da una reazione del momento che da un vero piano strategico. Quello che è evidente è che l’amministrazione Trump ha perseguito principalmente due linee guida: la posizione anti-iraniana e il sostegno indiscusso e incondizionato a Israele. Poi è chiaro che da due posizioni derivi la volontà dell’amministrazione trumpiana di spaccare il fronte arabo e facilitare la posizione regionale di Israele attraverso una serie di accordi con i paesi più predisposti, come appunto le monarchie del Golfo. È evidente il cambio di passo netto rispetto alla precedente amministrazione Obama con il tramonto definitivo dell’opzione “two state solution” sulla questione israelo-palestinese, insieme al ritiro dagli accordi iraniani sul nucleare.


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