Dal Caucaso alla Bielorussia: tutte le sfide aperte per la Russia di Putin

In Caucaso si ripropone dopo Siria e Libia un possibile confronto tra Russia e Turchia. La crisi del regime in Bielorussia può produrre una nuova instabilità ai confini tra Europa e Federazione russa. E poi la sfida del rapporto con l’Occidente, soprattutto nel tempo della Cina. Le principali sfide strategiche per la sicurezza di Mosca nell’analisi di Gabriele Natalizia.

Le recenti crisi nel Caucaso e in Bielorussia hanno riportato l’attenzione sulle situazioni di tensione in essere all’interno dello spazio post-sovietico, ovvero i paesi nati dopo la dissoluzione dell’URSS che Mosca, ancora oggi il considera con grande attenzione. La crisi in Bielorussia e gli scontri nel Nagorno-Karabakh rappresentano due sfide molto rilevanti alla sicurezza e alla stabilità dell’aree di confine della Federazione Russa, ma la crisi nel Caucaso propone anche una possibile nuovo teatro del confronto strategico e geopolitco tra la Russia di Putin e la Turchia di Erdogan.

Su questi temi e delle prospettive delle relazioni diplomatiche e politiche tra la Russia e i paesi occidentali, anche alla luce delle nuove tensioni globali e della competizione USA-Cina, Europa Atlantica ha intervistato Gabriele Natalizia, ricercatore di Relazioni internazionali presso Sapienza Università di Roma, docente di Organizzazioni internazionali del Corso Superiore di Stato Maggiore Interforze (ISSMI) del Centro Alti Studi della Difesa (CASD) e coordinatore il Centro Studi Geopolitica.info.

Prof. Natalizia, nelle ultime settimane le vicende che hanno interessato i paesi dello Spazio post-sovietico si sono animate di alcune nuove situazioni di tensione. Come sta guardando a queste vicende il Cremlino?

Con preoccupazione. Sembra una risposta banale ma a mio parere non ci sono parole migliori per esprimere lo stato d’animo dell’élite politica russa. Si ricordi come il concetto che forse più di ogni altra sintetizza il progetto politico delineato da Vladimir Putin sin da quando è diventato presidente alla fine del 1999 è stabilità. Dapprima intesa come stabilità interna per la Federazione Russa. Il Paese si confrontava allora con le spinte indipendentiste di alcune Repubbliche autonome del Caucaso settentrionale, con il problema del terrorismo e con le tragiche conseguenze della transizione dall’economia pianificata all’economia di mercato. Non appena risolti i maggiori problemi domestici e avendo recuperato le risorse necessarie per una politica da grande potenza, il Cremlino si è confrontato con l’influenza occidentale nei Paesi dello Spazio post-sovietico, con il pericolo della diffusione delle rivoluzioni colorate e con i conflitti etnici che li attraversavano. Anche qui, pertanto, ha perseguito la stabilità, fornendo risorse materiali e immateriali ai governanti filorussi, lanciando operazioni di public diplomacy rivolti ai cittadini di questi Paesi e impegnandosi in progetti volti alla stabilità politica ed economica come l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva e l’Unione Economica Eurasiatica. Le proteste in Bielorussia e Kirghizistan nonché le operazioni belliche in Nagorno Karabakh rischiano di rimettere in discussione il primato che la Russia aveva lentamente stabilito su quello che in molti definiscono il suo “estero vicino”.

La crisi in Bielorussia che livello di coinvolgimento potrebbe comportare per la Russia se la situazione dovesse aggravarsi? Si rischia una nuova Ucraina?

In termini di immagine si rischia qualcosa di peggio di una nuova Ucraina perché la Bielorussia partecipa a entrambe le organizzazioni internazionali a guida russa che citavo poc’anzi e almeno dal 1994 – insieme al Kazakistan – è forse lo Stato più filo-russo tra quelli post-sovietici (il progetto di unione tra i due Paesi è stato storicamente caldeggiato più dalla parte bielorussa che da quella russa). L’ascesa al potere di un’élite decisa a prendere le distanze da Mosca, quindi, costituirebbe un duro colpo al prestigio russo, rappresentando un preoccupante precedente. In termini di potere, invece, la Bielorussia è meno importante dell’Ucraina. Sebbene costituisca al pari di quest’ultima un diaframma tra i confini russi e quelli della NATO, a differenza sua non possiede un territorio altrettanto cruciale sotto il profilo strategico (si pensi al porto di Sebastopoli e al ruolo della Crimea come affaccio russo sui “mari caldi”) né un’economia della stessa importanza.

Nel Caucaso potremmo ritrovarci ad un nuovo confronto tra Russia e Turchia, dopo quelli in Siria e Libia. Ormai il protagonismo russo e turco, soprattutto in Medio Oriente e nel Mediterraneo orientale, nel Caucaso, nel Mar Nero e nei Balcani, è sempre più rilevante e queste due potenze sembrano essere tornate ad una dialettica tipica dell’epoca in cui, con le dovute differenze, nelle stesse regioni si confrontavano l’Impero zarista e quello Ottomano. È il peso della storia che ritorna o una nuova tendenza del ruolo di questi due paesi in tutta la regione mediterranea?

Più che del peso della storia, parlerei del peso della geografia. Parafrasando Benjamin Disraeli, infatti, non esistono inimicizie permanenti, ma interessi permanenti e questi sono il risultato della combinazione tra le risorse a disposizione di uno Stato e la sua collocazione geopolitica. Gli interessi di due potenze che insistono sulle stesse aree (il Mar Nero, il Caucaso, il Mediterraneo) e sono contraddistinte da uno spiccato attivismo internazionale facilmente tendono a confliggere, a meno che non abbiano un nemico comune a far loro da collante. Praticamente in tutti i teatri “caldi” del momento – dalla Siria al Nagorno Karabakh, passando per Libia – la Russia e la Turchia si trovano su fronti opposti, in barba a quanti in passato avevano frettolosamente parlato di una loro partnership.

Ma il Caucaso appare dall’esterno come una polveriera sempre pronta ad esplodere, visto che oltre al Nagorno Karabakh ci sono altri territori contesi o situazioni di tensione. Quali sono gli interessi russi nel Caucaso e cosa rischia Mosca, da un aggravamento della crisi in tutta la regione caucasica in questa fase?

Il Caucaso meridionale è una delle tre sub-regioni in cui risulta suddiviso lo Spazio post-sovietico (insieme alla “nuova” Europa orientale e all’Asia centrale) e che la Russia, come già parzialmente accennato, considera parte integrante della sua sfera di influenza. La destabilizzazione di una parte di quest’ultima rischia di avere conseguenze dirette sulla sicurezza della Russia, soprattutto perché il Caucaso meridionale e la “polveriera” del Caucaso settentrionale sono sotto il profilo della sicurezza due vasi comunicanti. La Russia, al momento, cerca di mantenere un ruolo di terzietà, sebbene sia storicamente la potenza protettrice dell’Armenia e venda armi all’Azerbaigian, per potersi imporre come mediatore tra le parti, aumentando così la sua influenza su entrambe (il format del Gruppo di Minsk, d’altronde, sembra ormai superato). Il vero rischio che corre è la possibilità che – magari per errore – la Turchia finisca per essere coinvolta attivamente nel conflitto, dalla parte dell’Azerbaigian naturalmente. Questo scenario presenta un duplice rischio. Se si mantenesse neutrale, gli altri Paesi alleati al pari dell’Armenia con la Russia potrebbero iniziare a soffrire una paura da abbandono, che li porterebbe a cercare un nuovo Stato-padrino. Se, invece, scegliesse di sostenere attivamente l’Armenia perderebbe automaticamente la sua credibilità di mediatore e aprirebbe spazi inaspettati per altre potenze.

La Russia in questi ultimi anni è riuscita a riconquistarsi un ruolo tra le grandi potenze mondiali. Forse era stato un errore aver pensato in passato che potesse non esserlo più. Anche se in effetti non manca di problemi interni e di fragilità strutturali, si pensi alla sua economia o all’invecchiamento della popolazione. Dopo di che è chiaro che sta ha recuperato molto peso, soprattutto in aree del mondo come il Mediterraneo. Potrà secondo lei continuare a lungo a esercitare un simile ruolo?

Se assumiamo uno sguardo di lungo periodo, la storia ci dice che da Pietro il Grande in poi, fatta eccezione di qualche sporadico e breve periodo (gli anni Venti e gli anni Novanta del Novecento) la Russia ha sempre giocato un ruolo di grande potenza. D’altronde i suoi numeri – popolazione (nonostante invecchi, territorio, risorse naturali) – così come la sua tradizione politica la “condannano” a questo ruolo. Ovviamente questo non significa che in presenza di instabilità interna o di fasi di recessione particolarmente grave dell’economia il Paese non possa adottare un approccio di basso profilo sugli affari globali. Questo, tuttavia, potrebbe essere assunto anche come strategia, ovvero rimanere alla finestra mentre gli altri grandi attori perdono energie nell’ambito di una competizione a tutto campo (ipotesi non da escludere se il confronto tra Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese prendesse questa piega).

Come immagina che potranno evolvere le relazioni tra Russia e Stati Uniti nei prossimi mesi?

Credo che chiunque vinca alle elezioni presidenziali del 3 novembre, come già fatto da tutti i presidenti eletti dalla fine della Guerra fredda a eccezione di Donald Trump a causa del pericolo dell’impeachment, cercherà di migliorare i rapporti con il Cremlino. Nell’ambito della politica di retrenchment che ha contraddistinto la politica americana dell’ultimo decennio, infatti, risulta centrale la relativizzazione delle inimicizie minori, tra cui quella con la Russia, per concentrare le risorse sull’inimicizia strategica, quella con la Cina. Questo, tuttavia, non significa un successo garantito, come il fallimento della politica del Russia Reset dell’Amministrazione Obama testimonia.

E con la Cina invece?

Credo che per i rapporti tra Russia e Cina valga lo stesso discorso che per quelli con la Turchia. I due Paesi hanno numerosi temi di frizione e la realizzazione della Belt and Road Initiative, la cui rotta terrestre passa in Asia Centrale, sarebbe sicuramente percepita dalla Russia come una sfida diretta al suo primato sullo Spazio post-sovietico. Non a caso i maggiori esperti di rapporti sino-sovietici respingono l’idea di un’alleanza tra le due potenze, parlando al massimo di un “matrimonio di convenienza”. E questo ci porta a porre l’attenzione sul rapporto triangolare Russia-Cina-Stati Uniti. Se Washington non riuscirà a smorzare le tensioni con Mosca, facendole anche alcune importanti concessioni, rischia di spingerla nel medio termine nelle braccia di Pechino, delineando quello scenario dell’unità della massa eurasiatico che costituisce l’incubo di tutti gli studiosi anglosassoni della geopolitica classica, da Halford Mackinder a Nicholas Spykman passando per Alfred Mahan. Al contrario, se riuscirà a ottenere una sua parziale integrazione nel “fronte” occidentale o quanto meno una sua neutralità, la sfida cinese risulterà di molto depotenziata. Sarebbe, d’altronde, lo stesso schema attuato dall’Amministrazione Nixon a parti inverse, con la Federazione Russa di oggi nel ruolo della Repubblica Popolare Cinese di ieri e la Repubblica Popolare Cinese di oggi nel ruolo dell’Unione Sovietica di ieri.

Intervista a cura della Redazione di Europa Atlantica

Immagina tratta da Pixabay


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