Il Caucaso tra rivalità geopolitiche e storia: le origini della crisi in Nagorno-Karabakh

Le origini della crisi odierna che interessa la regione del Nagorno-Karabakh e le tensioni che coinvolgono tutta la regione. Le ambizioni dei paesi caucasici e la ferita ancora aperta della guerra tra Armenia e Azerbaigian. Un breve resoconto storico

Le notizie drammatiche di questi ultimi giorni sugli scontri tra Armenia e Azerbaigian hanno riportato attenzione su una crisi, quella originata dalla guerra del Nagorno-Karabakh degli anni Novanta del Novecento, mai risolta nel corso di quasi trenta anni, che potrebbe nuovamente incendiare la regione caucasica. Infatti il Caucaso, area di confine tra Europa e Asia, zona strategica non solo per la sua posizione geografica ma anche per i numerosi snodi logistici, energetici e infrastrutturali che la interessano, è tornata ancora una volta a essere al centro di una nuova crisi che potrebbe presagire un conflitto, e contribuire ad aumentare notevolmente attriti e rivalità geopolitiche e militari.

Dal dissolvimento dell’Unione Sovietica infatti, nel Caucaso, non solo nel Nagorno-Karabakh, si sono prodotte numerose crisi e si sono combattuti vari conflitti, sia tra paesi diversi che all’interno di regioni di singoli paesi, come la Cecenia. Terra di confine e crocevia tra culture, religioni,  popoli diversi, da secoli il Caucaso è uno spazio conteso e al centro della competizione tra potenze diverse, l’Impero Zarista e quello Ottomano in passato, e oggi, invece, soprattutto Russia e Turchia sono i due protagonisti maggiori presenti nell’area, non a caso alleati rispettivamente di Armenia e Azerbaigian.

Ma per comprendere le potenziali tensioni e le ragioni delle aspirazioni dei protagonisti che interessano questa regione così importante è necessario conoscerne il più possibile la storia, anche recente, a partire proprio dalla vicenda oggi al centro dell’attenzione. Una vicenda molto complessa che nel corso degli ultimi decenni ha avuto fasi diverse di tensione più o meno acuta.

Il Caucaso è un’area decisiva per gli interessi strategici europei: prossima ai confini sia dell’Unione Europea che della NATO,(ricordiamo che la Georgia, per esempio, è un paese che ambisce ad essere sempre di più integrato nel sistema euro-atlantico) ciò che vi accade non può non interessare i paesi occidentali e i paesi euro-mediterranei. Per questo motivo le nuove tensioni emergenti tra Armenia e Azerbaigian, due paesi molto vicini a Russia e Turchia ma con relazioni anche con i paesi europei, non possono essere sottovalutate e necessiterebbero una maggiore presenza europea, sul piano politico e diplomatico.

Il Nagorno-Karabakh è una regione della Repubblica dell’Azerbaigian che fu interessata, tra il 1992 e il 1994 da un conflitto tra le repubbliche ex-sovietiche di Azerbaigian e Armenia. Il conflitto, che era stato preceduto per alcuni anni da tensioni e rivendicazioni, fu il frutto dell’istanza secessionistica della componente maggioritaria armena, stanziata nella regione.

La firma del cessate il fuoco tra le parti belligeranti nel maggio 1994 non è stata seguita da un accordo di pace tra di esse, generando un pericoloso iato tra la situazione de iure – che in linea con le risoluzioni ONU riafferma la sovranità dell’Azerbaigian sulla regione[1] – e la situazione de facto – che viceversa ha visto la formazione di istituzioni parastatali funzionanti, per quanto non riconosciute a livello internazionale. Della mediazione sul conflitto è responsabile dal 1992 il cosiddetto Gruppo di Minsk, co-presieduto sotto egida OSCE da Stati Uniti, Russia e Francia.

Mantenendo uno stato di conflittualità latente in una delle aree più delicate dello spazio euro-asiatico – all’incrocio di territori di influenza di attori internazionali del calibro di Turchia, Federazione Russa e Iran – il Nagorno-Karabakh rappresenta un caso di fallimento del sistema internazionale post-bipolare di regolare la convivenza tra gli stati imponendo il rispetto del diritto internazionale[2] e, al contempo, un ostacolo allo sviluppo del Caucaso meridionale.  Nel corso degli anni la tensione intorno a questa regione non è mai calata, e anzi, in varie occasioni, è riesplosa violenta. Non sono infatti mancati, anche dopo la fine della guerra, vari episodi di scontri e violazioni del cessate il fuoco. Episodi che si sono intensificati sopratutto dopo il 2012 e che hanno portato in varie occasioni ad un passo dallo scontro armato, che è arrivato nell’aprile del 2016, quando si è verificata quella che è stata ribattezzata la Guerra dei quattro giorni, interrotta dopo violenti combattimenti grazie all’intervento della diplomazia internazionale.

A partire dal 1994, anno in cui il conflitto armato del Nagorno-Karabakh è entrato progressivamente nella fase di stallo, fino alla situazione attuale, solo un occhio superficiale potrebbe dire che non sia successo nulla  in quest’area. Le dinamiche politiche e strategiche di tutte le potenze grandi e medie che si affacciano sul Caucaso si sono evolute significativamente.

La Turchia è oggi un attore molto dinamico sulla scena internazionale: dal kemalismo laico è passata all’internazionalismo islamico moderato di Erdoğan e a una nuova forma di nazionalismo che ha spinto a un sempre più marcato protagonismo, sopratutto nel Mediterraneo orientale e nelle aree più prossime ai confini nazionali, come il Caucaso. I rapporti stretti sul piano politico ed economico con l’Azerbaigian, la proiezione internazionale del paese e gli interessi di vario genere nell’area, rendono inevitabile il suo coinvolgimento in questa vicenda, anzi ne fanno uno degli attori più presenti, al momento, e più interessati al suo evolversi.

La Federazione Russa invece nel corso degli ultimi venti anni è passata dalla fase di appeasement USA-Russia dell’età di Eltsin al ritorno alla politica di potenza, le cui muscolari strategie di politica regionale hanno ricreato momenti di frizione e tensione sia con i paesi europei che con gli USA, dalla Georgia all’Ucraina fino alle recenti vicende mediorientali in particolare in Siria. La Russia, sopratutto nel corso degli ultimi 6 anni, dalla Siria alla Libia, è riuscita a ricostruirsi una presenza e una capacità di azione notevole in tutto il bacino del Mediterraneo e, certamente, trattandosi questa area di una zona appartenente allo spazio post-sovietico, e considerato lo stretto rapporto di alleanza con l’Armenia, non potrà non essere anch’essa coinvolta in questa crisi.

Ma è necessario ricordare che degli eventi  in questa regione sono interessati, per motivi diversi, anche altre due potenze che hanno interessi diversi nell’aea: da un lato l’Iran, che condivide un lungo confine con l’Azerbaigian e ha già fatto sentire la sua voce nella vicenda, e la Cina, che ha interessi di natura economica nell’area e in tutta la vicina Asia Centrale.

Allo stesso modo, e parallelamente, sono cambiate le prospettive e possibilità di azione delle tre repubbliche caucasiche: le aspirazioni filo-occidentali della Georgia, coltivate sin dalla metà degli anni ’90 sotto Eduard Shevardnadze, sono state coercitivamente ridimensionate da Mosca che con strumenti di pressione economica – e non secondariamente con il ricorso alla forza[3] – ha riaffermato la sua influenza sul vicino caucasico. Nel corso dell’ultimo ventennio d’altra parte e proprio in ragione dell’alleanza strategica generata dal nodo del Nagorno-Karabakh l’influenza russa sull’Armenia è andata ad acuirsi tanto sul versante economico tanto su quello politico e militare.

L’Azerbaigian è passato dalla periferia dell’Unione Sovietica al centro delle relazioni regionali nell’area euro-asiatica forte di un’economia in dinamica ascesa, anche se recentemente ha risentito dei problemi della crisi del mercato degli idrocarburi, e di una politica estera bilanciata e multivettoriale che ha fatto del Paese un esempio di repubblica post-sovietica in grado di relazionarsi e dialogare con tutti gli attori più rilevanti dell’area.

Tuttavia, si farebbe un grave errore a sottovalutare la situazione di conflitto/non-conflitto che negli scorsi anni si è determinata su una porzione di territorio grande poco meno della provincia di Roma ma che si incunea in maniera pericolosissima in un’area che è diventata cruciale per gli equilibri energetici, strategici e militari dello spazio euro-asiatico.

In quest’area, a partire dallo scioglimento dell’Unione Sovietica, si sono generate sulle zone di confine tra Federazione Russa e Repubbliche ex-sovietiche numerose dinamiche di frizione, influenza militare ed economica e spesso di conflitto. È indubbio che l’attore egemone regionale, rappresentato dalla Russia di Vladimir Putin ha, nei confronti delle repubbliche già sovietiche, una smisurata potenzialità di intervento e di ingerenza politica, economica e militare. Gradito o no che sia, il parere dell’inquilino al Cremlino costituisce, di fatto, l’elemento vincolante di ogni nodo territoriale. Il potere d’interdizione di Mosca si gioca lungo molteplici direttive, laddove Washington è troppo lontana nel poter controbilanciare l’influenza russa in quello che Mosca considera, con brutale pragmatismo, “il suo cortile di casa” [4]. Nel corso degli ultimi anni però il peso della Turchia negli equilibri del’area è molto  cresciuto, anche in virtù della politica estera che Erdogan ha promosso per rafforzare il ruolo internazionale del suo paese  e per rafforzare anche la sua presidenza sul piano politico interno.

Azerbaigian, Georgia e Armenia sono un crocevia territoriale e commerciale di vitale importanza e, in linea con una strategia che affonda le proprie radici nel periodo di dominazione imperiale e sovietica del Caucaso meridionale, Mosca agisce nella regione secondo un’oculata logica di divide et impera. Ecco perché il Nagorno-Karabakh, al pari di altri conflitti in fase di stallo in questa regione, potrebbe restare un elemento di poco predicibile risoluzione, e in caso di un ulteriore aggravarsi del conflitto il quadro potrebbe solo complicarsi.

Teniamo presente però che ciò che in passato ai contendenti locali poteva apparire come un insostenibile squilibrio, osservato invece dal Cremlino, avrebbe potuto sembrare una comoda policy di raffreddamento del conflitto armato e rafforzamento di uno status quo che garantisce a Mosca un rilevante strumento di influenza e ingerenza politico e strategico. In questa logica, infatti, è utile ricordare che per la Russia rimane una priorità limitare e contenere l’espansionismo geo-strategico della NATO nell’area (come visto in occasione della crisi georgiana).

Allo tesso tempo, nel caso di specie dell’Azerbaigian, lo status quo indebolisce le prospettive di rafforzamento dell’asse strategico tra Ankara e Baku, ridimensionando il vettore caucasico della politica estera tra un paese come la Turchia, che vanta il più numeroso esercito della NATO, dopo quello statunitense, e il più prospero dei Paesi caucasici[5]. Inoltre, mantenere vivo il conflitto e lo stato di frammentazione territoriale può assurgere a strategia di logoramento rispetto alle tentazioni di revanscismo panturco di Ankara.

Dal canto loro gli azerbaigiani avevano recepito immediatamente il messaggio minaccioso lanciato da Mosca nel 2008 con la guerra lampo condotta in Georgia. Quest’ultima ha, infatti, confermato la strategia di raffreddamento del vettore atlantico della politica estera di Baku con l’accantonamento – da parte dell’Azerbaigian – della richiesta d’ingresso nella NATO che aveva in realtà preceduto gli eventi del 2008.

La politica di non allineamento deriva dunque dal fatto che un’esposizione troppo filo-atlantica vorrebbe dire scontro diretto con la Russia. D’altro canto un allineamento esplicito con Mosca sarebbe troppo dannoso. Da qui era nata negli anni scorsi la cosiddetta politica estera multivettoriale, coronata dall’adesione nel maggio 2011 dell’Azerbaigian al Movimento dei paesi non allineati. E probabilmente proprio per rilanciare il rapporto con Baku e rafforzare il legame tra i due paesi che fin dallo scoppio di questa crisi la Turchia si è subito resa protagonista di un posizionamento molto netto al fianco del suo alleato azero. Posizione che ha fatto temere numerosi analisti anche rispetto un possibile nuovo confronto tra Russia e Turchia, dopo i precedenti, ancora aperti, in Siria e Libia.

Nella non facile dimensione di confronto territoriale tra l’entità statuale azerbaigiana e quella armena, è evidente che il Nagorno-Karabakh costituisce per entrambe i Paesi un nodo identitario e rivendicativo irrinunciabile. Per questo è evidente anche che per l’Azerbaigian il profondo cuneo di penetrazione territoriale rappresentato da quest’area di conflitto non può non essere percepito come un vero e proprio vulnus che minaccia la sicurezza e l’integrità dello stato e dell’economia. L’Azerbaigian si percepisce come uno stato a tutti gli effetti “spezzato in due” da una faglia geostrategica che ne indebolisce non solo la continuità e l’agibilità territoriale ma anche la piena “viabilità” distributiva delle sue importanti risorse energetiche [6]. Non è d’altra parte da sottovalutare la dimensione umanitaria della mancata risoluzione del conflitto in Nagorno-Karabakh, con oltre 600.000 sfollati, la gran parte dei quali – oltre il 90% – proviene dai distretti limitrofi alla regione del Karabakh e occupati dalle forze armene nel corso del conflitto [7]. Dall’altro lato è altrettanto chiaro che questa ultima crisi, con i rischi di coinvolgimento di paesi come Russia e Turchia, può stimolare il rafforzamento nell’area di sentimenti nazionalistici. L’Armenia stessa, per il peso della storia, vista la sua posizione geografica nell’area e i rapporti con le comunità dell’area di crisi, potrebbe risultare direttamente coinvolta in una escalation sempre più marcata del conflitto.

Nel corso degli ultimi giorni, nel crescere di tensioni e scontri, nonostante il tentativo fragile di un cessate il fuoco promosso per via diplomatica, si sono intensificate le accuse reciproche tra i contendenti di attacchi e violazioni, mentre a livello internazionale, soprattutto da parte dei paesi più ostili verso Ankara, non sono mancate accuse di un suo diretto coinvolgimento nella crisi. Certamente, in questo contesto di tensione, anche gli strumenti della disinformazione e della propaganda avranno ampio campo di impiego, soprattutto in questa fase.

In questa situazione di stallo, non è difficile comprendere come, anche oggi, con il crescere da un lato delle tensioni geopolitiche con i loro riverberi anche nella regione, la crisi dei prezzi del petrolio e la crisi economica più generale e poi, le rivalità rimaste in essere che insistono sull’area, la polverieira del Nagorno-Karbakh possa essere tornata a rischiare di incendiarsi ed esplodere.

Lo scambio costante di accuse e responsabilità tra i protagonisti diretti della regione certamente non facilita la soluzione immediata, ma il conflitto del passato, giunto fino ai nostri giorni, palesa le difficoltà diplomatiche presenti e tensioni sempre attive in questa regione oltre alle ambizioni di chi, tra i grandi interessati da queste vicende, potrebbero cercare una nuova occasione per regolare conti rimasti in sospeso anche in altre teatri.

Le dinamiche che hanno interessato anche in anni recenti la regione sono ancora oggi in gran parte in essere. Il Caucaso, oltre che un territorio conteso, rimane un’area esposta all’ingerenza e alle influenze di varie potenze. Russia e Turchia che in questa fase storica hanno numerosi interessi in ballo, anche per motivi di politica interna, potrebbero essere spinte a essere sempre più coinvolte in questa crisi per non cedere la propria fetta di influenza in questa regione.

Certamente la vicenda legata al destino del Nagorno-Karabakh resta un problema aperto che, a prescindere dall’esito della crisi odierna, se non risolto a livello diplomatico internazionale in tempi rapidi potrebbe continuare a contribuire alla instabilità dell’area caucasica. Non è escluso che la crisi, al momento attuale in cui si trova, possa aggravarsi, come anche diminuire e trovare una sua nuova sospensione, dopo un confronto diretto tra i “grandi” attori dell’area e i loro alleati. In questo un’azione più diretta dell’Europa sarebbe quanto meno necessaria in tempi molto rapidi.

Approfondimento a cura della Redazione di Europa Atlantica

per info info@europaatlantica.it


[1] Per un’analisi della posizione dell’Onu sul conflitto si vedano le risoluzioni n° 882, 30 Aprile 1993; n°853, 29 Luglio 1993; n°874, 14 Ottobre 1993; n°884, 12 Novembre 1993.

[2] Lo spunto si riferisce all’applicazione delle citate risoluzioni ONU. Va per altro segnalato che sulla questione del Nagorno Karabakh si scontrano due principi fondanti del diritto internazionale: il principio dell’inviolabilità delle frontiere da un lato e quello dell’autodeterminazione dei popoli dall’altro.

[3] Il riferimento va alla cosiddetta Guerra dei cinque giorni combattuta che nell’agosto del 2008 ha visto contrapposte forze georgiane e russe sul nodo del “conflitto protratto” in Ossezia meridionale.

[4] Il riferimento va al concetto del cosiddetto estero vicino, sviluppato in Russia a partire dalla prima metà degli anni ’90 e ruotante attorno alla rivendicazione di uno spazio di naturale influenza sull’area già sovietica.

[5] D’altra parte la creazione dell’asse strategica di cooperazione tra Turchia e Azerbaigian ha avuto nella fase di conflitto del Nagorno Karabakh uno dei suoi snodi più rilevanti. La perdurante chiusura delle frontiere tra Turchia e Armenia è non a caso il frutto della decisione assunta da Ankara nell’aprile del 1993 come risposta all’aggressione armena.

[6] Intervista dell’autore con analista in condizioni di anonimato. Baku, 11/04/2013

[7] UNHCR Representation in Azerbaijan.

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