COSA CAMBIA IN ASIA, NON SOLO A LIVELLO ECONOMICO, CON LA FIRMA DEL RCEP. IL FORUM DI EUROPA ATLANTICA

Pochi giorni fa è stato annunciata la conclusione di un vasto accordo economico che coinvolge numerosi paesi asiatici e dell’area del Pacifico, il Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP). Quali conseguenze potrà portare questo evento a livello globale, e regionale, e cosa potrebbe cambiare, per noi europei? Europa Atlantica ne ha parlato con tre esperti in un forum dedicato all’approfondimento di questo accordo

La firma della Regional Comprehensive Economic Partnership è stata salutata nei giorni scorsi come un evento di portata storica. Quali potrebbero essere i suoi effetti a livello globale, e asiatico, non solo sul piano economico, ma anche politico? Cosa potrebbe cambiare per noi europei? A poche settimane dalla vittoria di Joe Biden nelle elezioni presidenziali degli Stati Uniti, questo accordo potrà incidere sulle future scelte statunitensi nell’area dell’Indo-pacifico, già da alcuni anni al centro degli interessi prioritari della politica estera americana?

Europa Atlantica ha promosso un forum su questi temi coinvolgendo Antonino Alì, docente di Diritto Internazionale presso l’Università di Trento, Gabriele Natalizia, docente di Relazioni internazionali alla Sapienza Università di Roma e Coordinatore del Centro Studi Geopolitica.info e Matteo Dian, ricercatore del dipartimento di Storia e istituzioni dell’Asia presso la Facoltà di Scienze politiche di Bologna, ai quali abbiamo rivolte delle domande relative alle prospettive che si aprono con questo accordo e cosa, non solo sul piano economico, può rappresentare.

Nei giorni scorsi è stato annunciato un vasto accordo commerciale che interessa numerosi paesi asiatici, tra i quali oltre alla Cina, anche Giappone e Corea del sud. Questo accordo coinvolge stati che insieme producono circa un terzo del PIL mondiale ed è stato salutato come il più grande accordo del genere a livello mondiale. Valutando la notizia alla luce delle sue dimensioni e dei paesi che ne faranno parte, questo accordo che impatto può avere a livello globale?

Antonino Alì: L’accordo rileva sotto una molteplicità di profili. Con il Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) si ottengono numerosi risultati: si razionalizzano gli accordi già in vigore tra gli Stati che compongono l’Association of Southeast Asian Nations (ASEAN) all’interno di un unico quadro che vincola anche l’Australia, la Cina, il Giappone, la Nuova Zelanda e la Corea del Sud. Per la prima volta, Cina, Giappone e Sud Corea, tre giganti del settore manifatturiero, avranno un accordo commerciale. L’accordo è stato descritto come una vittoria del multilateralismo e del commercio libero. Si tratta di un modo abbastanza chiaro per affermare il rigetto del “modello trumpiano”: il rigetto del multilateralismo e il ricorso di numerosi strumenti in funzione protezionistica.  Questo accordo faciliterà le catene di valore nell’area grazie a regole comuni e semplificate sull’origine dei prodotti. Inoltre, aumenterà l’interdipendenza tra questi Stati e si rafforzerà la posizione della Cina nell’aerea anche alla luce della mancata partecipazione dell’India che ha deciso di ritirarsi dall’accordo nel 2019. In breve, il RCEP è un accordo tra giganti del manifatturiero (Cina/Giappone/Corea) che fa perno sull’armonizzazione delle regole d’origine dei prodotti per aumentare principalmente l’efficienza e la specializzazione nella produzione.

Matteo Dian La Regional Comprehensive Economic Partnership è un accordo molto importante per la regione, perché contribuisce a definire i confini geografici del processo di goverance economica e commerciale in Asia. Lo fa promuovendo un modello “chiuso” e “asiatico”, che prevale sul modello “aperto” e “Transpacifico” preferito dagli Stati Uniti fino all’amministrazione Trump. In termini pratici ciò significa una potenziale accelerazione dell’integrazione regionale, rispetto al commercio tra la regione e il resto del mondo. Tuttavia, va anche ricordato che la RCEP è soprattutto un processo di razionalizzazione di accordi esistenti tra l’ASEAN e gli altri paesi membri (Cina, Giappone, Australia, Corea del Sud, Nuova Zelanda). Gli accordi in essere dovevano essere integrati a causa dell’effetto “noodle bowl”. Ovvero nonostante la presenza di accordi di libero scambio il commercio non aumentava in modo significativo, per la presenza di standard diversi e la permanenza di barriere non tariffarie. E’ importante inoltre sottolineare che la RCEP non è un’iniziativa cinese, come la Asia Infrastructure and Investment Bank (AIIB) o la Belt and Road Initiative (BRI). Tuttavia, il peso della Cina è rilevante ed ha portato ad adottare norme e regole vicine agli interessi di Pechino. Un esempio è quello del ruolo delle imprese e delle banche di stato, protagoniste del sistema economico cinese, che ora vedono espandersi la possibilità di operare nella regione.

Gabriele Natalizia: Visto quanto letto sui giornali italiani credo sia necessario fare una precisazione. La Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) nasce in sede ASEAN e viene allargato a Giappone, Corea del Sud, Australia, Nuova Zelanda e Cina (l’India, dopo aver inizialmente aderito ai negoziati, ha deciso di uscire e non siglare l’accordo). Non è, quindi, frutto della volontà di Pechino di costruire un sistema economico regionale, volto a imporre la sua egemonia ed estromettervi gli Stati Uniti. Con la rilevante eccezione del Giappone, inoltre, quasi tutti i Paesi che hanno aderito al RCEP hanno già nella Cina il loro primo partner commerciale. Soprattutto nel caso di Giappone, Australia e Corea del Sud che esportano in Cina prodotti “costosi”, potrebbe persino costituire un vantaggio, perché l’abbattimento delle barriere tariffarie favorirebbe principalmente l’export dei loro prodotti in Cina e non il flusso contrario. Non va poi dimenticato un altro aspetto che deriva dalla sigla di questo accordo. Pechino ha accettato in linea generale di sottoporsi a una serie di vincoli internazionali, rispetto ai quali è storicamente insofferente soprattutto in campo economico, e più nello specifico di rispettare regole in tema di proprietà intellettuale e il trasferimento e utilizzo di dati. È Il Giappone, in realtà, l’attore che al momento sembra uscire maggiormente rafforzato da questa vicenda. Non a caso, il primo ministro Yoshihide Suga ha quasi contestualmente dichiarato il suo impegno ad espandere il Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (CPTPP), l’accordo di libero scambio subentrato al Trans-Pacific Partnership (TPP) promosso dall’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama e da cui Donald Trump ha tirato indietro gli Stati Uniti. L’obiettivo di Tokyo sarebbe quello di riportare al suo interno Washington, oltre che ottenere l’adesione di Taipei, Seul e Londra. La RCEP, infatti, combacia alla perfezione con la visione giapponese di un “arco [asiatico] della libertà e della prosperità” nonché di un Indo-Pacifico “libero e aperto”.

In passato, anche prima della Presidenza Trump, in Europa e in Occidente erano cresciute tensioni e rivalità sul versante economico e commerciale, che hanno portato ad esempio anche all’emergere, in alcuni casi, di difficoltà in occasione della definizione di accordi come il CETA o il TTIP. Alla luce di questo accordo, come dovrebbero, o potrebbero, reagire i paesi occidentali?

Gabriele Natalizia: Il RCEP non è un’alleanza, ma solo un accordo commerciale che, peraltro, deve ancora produrre i suoi effetti. Pertanto, non nasce contro qualcuno, né tanto più contro i Paesi occidentali. Non credo, quindi, ci dobbiamo aspettare necessariamente una risposta. Anche perché un conto è guardare a tale accordo dalla prospettiva degli Stati Uniti, che sono uniti alla regione dell’Indo-Pacifico da un oceano e ormai da un decennio hanno individuato nel Pivot to Asia l’asse intorno a cui far ruotare la loro strategia internazionale, un altro è guardarlo dalla prospettiva dei Paesi europei, che volenti o nolenti soffrono una periferizzazione politica dovuta allo spostamento a est degli equilibri mondiali. La contromossa che ci potremmo aspettare da Washington a questo punto, vista anche l’elezione di Biden, non è cercare maggiore integrazione commerciale tra gli Stati Uniti e l’Europa, ma negoziare un ingresso nella nuova versione del TPP. D’altronde, il rifiuto europeo del TTIP costituì un colpo per il prestigio americano e dubito che un presidente fresco di elezione voglia incappare in quella che venne considerata un’umiliazione a Washington. Allo stesso modo, non penso che voglia avocarsi le simpatie di tanti elettori – sia democratici sia repubblicani – che comunque ormai intravedono in questi accordi delle minacce per l’economia americana. 

Matteo Dian L’Unione Europea è già molto attiva nel settore degli accordi di libero scambio di nuova generazione, ovvero quegli accordi che, oltre alle barriere tariffarie, cercano di abolire le barriere non tariffarie (ovvero adottare standard comuni in materie quali protezione del lavoro e dell’ambiente, presenza di aziende di stato, accesso al credito, liberalizzazione dei servizi, regole di origine e proprietà intellettuale). L’UE ha recentemente approvato accordi di questo tipo con Giappone, Corea del Sud, Singapore e Vietnam. Questi accordi, così come la Comprehensive and Progressive Agreement for a Trans-Pacific Partnership (ovvero la TPP senza gli Stati Uniti) hanno un livello di profondità maggiore rispetto alla RCEP. Ovvero stabiliscono maggiori regole con l’obiettivo di abolire le barriere non tariffarie e garantire sia progressi sul fronte dell’integrazione commerciale, ma anche il rispetto di standard economici e sociali per tutti i contraenti, e per promuovere una concorrenza leale. Questa strategia sta proseguendo con i negoziati con Indonesia, Malesia e Filippine e rappresenta un’opportunità di crescita economica ma anche uno strumento per promuovere l’adozione di standard economici e sociali, in particolare nei paesi del Sud-Est Asiatico.

Antonino Alì: Gli effetti economici dell’accordo sull’economia europea saranno abbastanza limitati per molteplici ragioni. L’UE ha già degli accordi importanti nei confronti di importanti attori asiatici come il Giappone, la Corea del Sud e il Vietnam. Il RCEP, infatti, ha un significato più simbolico che marcatamente economico. Il RCEP è la risposta al fallimento del fallimento del TTP (Trans-Pacific Partnership) a seguito del ritiro americano. Tuttavia, è previsto che il RCEP venga attuato su una base temporale lunga (20 anni) ed è corredato di numerose deroghe ed eccezioni. L’accordo deve essere considerato un ulteriore tassello della progressiva integrazione dei mercati asiatici e una tappa nel rafforzamento e nella ristrutturazione dell’economia asiatica sul medio/lungo periodo.

Con l’elezione di Joe Biden alla Casa Bianca, tenuto conto del fatto che probabilmente la competizione con la Cina resterà al centro delle attenzioni della politica estera americana, cosa potrebbe cambiare a livello globale, sul fronte del multilateralismo, e in particolare a livello commerciale ed economico?

Matteo Dian: In Biden molto probabilmente assisteremo alla rivalutazione del multilateralismo in Asia e ad un tentativo di rilancio della leadership americana al suo interno. A livello commerciale ed economico la prima mossa sarà probabilmente il ritorno al tavolo negoziale della TPP. Sarà interessante capire se gli Stati Uniti vorranno pensare a qualche contromossa per fare concorrenza alla Asia Infrastructure Investment Bank, magari potenziando il ruolo delle Asia Development Bank, banca per lo sviluppo guidata dal Giappone. Non credo gli Stati Uniti cercheranno di competere “dollaro per dollaro” con la Belt and Road Initiative nel settore delle infrastrutture. Questo è un ruolo più adatto al Giappone, che è già molto attivo in questo settore, in particolare nel Sud Est Asiatico. Probabilmente l’Amministrazione Biden porrà molta enfasi anche sulle istituzioni politico-diplomatiche del multilateralismo in Asia, tra le quali l’East Asia Summit, e l’ASEAN+3.

Antonino Alì: Le prime affermazioni di Biden durante la campagna elettorale sono state persino più dure di quelle di Trump in relazione alla Cina. Tuttavia, la realtà dei fatti è ben diversa. Gli effetti delle trade wars sulla Cina in epoca trumpiana sono stati abbastanza limitati e non hanno invertito in maniera significativa il trend in atto. Peraltro, secondo alcuni studi, le perdite generate dalle guerre commerciali (circa 300 miliardi entro il 2030) verranno ampiamente compensate dagli accordi conclusi in area asiatica. La vera guerra commerciale globale è combattuta sul fronte dell’innovazione e sugli standard tecnologici. L’UE, anche se in ritardo sul primo fronte, cerca di esercitare un peso significativo nella definizione di standards e regole.

Gabiele Natalizia A mio personalissimo giudizio, occorre tenere separati il multilateralismo inteso come modello di processo decisionale tra gli Stati, che talvolta può riguardare le dimensioni della finanza e del commercio, e gli accordi per la promozione dell’interdipendenza economica, che sono considerati tradizionalmente alla base della stabilità del cosiddetto ordine internazionale liberale. Le due cose non vanno necessariamente di pari passo. Si pensi all’Amministrazione Bush jr che più di ogni altra denunciò “i lacci e i lacciuoli” delle istituzioni internazionali (cit. D. Rumsfeld) e optò per l’unilateralismo dicendo apertamente che – dall’Iraq in poi – sarebbe stata “la missione a dettare la coalizione” (cit. G.W. Bush). Allo stesso tempo, la Casa Bianca degli anni 2001-2009 sostenne convintamente l’apertura dei mercati e i benefici politici indotti da una crescente interdipendenza economica tra gli Stati su scala sia regionale che globale. Rispetto al multilateralismo, inoltre, credo sia importante non rimanere a un’interpretazione epidermica, ma scavare sino alle sue origini. Non si può evitare di rilevare, infatti, che le politiche multilaterali o unilaterali non rappresentano un indicatore dell’irenismo o, in alternativa, dell’aggressività di un’Amministrazione. Sono solo due metodi alternativi per prendere decisioni politiche. A seconda del contesto politico-strategico che si sono trovati dinanzi, gli inquilini che si sono succeduti alla Casa Bianca nel post-Guerra fredda hanno reputato più efficiente l’una piuttosto che l’altra in funzione del medesimo scopo: preservare l’ordine liberale – inteso come un ordine anzitutto egemonico – e sostenere la sicurezza del suo principale garante – gli Stati Uniti. “Multilateralismo”, inoltre, non significa sempre la stessa cosa nello scorrere del tempo. Forse solo negli anni dell’Amministrazione Clinton esso ha assunto le sembianze che tutti gli attribuiamo, ossia quelle del coinvolgimento – talvolta reale, altre volte apparente – di alleati e partner degli Stati Uniti nei processi decisionali sui temi caldi dell’agenda politica internazionale. L’Amministrazione Obama, invece, con “multilateralismo” non ha inteso tanto una “condivisione delle scelte” con gli altri Stati, quanto la “condivisione delle responsabilità”, da cui il ritornello sul burden sharing e l’accusa del presidente americano a Germania e Francia di comportarsi da free rider in alcuni settori, difesa in primis (si veda l’intervista di Obama alla rivista liberal The Atlantic: https://bit.ly/3fkPgbU). Nell’ultima campagna elettorale si è parlato poco di questi temi, ma è possibile fare qualche previsione sulle scelte del presidente-eletto Biden poiché è stato parte attiva delle politiche obamiane e si trova di fronte a un ambiente internazionale non troppo dissimile da quello con cui si è confrontato il precedente presidente democratico. Non credo che ci siano le basi in questo momento per il rilancio di nuovi accordi commerciali multilaterali guidati dagli Stati Uniti, ma sono convinto che Biden ritornerà al multilateralismo politico, privilegiando l’accezione che gli ha attribuito Obama e non Clinton. Pertanto, non credo che il cambio alla Casa Bianca comporterà mutamenti politici tali da lasciare soddisfatti gli alleati europei.

Approfondimento a cura di Europa Atlantica


Immagini tratte dal sito del RCEP

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