Tra continuità ed evoluzioni: prospettive della strategia americana di lotta al terrorismo

Come potrebbe svilupparsi, e quanto sarà importante, la lotta al terrorismo nell’agenda del futuro Presidente degli Stati Uniti? Scenari possibili, aree di interesse, paesi e organizzazioni, in questa analisi di Francesco Conti.

Nonostante la lotta alla pandemia continuerà a dominare l’agenda, almeno iniziale, del futuro presidente Joe Biden, il contrasto al terrorismo internazionale rimarrà ancora una delle priorità della nuova amministrazione. Difficilmente Biden si discosterà dalla strategia che caratterizza da tempo l’approccio statunitense. Ormai sono lontani gli anni in cui venivano utilizzati massicci contingenti di truppe convenzionali (come nelle operazioni Enduring Freedom e Iraqi Freedom del periodo Bush o la stessa “surge” di Obama in Afghanistan del 2009), e la futura presidenza, salvo eventi imprevedibili, continuerà con la collaudata formula del light footprint, che si basa su una ridotta presenza di truppe unita all’utilizzo di droni per attacchi mirati e al sovente ricorso alle forze speciali in missioni di “kill or capture” di terroristi d’alto profilo. L’annunciato parziale ritiro delle truppe USA dall’Iraq e dall’Afghanistan potrebbe però portare ad evoluzioni securitarie in entrambi i paesi.

Nonostante un califfato territorialmente sconfitto da più di un anno e mezzo, la nuova amministrazione Biden dovrà comunque fare i conti con uno Stato Islamico ancora combattivo, seppur regredito ad uno stato di insorgenza. Che la disfatta territoriale non avrebbe segnato la sconfitta di IS lo avevano peraltro già annunciato gli stessi jihadisti dell’ex califfo al-Baghdadi, che, con un proclama del loro portavoce Abu Muhammad al-Adnani del 2016 avevano quasi profeticamente avvisato: “saremmo noi sconfitti e voi vittoriosi se voi doveste riconquistare Mosul o Sirte o Raqqah o anche prendere tutte le città e noi dovessimo ritornare alla nostra condizione iniziale? [l’insorgenza] Certamente no! La vera sconfitta è la perdita della volontà e del desiderio di combattere”.[1] Data la sua debolezza rispetto al passato, il gruppo terroristico disdegna ora le zone urbane, focalizzandosi invece sulle aree più rurali, nello specifico quelle montuose al confine con il Kurdistan iracheno. Lo stesso Department of Defense statunitense considera IS come ancora una minaccia, sia nel teatro mediorientale, che a livello globale, dato che continua ad esortare i propri seguaci a compiere attacchi nei paesi occidentali,[2] come avvenuto recentemente in Austria.

Secondo un rapporto del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di luglio, lo Stato Islamico disporrebbe ancora di circa dieci mila combattenti tra Iraq e Siria, principalmente utilizzati per effettuare attacchi mordi e fuggi, imboscate (anche con ordigni esplosivi improvvisati) e assassinii mirati.[3] Daesh continua infatti ad operare anche in territorio siriano, avendo effettuato almeno trenta attacchi nello scorso mese di ottobre, prendendo di mira soprattutto le forze governative di Bashar al-Assad, riuscendo anche a catturare, seppur momentaneamente, diversi villaggi situati nella zona centrale e desertica del paese (la cosiddetta “steppa siriana”),[4] dove il gruppo terroristico è ancora in grado di porre in essere operazioni relativamente complesse con decine di uomini alla volta.[5] In entrambi i paesi, inoltre, lo Stato Islamico sfrutta anche il rallentamento delle operazioni antiterrorismo dovute alla pandemia di Covid-19, che potrebbero frenare ulteriormente con la riduzione degli organici delle forze armate statunitensi.

Lo scacchiere iracheno è importante anche per l’altro importante fronte securitario dello scenario mediorientale, cioè quello che vede gli USA fronteggiarsi contro l’influenza della Repubblica Islamica dell’Iran, che, dalla caduta di Saddam Hussein, ha considerato il paese nella propria zona d’influenza. È notizia recente che milizie irachene filo-iraniane hanno nuovamente bersagliato con razzi l’ambasciata statunitense, che si trova nella “Green Zone” della capitale Baghdad.[6] La riduzione delle truppe americane stanziate nel paese, annunciata dall’attuale presidente, avrebbe quasi certamente l’effetto di imbaldanzire tali milizie (come era successo a seguito del precedente ritiro americano terminato nel 2011), fra tutte Kata’ib Hezbollah. Essa è storicamente la più influente dal punto di vista politico-militare, dati i suoi stretti rapporti con la Forza Quds (Niru-ye Qods), l’unità dei Pasdaran che è responsabile per le operazioni extraterritoriali, che spesso si traducono in supporto materiale a gruppi paramilitari e organizzazioni terroristiche. La presidenza Biden potrebbe quindi ritrovarsi con una situazione in Iraq, e anche nella stessa capitale Baghdad, ben lontana dalla stabilizzazione. Proprio nella capitale, le milizie filo-iraniane sono apertamente ostili al primo ministro al-Khadimi,[7] ex direttore del mukhabarat (l’intelligence irachena), perché considerato troppo vicino agli Stati Uniti. Va ricordato che proprio a Baghdad sono stanziate unità delle nostre forze armate, fra cui elementi delle forze speciali per addestrare la polizia federale irachena e il Counter Terrorism Service[8], quest’ultimo in prima linea nelle operazioni anti-Daesh.

Anche l’Afghanistan, potrebbe rivelarsi un paese importante per entrambi gli obiettivi: sconfiggere il terrorismo jihadista e ridurre l’influenza iraniana nella regione. Pure in questo caso, la prevista riduzione delle quote militari annunciata da Trump, potrebbe favorire entrambi gli avversari degli Stati Uniti. In generale, il paese sembra ancora lontano dalla pace, essendo continuamente scosso dalla violenza, ormai ininterrotta da più di quarant’anni. L’Afghanistan è infatti all’ultimo posto del Global Peace Index 2019,[9] oltre ad essere fanalino di coda anche nel Global Terrorism Index 2019, avendo registrato più di settemila vittime nel 2018, principalmente ad opera dei Talebani e della provincia locale dello Stato Islamico (Wilayah Khorasan o IS-Khorasan).[10] Quest’ultimo gruppo, secondo il già citato rapport ONU, disporrebbe di poco più di duemila uomini e sarebbe in larga parte confinato alla provincia di Kunar. Nonostante ciò, l’organizzazione è ancora in grado di organizzare attacchi al di fuori della propria zona d’influenza, inclusa la stessa capitale Kabul, spesso presa di mira da attentatori suicidi o da commando con armi automatiche. Inoltre, il più recente attacco ha visto l’utilizzo di razzi[11], molto probabilmente provenienti dal mercato nero,[12] vera e propria piaga endemica che continua ad alimentare il crimine e la violenza terroristica. Cosa ancora più preoccupante, IS-Khorasan utilizzerebbe il territorio afghano per diffondere la sua influenza nella regione,[13] che comprende sia l’Asia centrale che quella meridionale, come fece l’organizzazione madre in Medio Oriente durante il suo apogeo.

Per quanto riguarda i Talebani, ormai in conflitto con gli Stati Uniti d’America da più di diciannove anni, essi potrebbero avere ancora l’obiettivo principale di sostituire il governo centrale con un emirato totalmente basato sulla shari’ah, così come fecero tra il 1996 e il 2001, ovviamente in aperto contrasto con il governo centrale riconosciuto dalla comunità internazionale. Al momento i Talebani sarebbero in grado di controllare circa il 19% del territorio afgano, dove sono in grado di fornire servizi essenziali alla popolazione, fattore che permette loro di ottenere consenso popolare e di guadagnare nuove reclute e quindi alimentare la loro insorgenza contro il governo di Kabul e la coalizione internazionale.[14] Con l’accordo siglato a Doha con gli USA nel febbraio di quest’anno i  talebani si sono impegnati ad impedire che l’organizzazione terroristica di al-Qaeda possa utilizzare i territori sotto il loro controllo per minacciare gli Stati Uniti. Infatti, il gruppo jihadista mantiene una presenza nella zona. Il ritiro americano dal paese potrebbe anche impattare sul gruppo capeggiato da al-Zawahiri, potendo infatti portare ad una reviviscenza del terrorismo internazionale con base in Afghanistan. Inoltre, sia al-Qaeda che la provincia locale dello Stato Islamico potrebbero approfittare del processo di pace in atto fra gli Stati Uniti ed i Talebani, cercando di ingraziarsi i membri del gruppo più radicali e contrari all’accordo.[15]

Con la relativa de-escalation del conflitto siriano, le decine di migliaia di miliziani afghani sciiti (Liwa Fatemiyoun)[16] mobilitati dai pasdaran iraniani per supportare le forze di Bashar al-Assad, potrebbero venir dirottati, almeno in parte, nella loro terra di origine. L’esperienza militare acquisita sul campo potrebbe venir utilizzata per alimentare la violenza settaria, in questo caso contro gruppi estremisti come i Talebani, al-Qa’ida o, soprattutto, IS-Khorasan.[17] Nonostante tali organizzazioni siano avversari degli USA (e quindi della coalizione internazionale di cui fa parte anche l’Italia), azioni da parte di tali milizie sciite sarebbero comunque in violazione del monopolio legale dell’uso della forza che spetta alle forze di sicurezza afgane, riducendo la già debole influenza del governo centrale Kabul, oltre che ad alimentare lo scontro sunniti-sciiti. La provincia locale dello Stato Islamico, ad esempio, ha fra i suoi bersagli principali anche la minoranza Hazara, nativa della zona centrale dell’Afghanistan. Nel marzo di quest’anno, un commando di Daesh ha aperto il fuoco indiscriminatamente contro civili riuniti in una commemorazione politica nella capitale, uccidendo 32 Hazara.[18] Il gruppo jihadista prende anche spesso di mira moschee o festività religiose molto care ai fedeli sciiti, come Ashura’[19] (che celebra il sacrificio di Husayn, nipote del profeta Muhammad, durante la battaglia di Karbala).

Tale futuro scenario potrebbe venire favorito anche dall’attuale comandante delle Forze Qods iraniane, il Brigadier Generale Esmail Ghaani, che, a differenza del suo più illustre predecessore Qassem Soleimani, può vantare una vasta esperienza di operazioni extraterritoriali in Afghanistan, Pakistan e Asia Centrale e che quindi potrebbe disporre di un vasto network nella regione, essendo stato in passato anche ufficiale di spicco del controspionaggio dei pasdaran.[20] Con la riduzione delle truppe USA, il regime iraniano potrebbe decidere anche di coltivare relazioni più amichevoli nei confronti dei talebani, nonostante le passate ostilità (l’Iran era uno dei principali alleati dell’Alleanza del Nord e, nel 1998 arrivò a minacciare l’invasione militare dell’Afghanistan dopo che dieci diplomatici iraniani vennero giustiziati a seguito della conquista talebana di Mazar-i-Sharif). Peraltro, già negli anni precedenti, Tehran era arrivata a fornire equipaggiamento militare e supporto finanziario ai talebani,[21] oltre ad aver garantito a diversi loro leader accesso al territorio iraniano e istituito campi di addestramento, sempre in Iran,[22]  in ottica ovviamente di contrastare gli USA in Afghanistan.

L’avanzata iraniana nel paese potrebbe avere riflessi anche sul contingente italiano stanziato in Afghanistan, soprattutto la Task Force Arena degli Alpini, che ha sede ad Herat,[23] area considerata come “un’estensione dell’Iran” da parte del governo di Tehran (nella provincia di Herat, oltre a all’influenza culturale e artistica persiana, il farsi è la lingua più parlata e la capitale omonima dista meno di 150 chilometri dal confine iraniano). I militari italiani si occupano di fornire addestramento e supporto tecnico (“train, advise and assist”) a favore della Afghan National Army (ANA), che, secondo il più recente rapporto dello United States Department of Defense ha un tasso di attrito superiore a quello di conservazione del personale (dovuto principalmente a diserzioni),[24]  e non sarebbe in grado, al pari dell’aviazione afgana, di raggiungere l’autosufficienza per il 2024 (data che era stata prevista dalla NATO del 2012)

Mentre la postura securitaria degli Stati Uniti difficilmente cambierà rotta, potrebbe però cambiare la retorica usata dalla nuova amministrazione, sia nella lotta al terrorismo che, nelle seppur complicate, relazioni con l’Iran. L’amministrazione Trump ha spesso usato dichiarazioni al vetriolo nei confronti del regime di Tehran, arrivando anche a prendere in considerazione l’opzione militare in diverse occasioni. Inoltre, diversi elementi vicini a Trump (fra i più Rudolph Giuliani o anche John Bolton, l’ex National Security Adviser silurato lo scorso anno) hanno dimostrato supporto per i Mojahedin del Popolo Iraniano (Mojahedin-e Khalq o MEK) per un eventuale cambio di regime nel paese. Tale gruppo però, è stato, fino al 2012 considerato come un’organizzazione terroristica dagli stessi Stati Uniti[25] (l’Unione Europea ha invece rimosso il MEK dalla sua lista di organizzazioni terroristiche nel 2009) e godrebbe di ben poco favore in Iran. Per quanto riguarda la retorica nei confronti all’estremismo violento di matrice jihadista, è molto probabile che il prossimo presidente si allontani dalla retorica usata da Trump, a volte criticata per aver messo sullo stesso piano il terrorismo e la fede islamica e per aver descritto quest’ultima come aliena alla cultura americana.[26] Va infatti ricordato che l’estremismo violento non si combatte solo con l’intelligence, le forze armate e quelle di polizia, ma anche con specifiche contronarrative efficaci in grado di delegittimare la propaganda e l’ideologia dei gruppi terroristi.

Infine, è notizia ancora più recente che l’attuale presidente Trump ha annunciato il ritiro delle truppe americane anche dalla Somalia, dove il contingente americano è impegnato ad assistere le forze locali nel contrasto ad al-Shabaab, gruppo jihadista affiliato ad al-Qaeda. Nonostante tale disimpegno, le truppe continueranno ad essere stanziate nel continente africano e ad operare in missioni di antiterrorismo.[27] L’Africa, infatti, potrebbe diventare uno scenario molto importante per la futura presidenza Biden, date le scarse condizioni securitarie l’elevato numero di gruppi jihadisti presenti, dal Sinai al Mozambico. Nella regione egiziana, le forze armate sono da anni impegnati a combattere contro jihadisti affiliati allo Stato Islamico che, negli scorsi mesi sono riusciti anche ad attaccare importanti bersagli come un oleodotto ed una base militare, segno che il gruppo avrebbe preso coraggio, nonostante le numerose operazioni antiterrorismo condotte in loco. In aggunta, nel Sinai è presente una forza di peacekeepers sotto egida ONU (Multinational Force and Observers) che attualmente comprende anche 78 militari italiani,[28] che si trovano non lontani dall’area oggetto degli scontri fra il governo e i miliziani dello Stato Islamico. Per quanto riguarda il Mozambico, invece, gli attacchi iniziati nel 2017 nelle zone nord-orientali del paese hanno in totale finora circa mille morti ma nel 2020 sono aumentati di intensità e complessità tattica rispetto al passato,[29] fattore che sembrerebbe far pensare che il jihadismo sia lungi dall’essere sulla difensiva, portando anche ad un recente appello da parte dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, che ha esortato la comunità internazionale ad agire per la protezione dei civili vittima dell’ormai quotidiana violenza.[30]


[1] Haroro J. Ingram, Craig Whiteside & Charlie Winter, The ISIS Reader: Milestone Texts of the Islamic State, (Hurst, 2020), p. 251

[2] Operation Inherent Resolve: Lead Inspector General Report to the United States Congress, 1 luglio 2020- 30 settembre 2020, p. 2

[3] Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, S/2020/717, pp. 6-7

[4] Gregory Waters, “ISIS Redux: The Central Syria Insurgency in October 2020”, 10 novembre 2020, disponibile su https://www.counterextremism.com/blog/isis-redux-central-syria-insurgency-october-2020

[5] Gregory Waters, “Strengthening and Expanding: ISIS’ Central Syria Campaign”, Center for Global Policy, 19 agosto 2020, disponibile su https://cgpolicy.org/articles/strengthening-and-expanding-isis-central-syria-campaign/

[6] Namo Abdulla, “Iran-backed Militias Resume Rocket Attacks Toward US Embassy in Iraq“, VOA News, 19 novembre 2020, disponibile su https://www.voanews.com/extremism-watch/iran-backed-militias-resume-roc ket-attacks-toward-us-embassy-iraq

[7] Michael Knights, “Back into the Shadows? The Future of Kata’ib Hezbollah and Iran’s Other Proxies in Iraq”, CTC Sentinel, ottobre 2020, p. 8

[8] Ministero della Difesa, “Contributo Nazionale”, disponibile su https://www.difesa.it/OperazioniMilitari/op_intern_corso/Prima_Parthica/Pagine/contributo_nazionale.aspx

[9] Institute for Economics & Peace, Global Peace Index 2019: Measuring Peace in a Complex World, (2019), p. 2

[10] Institute for Economics & Peace, Global Terrorism Index 2019: Measuring the Impact of Terrorism, (2019), p. 2

[11] Thomas Gibbons-Neff & Fatima Faizi, “As Pompeo Prepared to Meet Afghan Warring Parties, New Attack Struck Kabul”, The New York Times, 21 novembre 2020, disponibile su https://www.nytimes.com/2020/11/21/world/middleeast/afghanistan-kabul-rocket-attack.html?utm_source=iterable&utm_medium=email&utm_campaign=1745350_

[12] Antonio Giustozzi, The Islamic State in Khorasan: Afghanistan, Pakistan and the New Central Asian Jihad, (Hurst, 2018), p. 105

[13] Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, S/2020/717, pp. 14-15

[14] Bill Roggio & Alexandra Gutowski, “ Mapping Taliban Control in Afghanistan”, Long War Journal, disponibile su https://www.longwarjournal.org/mapping-taliban-control-in-afghanistan

[15] Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, S/2020/717, p. 3

[16] Il nome deriva dal Califfato Fatimide, califfato sciita che, al massimo della sua estensione, controllava territori dall’attuale Marocco alla Siria. La dinastia dei Fatimidi ebbe sotto controllo anche la Sicilia per diversi decenni nel X secolo d.C, oltre ad essere nota per aver fondato la città de Il Cairo in Egitto. Il periodo fatimide rappresenta quindi l’apice dell’influenza sciita sul mondo musulmano e può quindi essere visto, nostalgicamente, come un “periodo d’oro” per la confessione sciita, così come gruppi jihadisti si rifanno, strumentalizzandole, alle prime generazioni di musulmani. Bisogna comunque notare che i fatimidi, pur sciiti, erano della corrente ismailita, mentre la religione di stato della Repubblica Islamica dell’Iran, secondo l’art. 12 della Costituzione, è lo sciismo duodecimano.

Inoltre, un considerevole numero dei miliziani Liwa Fatemiyoun è reclutato anche fra i rifugiati afgani residenti in Iran. Secondo i dati dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, vi sarebbero circa tre milioni di afgani nel paese, di cui più di un milione e mezzo non documentati.

[17] Jesse C. Reiff, “When Ali Comes Marching Home: Shi’a Foreign Fighters after Syria”, Studies in Conflict & Terrorism, (2018), pp. 7-8

[18] “Dozens killed in attack on political rally in Kabul”, The Guardian, 6 marzo 2020, disponibile su https://www.theguardian.com/world/2020/mar/06/dozens-killed-in-attack-on-political-rally-in-kabul

[19] Syed Zafar Mehdi, “Why ISIS Have Declared War On The Hazara Shias Of Afghanistan”, Huffington Post, 26 giugno 2017, disponibile su https://www.huffingtonpost.in/syed-zafar-mehdi/why-isis-have-declared-war-on-the-hazara-shias-of-afghanistan_a_22504421/?guccounter=1&guce_referrer=aHR0cHM6Ly9kdWNrZHVja2dvLmNvbS8&guce_referrer_sig=AQAAAHF2O6zrgZ3Oybjp5ND3f7lbx_8WI6U0dIzvo3mBTNLXxNo5Aw6LYHDALUpszEI5-JbXPpfABM9DvRtAuciOZK9Bi1kBBlaN8-eh23vDKagJ8t8hxnD3pWmuPU65TKseHYq98Vz7rRTCGdIEZ0ZvBt2qcT9ax_kTNs3NgxgaGRyj

[20] Ali Alfoneh, “Esmail Qaani: The Next Revolutionary Guards Quds Force Commander?”, American Enterprise Institute for Public Policy Research, gennaio 2012

[21] Shahram Akbarzadeh & Niamatullah Ibrahimi, “The Taliban: a new proxy for Iran in Afghanistan?”, Third World Quarterly, (2019), p. 5

[22] Nader Uskowi, Temperature Rising: Iran’s Revolutionary Guards and Wars in the Middle East, (Rowman & Littlefield, 2019), p. 132

[23] Ministero della Difesa, “Contributo nazionale”, disponibile su https://www.difesa.it/operazionimilitari/op_intern_corso/afghanistanrs/pagine/contributonazionale.aspx

[24] United States Department of Defense, “Enhancing Security and Stability in Afghanistan”, giugno 2020, p. 58

[25] Il gruppo, durante gli ultimi anni della dinastia Pahlavi, attaccò diversi obiettivi statunitensi in Iran, assassinando anche diversi militari USA. Vedi: Jeremiah Goulka et al., Mujahedin-e Khalq in Iraq: A Policy Conundrum, RAND, 2009, pp. 81-82

[26] Peter R. Neumann, Bluster: Donald Trump’s War on Terror, (Hurst, 2019), p. 22

[27] Nancy A. Youssef & Michael M. Phillips, “U.S. Will Move Nearly All Troops Out of Somalia, Officials Say”, Wall Street Journal, 4 dicembre 2020, disponibile su https://www.wsj.com/articles/u-s-will-move-nearly-all-u-s-troops-out-of-somalia-11607114195

[28] Dati disponibili su https://mfo.org/contingents?id=ITA

[29] Francisco Almeida dos Santos, War in resource-rich northern Mozambique – Six scenarios, CMI Insight, Maggio 2020, p. 3

[30] United Nations Human Rights Office of the High Commissioner, “Mozambique: Bachelet appalled by escalating conflict in Cabo Delgado province”, 13 novembre 2020.

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