La Cina, gli Stati Uniti e le relazioni internazionali: intervista a Matteo Dian

Intervista a Matteo Dian, autore de “La Cina, gli Stati Uniti e il futuro dell’ordine internaziomale”.

Nel corso degli ultimi anni abbiamo assistito all’inizio di un sempre più forte e intenso confronto geopolitico, economico, tecnologico e militare tra Stati Uniti e Cina. Durante gli anni della Presidenza Trump, anche prima dello scoppio della crisi del Covid 19, il confronto tra le due potenze ha assunto una sempre maggiore visibilità e rilevanza globale; ma in realtà era già in atto da prima. Infatti l’ascesa economica e poi politica e tecnologica cinese ha contribuito negli ultimi anni a cambiare il confronto geopolitico internazionale e rappresenta un fatto di grande impatto, sugli equilibri politici, ed economici, globali. Non tutti gli analisti e gli esperti di politica internazionale sono concordi nel valutare le possibili conseguenze del confronto geopolitico in atto tra Stati Uniti e Cina. Il dibattito, sotto diversi punti di vista, è in atto da tempo e offre una ampia gamma di spunti di riflessione e di previsioni, frutto di sensibilità differenti ma anche di analisi politologiche diverse. Il dato più evidente però è che pur nella differenza delle analisi, è chiaro ai più che il confronto tra Cina e Stati Uniti, che interessa di conseguenza non solo l’area geografica indo-pacifica e coinvolge anche i paesi alleati delle due potenze, sia diventato un tema strategicamente sempre più rilevante a livello internazionale e potrebbe fortemente condizionarlo anche nei prossimi anni. Quali direzioni potrà prendere questo confronto, se sempre più improntato verso un dialogo e la cooperazione o se invece orientato a diventare sempre più competitivo e, potenzialmente, anche conflittale, con riverberi in tutto il mondo e in più settori diversi, è uno dei temi su cui il dibattito è più acceso.

Il recente libro di Matteo Dian “La Cina, gli Stati Uniti e il futuro dell’ordine internazionale”, edito da Il Mulino, nella vasta gamma di testi, saggi e pubblicazioni uscite anche nel nostro paese su questo tema, offre un punto di vista interessante e innovativo di questa complessa questione, e analizza in modo approfondito  non solo le caratteristiche del confronto tra le due potenze globali, ma anche il suo possibile impatto sulla regione pacifica e le caratteristiche stesse dell’ascesa cinese e della reazione americana. Si tratta certamente un testo utile per approfondire questo tema, soprattutto per il pubblico italiano, che offre un punto di vista completo ed equilibrato che può essere molto utile, tra i numerosi emersi sul tema, per approfondirlo ed avere alcuni elementi nuovi di analisi. Matteo Dian è ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Bologna, docente di Politica Internazionale dell’Asia Orientale. Europa Atlantica gli ha rivolto alcune domande, per approfondire alcuni dei temi che ha affrontato nel suo testo.

Dott. Dian, alcuni anni fa, Graham Allison, facendo un parallelo con la rivalità tra Sparta e Atene durante la Guerra del Peloponneso, ha utilizzato l’immagine della “Trappola di Tucidide” per descrivere il confronto tra Cina e Stati Uniti, in un suo testo “Destined for war” che ha avuto un grande successo internazionale. Da allora l’immagine della “trappola” ha oggettivamente avuto molta fortuna, non solo tra gli analisti di politica internazionale, ed è stata utilizzata sovente in riferimento alle crescenti tensioni e alla competizione tra Stati uniti e Cina. Lei nel suo libro sostiene che questa immagine forse va superata. Perchè?

Nel libro sostengo che la metafora della trappola di Tucidide ci fornisce una spiegazione affascinante, ma fortemente distorta, dell’ascesa cinese e delle sue conseguenze. Questa spiegazione, come la maggior parte delle analisi legate all’approccio teorico del realismo strutturale, si basa su una serie di assunti logici e teorici molto stringenti che inducono a prevedere l’inevitabilità di una dinamica puramente competitiva e ad ignorare la specificità del caso in analisi, considerato semplicemente come un altro episodio del ciclo dell’ascesa e declino delle grandi potenze.

L’idea della Trappola di Tucidide si basa soprattutto sull’assunto dell’immutabilità della politica internazionale nello spazio e nel tempo. Tuttavia, le differenze in termini tecnologici, demografici, politici e normativi sono molteplici e devono necessariamente essere incluse nell’analisi empirica e teorica. Inoltre. la teoria di Allison è fortemente deterministica, ovvero assume che l’interazione tra grandi potenze sia necessariamente competitiva, ignorando le dinamiche cooperative in essere sia tra la Cina e gli Stati Uniti, ma anche tra Pechino e gli altri paesi asiatici.

Infine, la teoria di Allison è profondamente euro-centrica. Compara infatti sedici casi di transizioni di potenza avvenute nella storia. Quindici di queste coinvolgono stati occidentali. Come sostenuto giustamente da David Kang[1], “apparentemente, secondo Allison, in Asia o in altre parte del mondo negli ultimi 2500 anni non è successo nulla che sia degno di nota”.

Cosa è cambiato a livello internazionale e nella regione asiatica, con l’emergere della potenza cinese negli ultimi anni?

L’ascesa della Cina ha portato all’emergere di due modelli di ordine regionale distinti e alternativi. Il modello preferito dalla Cina è di tipo “chiuso”[2] e differenziato dall’ordine globale e caratterizzato dalla centralità dei principi del capitalismo di stato e della sovranità statale. In questo contesto, la Cina si propone come potenza guida regionale, con uno status paritario a quello degli Stati Uniti a livello globale. Ciò implica un tentativo di ridurre il ruolo americano nella regione sia nel settore della governance economica sia nel settore della sicurezza, con un declino progressivo del ruolo delle alleanze a guida americana.

La definizione geografica della regione in questo senso è asiatica e sino-centrica. Pechino si propone come il centro di una regione limitata a oriente dall’Oceano Pacifico e dalla prima catena di isole, ma che si estende ad occidente includendo il Sud-est asiatico, l’oceano Indiano e l’Asia centrale.

Il modello americano prevede una definizione geografica e normativa aperta ed inclusiva, modellata sull’idea di Asia-Pacifico o di Indo-Pacifico e propone diverse caratteristiche liberali, in termini di mercato, diritto internazionale e multilateralismo. In questo contesto gli Stati Uniti sono pronti a riconoscere il ruolo legittimo di grande potenza alla Cina. Ciò però non implica una parità globale di status né una riduzione del ruolo di Washington e dei suoi alleati nel promuovere l’ordine regionale. Al contrario, gli Stati Uniti riconoscono ad alcuni dei propri alleati, come Giappone e Australia, il ruolo di co-produttori di ordine, grazie alle loro risorse materiali e alla loro adesione ai principi liberali e democratici.

La presenza di due modelli di ordine diversi non implica però la necessità di uno scontro. La rinegoziazione di un ordine regionale non può essere descritta semplicemente come una dinamica bilaterale tra la potenza egemone e la potenza in ascesa. Il consenso e la percezione di legittimità da parte degli altri stati della regione sono essenziali. Ciò significa che le risorse economiche o militari devono essere affiancate dalla capacità di promuovere soluzioni cooperative nel settore economico e avanzare una proposta ideologica e normativa legittima per gli altri stati della regione.

Quali sono le caratteristiche della politica estera e strategica cinese, messa in campo soprattutto negli ultimi anni durante la presidenza di Xi Jinping?

La strategia cinese si è evoluta profondamente dal periodo Maoista ad oggi. La Cina di Mao si considerava come una potenza rivoluzionaria esterna all’ordine. Era isolata dall’ordine internazionale, non solo dal punto di vista politico, economico ed istituzionale, ma anche sotto l’aspetto normativo ed ideologico. La Cina di Deng ha promosso un lento percorso di inclusione nell’ordine internazionale ma ha consapevolmente rifiutato un ruolo da grande potenza. Deng aveva sintetizzato questo approccio attraverso la celebre frase tao guang yang hui, ovvero mantenere un profilo basso e nascondere le proprie forze.

Nel periodo successivo, la Cina si è progressivamente allontanata dalla strategia minimalista di Deng, cercando con sempre più convinzione il riconoscimento del proprio status. L’articolo, «China’s peaceful rise to great power status» scritto da Zheng Bijiang su Foreign Affairs nel 2003 può essere considerato il manifesto della strategia cinese del periodo di Hu Jintao. L’articolo afferma che la Cina non avrebbe seguito la stessa traiettoria di Germania e Giappone e che il suo sviluppo sarebbe stato funzionale alla stabilizzazione e pacificazione della regione.

Nel periodo di Xi Jinping, la rivendicazione del ruolo di grande potenza è diventata più esplicita ed è stata connotata da tre principi fondamentali. In primo luogo, la Cina sostiene di avere le capacità, il diritto e il dovere politico e morale di promuovere un processo di riforma dell’ordine internazionale. Inoltre, Pechino intende rivestire un ruolo di leadership in Asia; infine, la Cina richiede il riconoscimento di uno status di grande potenza alla pari di quello degli Stati Uniti.

Xi Jinping ha ridefinito il ruolo cinese nell’ordine internazionale come un tentativo di costruire «comunità di futuro condiviso per tutta l’umanità» (renlei mingyun gongtongti). Questo concetto è definito come la costruzione di un «mondo aperto, inclusivo, pulito che goda di una pace duratura, universale sicurezza e prosperità comune». L’idea della «comunità di futuro condiviso» da un lato riafferma la necessità di inclusione, rispetto per la diversità politica e l’enfasi sullo sviluppo. Dall’altro, sottolinea la rinnovata centralità cinese nella costruzione di un ordine regionale.

La Belt and Road Initiative ma anche di altre iniziative  quali  la  Banca  Asiatica  per  gli  Investimenti  in  Infrastrutture (AIIB) vengono considerati i primi passi verso la costruzione di questa visione dell’ordine internazionale.

Il legame tra la rinnovata centralità cinese, la possibilità di plasmare l’ordine regionale e la promozione degli interessi strategici cinesi si manifesta anche con il concetto di «relazioni tra grandi potenze di nuovo tipo» (xinxing guoji guanxi) promossa da Xi Jinping dal 2013 in poi. Questo concetto implica in pratica una parità di status tra Washington e Pechino, il riconoscimento degli interessi fondamentali cinesi e di una sfera di influenza cinese nella regione. Al di là del mero riconoscimento di status, questo concetto sottointende un tentativo di erodere la supremazia militare americana nella regione e l’efficacia e la credibilità della deterrenza estesa e del network di alleanze americane nella regione.

Quale è stato l’atteggiamento e la strategia messa in campo dagli Stati Uniti nel confronto con la Cina negli ultimi mandati presidenziali? Quali sono gli elementi di continuità e quali quelli di discontinuità tra le presidenze di Obama e Trump e oggi, con i primi passi mossi da Joe Biden?

Per tutto il periodo compreso tra la fine degli anni Settanta e il Pivot to Asia promosso dall’amministrazione Obama, gli Stati Uniti hanno favorito l’integrazione della Cina nell’ordine internazionale. Questo processo era basato su premesse liberali. L’integrazione economica, partecipazione alle istituzioni internazionali e l’apertura al mondo erano considerate funzionali ad un processo di apertura politica in Cina. Questo approccio considerava l’ascesa cinese, in particolare nella dimensione economica, come coerente con l’interesse americano e dell’intera comunità internazionale. In questo contesto, la Cina avrebbe dovuto adattarsi alle norme e regole dell’ordine internazionale liberale. Gli Stati Uniti avevano il compito di favorire questa evoluzione, mantenendo la capacità di premiare comportamenti virtuosi ed evitare o reprimere eventuali comportamenti devianti.

Fino al primo biennio dell’amministrazione Obama, la Cina veniva ancora considerata, coerentemente con gli approcci delle amministrazioni precedenti, soprattutto come un partner in grado di cooperare su temi quali commercio, terrorismo e ambiente e come una potenza in ascesa che stava compiendo un processo di integrazione e socializzazione nell’ordine internazionale. Con l’elaborazione della strategia del Pivot to Asia, agli elementi inclusivi e cooperativi si è unita un’evidente dimensione competitiva. La strategia del Pivot si basava, infatti, sulla necessità di riaffermare la leadership politico-militare americana e rafforzare le alleanze a guida americana nella regione, come premesse necessarie dell’integrazione cinese nell’ordine internazionale.

Con l’amministrazione Trump si assiste ad un ulteriore svolta verso un rapporto competitivo. La National Security Strategy del 2017 non esita a definire la Cina una potenza revisionista determinata a smantellare l’ordine a guida americana in Asia e a livello globale, promuovendo interessi e valori antitetici a quelli degli Stati Uniti. L’amministrazione Trump ha promosso una svolta competitiva nelle relazioni sino-americane sia nel settore militare sia nel settore economico. Inoltre, ha adottato toni fortemente ideologici, sottolineando il carattere marxista e leninista del regime cinese. Questa netta inversione di tendenza nella percezione del ruolo cinese non si limita però all’amministrazione Trump. Dal 2018 in poi, la quasi totalità delle analisi prodotte dai maggiori think tank e centri di ricerca accademici americani hanno sottolineato i limiti della politica di engagement e hanno proposto un’immagine della Cina come potenza revisionista, suggerendo una serie di misure per fronteggiare una lunga competizione tra grandi potenze.

Anche la strategia dell’amministrazione Biden considera la relazione bilaterale con la Cina come essenzialmente competitiva. Le differenze sono però notevoli. Sul versante economico, l’amministrazione Biden cercherà di mettere fine alla “trade war” e rilanciare il ruolo americano nella costruzione di un ordine aperto e multilaterale e basato sul capitalismo di libero mercato, come alternativa al progetto di ordine economico sino-centrico, promosso da Xi. Sul versante della sicurezza c’è una rinnovata enfasi sul valore strategico della rete di alleanze con gli stati della regione. Ciò è dimostrato dal fatto che le prime due visite ufficiali alla Casa Bianca di leader stranieri sono state quelle del Primo Ministro Giapponese Suga e del Presidente sud-coreano Moon. Dal punto di vista normativo c’è un ritorno al mainstream wilsoniano, con una rinnovata centralità dei diritti umani, dello stato di diritto e del multilateralismo, come caratteristiche fondanti dell’ordine liberale a guida americana. Ordine che l’amministrazione Biden si impegna a mettere al riparo dalla sfida cinese, mentre l’amministrazione Trump considerava l’ordine internazionale sia come il prodotto politico di un élite distante dal popolo americano sia come il motivo del declino della middle class americana.

Gli Usa contano nella regione Indo-pacifica su numerosi paesi alleati, tra cui Giappone, Australia, Corea del Sud, Filippine. Tra questi il Giappone riveste, per motivi anche di ordine storico ed economico, un ruolo particolare, essendo comunque ancora oggi la seconda potenza economica, industriale e tecnologica della regione. Che prospettive vede, per il Giappone, nel rapporto con Cina e Stati Uniti e rispetto anche alla competizione tra le due potenze?

Il Giappone è l’alleato degli Stati Uniti che maggiormente condivide la visione americana dell’ordine internazionale e della sfida cinese. Dal punto di vista giapponese la sfida cinese è molteplice. In primo luogo, costituisce un problema di sicurezza, data la vicinanza geografica e il rapido mutamento dell’equilibrio di potenza tra le due. L’ascesa cinese rappresenta anche una minaccia ai pilastri normativi dell’ordine regionale oltre che al ruolo giapponese al suo interno. Di conseguenza, la strategia di Tokyo, in particolare nell’ultimo decennio, è stata caratterizzata da un tentativo di rafforzare l’ordine regionale a guida americana, ampliando notevolmente il proprio ruolo sia nel settore della sicurezza sia nella governance economica.

Dalla fine della guerra fredda, il Giappone ha completamente rivisto la propria politica di sicurezza attraverso una strategia basata su tre direttrici: il superamento del pacifismo post-bellico, il consolidamento e l’approfondimento dell’alleanza con gli Stati Uniti e la costruzione di nuove relazioni con partner regionali nell’ambito della sicurezza.

Il superamento del pacifismo e la cosiddetta «normalizzazione» della politica di sicurezza giapponese sono iniziati negli anni Novanta. Questo processo ha subito una decisa accelerazione dal 2012 con il ritorno di Shinzo Abe al governo. I passi fondamentali in questo senso sono stati la reinterpretazione dell’Articolo Nove della Costituzione che ha ammesso l’autodifesa collettiva, l’adozione della legge sul segreto di Stato che ha garantito una maggiore cooperazione e interoperabilità con alleati e partner e l’abolizione del divieto di esportare armi. Queste riforme hanno permesso di mettere in pratica l’idea di «contributo attivo alla pace», attraverso un ruolo significativo nel fornire deterrenza e stabilità nella regione. Inoltre, hanno permesso di consolidare ulteriormente l’alleanza con gli Stati Uniti e creare nuove forme di cooperazione con i partner regionali. 

Il Giappone è stato, in particolare dopo il ritorno di Abe al potere, l’alleato che, con più decisione, ha contribuito al processo di integrazione economica regionale trans-pacifica. Abe è stato uno dei maggiori promotori della Trans-Pacific Partnership (TPP). La TPP rappresentava un argine al progetto regionale cinese basato su capitalismo di stato e un’idea chiusa della regione. Anche nella dimensione economica emerge la volontà di ribadire il ruolo giapponese di potenza regionale, in grado di contribuire ad un ordine aperto e basato su principi liberali.

L’uscita dell’amministrazione Trump dalla TPP ha rappresentato un notevole problema per il progetto giapponese di costruzione di un ordine economico trans-pacifico. Il governo Abe ha reagito rilanciando i negoziati per un nuovo accordo, firmato nel 2018 e denominato Comprehensive and Progressive Agreement for a Trans-Pacific Partnership  (CTPTPP).

Nonostante il Giappone si presenti come il principale partner degli Stati Uniti nel tentativo di consolidare l’ordine regionale di fronte alla sfida cinese, la relazione economica con la Cina rimane un fattore decisivo per l’economia giapponese. Di conseguenza, Tokyo ha aderito alla RCEP, che permette sia di mantenere una posizione importante nel commercio regionale sia di preservare il rapporto commerciale con la Cina. Allo stesso tempo, la RCEP permette al Giappone di coltivare la propria influenza economica nel Sud-est Asiatico. Inoltre Tokyo ha investito fortemente nel settore delle infrastrutture che rappresenta, insieme alla politica commerciale, un’altra dimensione importante dell’approccio giapponese all’ordine regionale e della competizione con Pechino. 

Ritiene che una crescente competizione nella regione possa portare anche ad una crescita sempre più forte anche della militarizzazione di questa area?

La competizione tra grandi potenze nella regione, unita ai tentativi cinesi di erodere il funzionamento dei meccanismi di deterrenza estesa e alla presenza di molteplici dispute territoriali nel Mare Cinese Meridionale rendono la regione particolarmente soggetta a rischi di escalation militare.

Da un lato la presenza della deterrenza nucleare e delle alleanze che legano gli Stati Uniti a Giappone, Corea del Sud, Australia e Filippine costituiscono fattori di stabilità. Dall’altro si assiste a quello che quello che Robert Jervis ha definito «stability-instability paradox»: la stabilità a livelli alti di intensità può generare instabilità a bassi livelli di intensità. In questo contesto, visto che il costo dell’escalation è altissimo, un attore può avere incentivi a modificare lo status quo a livelli di intensità e coercizione più bassi. Per chi difende lo status quo è molto difficile esercitare deterrenza minacciando credibilmente un conflitto aperto.

Negli ultimi anni nel Mare Cinese Meridionale la Cina ha usato le cosiddette strategie della zona grigia, ovvero attività di natura coercitiva e aggressiva, progettate per rimanere al di sotto della soglia del conflitto aperto, quali l’occupazione e la militarizzazione di isole contese.

Ciò genera diversi problemi.  Il primo è la mancanza di una linea rossa che faccia scattare la reazione prevista dall’alleanza. Di conseguenza è difficile stabilire in che misura l’alleato sia pronto a mantenere fede alla propria promessa, se questa promessa non è chiaramente definibile. Il concetto di linea rossa è molto problematico anche dal punto di vista pratico, soprattutto in un contesto come quello del Mare Cinese Meridionale, in cui non esistono confini chiaramente definiti. Il secondo problema è legato alla credibilità della minaccia davanti a cambiamenti minimi dello status quo. Durante la guerra fredda gli Stati Uniti avrebbero sicuramente risposto ad un attacco diretto verso i propri alleati con una rappresaglia massiccia contro l’Unione Sovietica. Oggi l’esercizio della deterrenza estesa consiste nel convincere la Cina, ma anche gli alleati nella regione, che gli Stati Uniti sono pronti ad un conflitto per difendere la sovranità filippina su isole disabitate come le Spratly orientali.

La minaccia di un’escalation militare potenzialmente molto costosa a fronte di un cambiamento dello status quo minimo ed incrementale è sia molto rischiosa sia poco credibile. Molto difficilmente Washington provocherà un conflitto generale con Pechino a causa dell’occupazione di un altro atollo nel Mare Cinese Meridionale. Ciò crea un incentivo a proseguire ed incrementare l’intensità dei cambiamenti incrementali dello status quo, per testare fino a che punto questi cambiamenti non generano una reazione. Tutto ciò rende il rischio di un’escalation involontaria molto concreto e pericoloso non solo per Cina e Stati Uniti, ma per l’intera regione.


[1] Kang, D. C. (2017). American grand strategy and East Asian security in the twenty-first century. Cambridge University Press.

[2] (chiuso ad influenze politiche, strategiche e normative di potenze extra regionali)


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