Colin Powell, un soldato americano

La scomparsa di un uomo e di un servitore dello stato che a suo modo ha rappresentato un piccolo pezzo della grande storia americana

Si è spento all’età di 84 anni l’ex segretario di stato americano Colin Powell. Una vita spesa al servizio del suo paese, nel bene e nel male, in pace come in guerra, da militare prima e politico poi. Un uomo il cui percorso di vita è stato per certi versi, per un ampio tratto almeno, molto esemplificativo dell’ideale dell’eroe americano. Afroamericano, cresciuto tra Harlem e il Bronx, reduce del Vietnam, eroe di guerra, ufficiale di colore in carriera in un’epoca ben diversa da quella attuale, soprattutto primo afroamericano che diventa Capo dello Stato Maggiore congiunto (anche il più giovane della storia) e con tale ruolo vincitore della Prima Guerra del Golfo, quella del Presidente Bush padre. E poi, da repubblicano pragmatico e moderato, primo afroamericano Segretario di stato, al fianco di Bush figlio, durante il suo primo mandato. Un percorso fino a qui quasi perfetto, di successo, iniziato da soldato, poi comandante prudente e attento, che gli farà accedere all’incarico di Consigliere per la sicurezza nazionale del Presidente Reagan per 2 anni, sempre restando un autentico servitore delle istituzioni e della bandiera a stelle e strisce. Un ruolo a cui, in tutta la vita, non ha mai rinunciato e si è sempre mantenuto fedele.
Figlio di immigrati giamaicani, Colin Powell, nato ad Harlem a New York, dopo gli studi universitari scelse l’esercito come via per un’affermazione sociale negli anni sessanta delle lotte razziali e del sogno Kennediano. Poi la guerra del Vietnam diventa il teatro in cui la sua carriera di militare decolla e non si fermerà più, fino ai successi degli anni Ottanta e Novanta, con la Casa Bianca, Panama, e il riscatto militare per l’America uscita vittoriosa dalla Guerra Fredda, nelle calde sabbie del deserto Kuwaitiano. Dopo la carriera militare, le medaglie, i gradi della gerarchia scalati fino alla vetta più alta, Colin Powell prosegue il suo impegno al servizio del paese e delle istituzioni. Lui, afroamericano repubblicano, accetta di servire nella prima amministrazione di George W. Bush, nel 2000, e ne diviene il capo della diplomazia, prima uomo di colore a rivestire questo incarico nella storia americana. Un altro record. Ma quella che sembrava una amministrazione destinata a occuparsi soprattutto della politica interna e del rafforzamento dell’America nell’epoca dell’unilateralismo si ritrova improvvisamente in guerra. Una mattina di settembre, il mondo, come l’America, si risvegliano improvvisamente di fronte alle immagini drammatiche del più devastante attacco terroristico della storia, quello organizzato dal network jihadista di Al Qaeda contro Washington e new York. Colin Powell, adesso, si ritrova al fianco di un nuovo Bush, in una nuova guerra, questa volta ancora più complessa di quelle del passato, e così diversa da quelle che lui stesso ha combattuto. Non ha il compito di guidare le forze armate, il Pentagono è guidato da Donald Rumsfeld, ma in un mondo sconvolto e ferito dopo l’attacco, a lui il compito di guidare la diplomazia americana in un momento in cui il suo paese ha necessità di alleati e amici per iniziare la nuova guerra globale contro il terrore. Ecco che insieme a Condoleezza Rice sarà l’artefice della costruzione della grande coalizione internazionale che affronterà l’inizio della campagna contro il terrorismo e la guerra in Afghanistan, rifugio di Al Qaeda e di Bin Laden. La vittoria rapida della campagna afgana, e l’ampio fronte internazionale che adesso affianca gli USA in questa guerra contro il terrorismo, è anche un suo successo, indubitabile. E ne farà uno degli uomini più in vista nella prima fase della guerra e dell’amministrazione Bush, almeno fino agli inizi del 2003.
Convinto sostenitore del multilateralismo, Powell, lontano invece dalle posizioni neoconservatrici che dopo l’11 settembre inizieranno a farsi strada all’interno dell’amministrazione Bush, cercherà di mantenere fede alla sua promessa, di servire il paese e la sua bandiera, anche quando dovette adeguarsi, probabilmente, alla volontà di affrontare una nuova guerra, quella in Iraq. Sarà proprio con l’avvio della nuova campagna irachena che la sua stella entrerà in un cono d’ombra da cui non è mai uscita.
Sulla sua lunga e vincente carriera peseranno per sempre, e gli verrà ricordato e rinfacciato anche con lo scherno, quelle sue affermazioni, di fronte al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, nel dibattito sul possibile intervento in Iraq contro il regime di Saddam Hussein, accusato di disporre di armi di distruzione di massa. Una scena di cui resterà emblematica quella provetta da lui mostrata, nel tentativo di convincere molti degli altri rappresentanti presenti, riluttanti e perplessi. Sappiamo come è andata la storia, sulla guerra e la provetta, e Colin Powell ha pagato amaramente, come pochi altri tra i suoi colleghi, quella vicenda e gli errori commessi. Una guerra e una iniziativa, quella verso l’Iraq, di cui lui stesso, si dice, fosse poco convinto. Un’iniziativa diventata unilaterale, contro quello stesso multilateralismo di cui invece lui era stato protagonista e artefice solo 2 anni prima. Nel suo caso il prezzo pagato per questa vicenda è stato elevatissimo, e ha segnato per sempre il resto della sua vita e la sua immagine pubblica.
Powell non prese parte al gabinetto del secondo mandato di Bush Junior. Ritiratosi dalla scena pubblica ha continuato a pagare amaramente gli errori commessi in Iraq, e soprattutto il peso delle sue affermazioni all’ONU. Nel 2008 sostenne Obama, primo candidato afroamericano alla presidenza e poi, dopo l’elezione di Trump, non mancherà di fare sentire la sua voce critica, di moderato e conservatore sempre fedele alla bandiera e alle istituzioni del suo paese, di fronte al nuovo presidente, che vedeva forse così distante dalla tradizione del GOP. Anche nell’ultima campagna elettorale, quella più difficile e combattuta, non ha mancato di sostenere Joe Biden, ritrovandosi con altri ex colleghi di partito critici verso Trump e anche, con il suo ex presidente George W Bush.
Si è spento, a 84 anni, debilitato da un tumore, per complicazioni derivanti dal Covid. Per quanto rimasto nell’ombra, negli ultimi anni, e nonostante il peso degli ultimi errori commessi, questo uomo che per alcuni sarebbe anche potuto diventare ben prima di Obama il primo candidato afroamericano alla Presidenza, resta pur sempre un esempio della forza del sogno americano, ma anche di fedeltà al proprio paese, nel perfetto solco della tradizione di quei tanti militari che nella storia dell’America dopo gli anni in uniforme hanno proseguito il proprio impegno in politica. Restando fondamentalmente dei servitori dello Stato.

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