La crisi sudanese e i suoi risvolti politici

Dalla rivoluzione contro al-Bashir all’utopia democratica sudanese: il rapporto tra civili e militari, le divisioni interne alle due componenti e i fatti del 25 ottobre

Dopo diversi giorni di ampie e violente manifestazioni soprattutto nella capitale, la mattina del 25 ottobre 2021 forze militari fedeli al Presidente dell’ormai dissolto Consiglio Sovrano, il generale Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, hanno arrestato i leader civili del governo di transizione, tra cui il Primo Ministro Abdallah Hamdok e sciolto lo stesso Consiglio Sovrano, organo che avrebbe dovuto guidare la transizione del Paese fino alle prossime elezioni precedentemente previste nel 2024. Contestualmente forze miliari hanno fatto irruzione nel quartier generale dell’emittente statale, a Omdurman, prendendo possesso dell’edificio; il generale al-Burhan ha quindi dichiarato lo stato d’emergenza, mentre militari e forze paramilitari sono state schierate in tutta la città, l’aeroporto di Khartoum è stato chiuso e i voli internazionali sospesi. Con l’arresto del Primo Ministro, il controllo delle emittenti televisive (e anche della radio) e la chiusura dello spazio aereo, i fatti del 25 ottobre 2021 si configurano nella sostanza come un vero e proprio nuovo colpo di stato nel Sudan post Bashir.

In seguito al colpo di stato ai danni di Bashir nell’aprile del 2019, la formazione di un Consiglio Sovrano misto e l’inizio di un dialogo tra le due sue componenti, civile e militare, aveva comportato un generale ottimismo circa l’avvio di un processo di democratizzazione nel Paese dopo il trentennio di Omar al-Bashir. Tuttavia, a ormai due anni dall’inizio della transizione nazionale, in ragione della pressoché totale immobilità dei vertici e date le crescenti tensioni al loro interno, pressanti si erano fatti i dubbi circa le possibilità concrete e a lungo termine degli sviluppi di tale processo. De facto, nonostante gli accordi, il dialogo militare-civile non aveva condotto alla definizione di un chiaro e condiviso quadro per un futuro sviluppo democratico o quantomeno per una stabilizzazione istituzionale di lungo periodo. Per tutte queste ragioni, dunque, gli eventi del 25 ottobre non giungono certamente inaspettati: nonostante le varie dichiarazioni fatte negli ultimi anni dalla componente militare, infatti, e la buona volontà dimostrata da alcune fazioni, i militari difficilmente avrebbero accettato di sottoporsi al controllo dei civili soprattutto avvicinandosi al previsto passaggio dei poteri all’interno del Consiglio Sovrano e alle elezioni del 2024. In tale contesto già precario, nelle ultime settimane diversi episodi avevano, poi, evidenziato un più rapido deterioramento della situazione politica sudanese e soprattutto avevano posto l’accento sulla crescente e irrimediabile frattura all’interno degli organi transizionali.

Escludendo le criticità strutturali del Sudan, come ad esempio quelle economiche, le quali pesano naturalmente su qualsiasi processo di transizione politica, indubbiamente la principale difficoltà che ha inciso sull’operatività degli organi di transizione è stata quella legata all’esistenza, al loro interno, di molteplici anime, principalmente riconducibili alle due menzionate componenti, una civile e a una militare, ciascuna con un proprio programma d’azione e soprattutto con una specifica strategia di lungo termine. Semplificando le innumerevoli posizioni, possiamo dire che ciascuna delle due fazioni ha cercato in questi anni di assicurarsi il massimo guadagno durante il periodo di transizione così da arrivare alle elezioni del 2024, previste dagli accordi, in una posizione di superiorità. La principale dicotomia è nella forza che concretamente i due schieramenti detengono per raggiungere i propri obiettivi: se da un lato, infatti, i civili hanno mantenuto indubbiamente “il potere delle piazze”, dall’altro i militari hanno sempre avuto dalla loro parte quello delle armi. In questo senso, dunque, i rapporti tra le due componenti, sono stati influenzati, oltre che dalle discussioni politiche interne al Consiglio Sovrano, anche da quanto accaduto sul terreno. Allo stesso modo, anche nel nuovo contesto apertosi con il golpe del 25 ottobre occorrerà valutare la risposta che i militari daranno nel caso di una nuova, probabile, intensificazione dei fenomeni di insorgenza di piazza (situazione a cui si è già assistito nelle ore immediatamente successive al coup d’état); l’eventuale riproporsi di nuovi episodi di estrema violenza contro i civili, come già accaduto nel 2019 dopo il colpo di stato ai danni di al-Bashir e prima che si giungesse alla definizione di un accordo di transizione tra civili e militari, potrebbe, infatti, far degenerare la situazione fino a una vera e propria rivoluzione civile con conseguente brutale repressione da parte dei militari.

Se dunque il primo clivage è indubbiamente quello tra civili e militari, è pur vero che in entrambe le fazioni che hanno fino a questo momento guidato la transizione possono riconoscersi elementi potenzialmente distorsivi della loro stabilità nel breve periodo. Con riferimento alla componente civile che ha guidato la transizione almeno fino al golpe del 25 ottobre, il principale attore-cappello, il Forces of Freedom and Change (FFC), non integra tutte le diverse anime della società sudanese e in ogni caso la componente civile rappresentata dall’FFC appartiene comunque alla cosiddetta “élite del Nilo” (“Triangolo di Hamdi”) già precedentemente al potere a cui storicamente si oppongono, anche manu militari, i gruppi etnici periferici, soprattutto nelle aree del Kordofan, del Blue Nile e del Darfur. La profonda mancanza di unità sul fronte civile è stata palesata anche da alcune manifestazioni in cui si sono scontrate tra di loro diverse fazioni precedentemente appartenenti al cappello dell’FFC: in particolare ci si riferisce alla manifestazione del 16 ottobre che ha richiesto lo scioglimento del governo di transizione di Hamdok per incapacità di gestire la situazione sudanese, supportando contestualmente la fazione militare. A questa manifestazione pro-militari ha partecipato, a supporto dei militari dunque, anche una gruppo scissionista dell’FFC.

La stessa componente militare risulta divisa al suo interno almeno in due diversi centri di potere e interessi: da una parte, le Sudanese Armed Forces (SAF), comandate proprio da al-Burhan, al momento leader del colpo di stato del 25 ottobre 2021; dall’altra la componente rappresentata dai circa 20-40.000 uomini integrati nelle Rapid Support Forces (RSF) guidate da Mohamed Hamdan Daglo, detto “Hemetti”, vice-presidente del dissolto Consiglio Sovrano. Nonostante l’attuale matrimonio di convenienza tra al-Burhan ed Hemetti, intesa che sembra al momento resistere anche nel contesto del nuovo colpo di stato (secondo le informazioni disponibili infatti, le RSF sono state schierate insieme alle SAF per il controllo della situazione), esistono numerosi fronti di tensioni tra le due fazioni militari, i quali possono sostanzialmente riassumersi nella evidente superiorità di quella che, nei fatti, si configura come una milizia paramilitare operante al di fuori dalla struttura delle SAF. Nel 2013 al-Bashir ha riorganizzato l’attività delle milizie filo-governative operanti nel Darfur (precedentemente gli uomini delle attuali RSF facevano, infatti, parte dell’ormai dissolta milizia Janjaweed); da allora le RSF operano in maniera sostanzialmente autonoma, sebbene fino alla caduta di al-Bashir sotto la giurisdizione dei servizi di Intelligence e sicurezza nazionali. Dal punto di vista pratico, poi, secondo le informazioni disponibili, le RSF pagherebbero stipendi più alti, pur non avendo mai frequentato nella maggior parte dei casi, compreso lo stesso Hemetti, le accademie militari e non avendo dunque seguito la classica carriera militare. Tale crescente risentimento da parte soprattutto degli alti ranghi dell’esercito nei confronti delle RSF rischia di aumentare le tensioni all’interno della componente militare, con ovvie conseguenze anche sul futuro equilibrio politico del Paese soprattutto qualora i militari dovessero, dopo il golpe del 25 ottobre, diventare i soli artefici del futuro politico del Sudan. Proprio per cercare di arginare il potere di Hemetti, al-Burhan, nel più generale contesto di ridefinizione dell’apparato di sicurezza nell’ambito della transizione così come fino al 25 ottobre in corso, ha progressivamente aumentato le pressioni verso una integrazione di tutte le milizie armate para-militari nell’esercito regolare sudanese. Incorporare la RSF nell’esercito eliminerebbe, tuttavia, l’autonomia finanziaria, militare e politica del gruppo, minacciando la leadership di Hemetti, i suoi privilegi e i suoi interessi (tra i quali in particolare il controllo delle miniere d’oro nella regione del Darfur). Non a caso Hemetti ha già dichiarato pubblicamente in diverse occasioni di non voler procedere all’integrazione delle proprie forze in un futuro esercito regolare unitario. Tale strategia potrebbe ipotecare il processo di riforma del settore della sicurezza e compromettere le possibilità di una ristrutturazione dell’apparato statuale sulla base del principio del legittimo monopolio della forza in capo a istituzioni nazionali effettive. La mancata integrazione delle RSF aprirebbe, infatti, anche il vaso di Pandora relativo al processo di integrazione di tutte quelle diverse milizie attive nel Paese che si oppongono al potere centrale, in particolare nelle aree del Kordofan, del Blue Nile e del Darfur, e che soltanto in parte sono, sotto la coalizione ombrello Sudanese Revolutionary Front, firmatarie dell’accordo con il Consiglio Sovrano dell’ottobre 2020 noto come Juba Declaration.

Già prima dei fatti del 25 ottobre, la crescente instabilità della transizione era stata evidenziata dal fallito tentativo di golpe del 21 settembre 2021, evento che ha infatti accresciuto le tensioni tra le componenti dell’autorità di transizione e che con ogni probabilità ha portato ai fatti di ottobre; secondo diversi osservatori, infatti, il tentativo di golpe di settembre potrebbe essere stato anche una sorta di prova generale da parte dei militari per poter meglio valutare la risposta delle piazze a una simile eventualità. A settembre al-Burhan ed Hemetti hanno accusato la fazione civile, di essere colpevole di aver creato le condizioni ottimali per un aumento dei fenomeni di eversione interna e finanche per eventuali colpi di stato, proprio in ragione della loro opposizione al ruolo dei militari nella protezione del cammino del Sudan verso la democrazia. La componente civile dell’FFC non solo ha rigettato le accuse ma ha affermato che erano stessi militari a rappresentare una minaccia diretta alla transizione democratica invocando la possibilità di chiudere definitivamente il dialogo in corso. Il 26 settembre, pochi giorni dopo il presunto tentativo di golpe, al-Burhan ha quindi ordinando alle sue truppe di ritirarsi dalla protezione della sede del Committee for Dismantling the June 30 1989 Regime, Removal of Empowerment and Corruption and Recovery of Public Funds, incaricato di recuperare i fondi pubblici rubati dal regime al-Bashir e di smantellare le reti di potere informale preesistenti (tra i provvedimenti presi da al-Burhan dopo il golpe dl 25 ottobre si segnala anche la sospensione dei lavori di tale comitato). Probabilmente con questa decisione al-Burhan ha inteso dimostrare pubblicamente quale sia il ruolo dell’esercito e conseguentemente quanto le SAF siano indispensabili per consentire la sicurezza della stessa transizione e per assicurare lo smantellamento del precedente regime e dei suoi sostenitori.

Soprattutto nelle settimane precedenti il golpe, inoltre, la strategia seguita almeno da una parte dell’élite militare sembra essere stata quella di ricollegare l’opposizione sudanese ai militari all’azione dei membri dell’al-Ikhwan al-Muslimum (Fratellanza Musulmana) fedeli all’ex regime di al-Bashir. Nonostante alcune contraddizioni, come ad esempio l’arresto di Hassan Abdallah al-Turabi o il complesso sviluppo dei rapporti delle Fratellanza con il regime post 1999, in generale il colpo di stato di al-Bashir nel 1989 è sempre stato visto come coincidente con l’ascesa al potere dei Fratelli Musulmani; per altro, lo stesso al-Bashir aveva frequentato corsi di formazione e di cultura islamica organizzati dalla Ikhwan. Delegittimare in toto l’opposizione, ricollegandola in particolare all’Ikhwan sudanese, e contestualmente seguire una specifica linea strategia, all’interno della quale ad esempio si inserisce il processo di riconciliazione con Israele, potrebbe fornire, ancor di più nel contesto post 25 ottobre, una legittimazione della componente militare agli occhi in particolare della comunità internazionale e di quelli attori, anche regionali, che sono notoriamente nemici della Fratellanza. Recuperando la tradizionale e precostituita dinamica autorità-Ikhwan, i militari potrebbero sempre più adottare una contro-narrazione basata sulla radicalizzazione della contestazione di piazza e più in generale di qualsiasi forma di opposizione, sia tra i civili sia all’interno della stessa componente militare, che non sia compatibile con l’indirizzo della fazione maggioritaria che andrà da ora in poi a guidare il Paese. In questo modo si veicolerebbe un messaggio relativo alla volontà e alla capacità da parte della sola componente militare al potere di ricostruire un sistema moderno lontano dalle ideologie islamiste e dal concetto di “islamizzazione dall’alto” propugnato dal fondatore della Fratellanza sudanese.

A rafforzare la doppia narrazione adottata dai militari, quella relativa alla sicurezza e quella relativa al pericolo dell’islam radicale, hanno contribuito gli eventi del 28 settembre e del 4 ottobre 2020 quando membri delle forze di sicurezza sono state uccise in due diversi raid contro una cellula affiliata allo Stato Islamico (Islamic State – IS) nel quartiere meridionale di Jabra della capitale Khartoum. Il 29 settembre, il gruppo jihadista al-Ressali Movement for Preaching and Combat – Wilayat Sudan, che aveva già rivendicato la responsabilità del fallito tentativo di assassinio del primo ministro sudanese Abdalla Hamdok nel marzo 2020, ha rivendicato l’omicidio dei membri dei servizi segreti sudanesi del 28 settembre, negando tuttavia qualsiasi collegamento a IS e sottolineando, al contrario, che il nesso stabilito dalle autorità sudanesi tra l’operazione e l’organizzazione IS è da considerarsi una mera copertura mediatica. I giornali sudanesi hanno poi rivelato che il capo della cellula sarebbe stato Akram Abdel Badih Ahmed Mahmoud, un egiziano condannato a morte in contumacia in Egitto per precedenti tentativi di attacchi e ricollegato dalle stesse autorità egiziane alla Fratellanza. Sebbene potenzialmente casuale, la coincidenza del tentativo di colpo di stato e di simili operazioni di sicurezza ha fornito alla componente militare il pretesto per confermare l’opinione di al-Burhan secondo cui la transizione democratica ha bisogno della protezione dell’esercito, pena il rischio di vedere il Sudan diventare una nuova safe home per gruppi estremisti di varia natura.

La concomitanza del presunto colpo di stato e dello smantellamento delle cellule terroristiche non ha fatto che aumentare l’incertezza e l’instabilità politica del Paese in un contesto già segnato, come visto, da preoccupanti tensioni politiche tra la componente civile e quella militare e da divisioni al loro stesso interno. I fatti del 25 ottobre, dunque, si inseriscono in questo quadro estremamente delicato, facendo venire meno l’intero processo di transizione così come fino a oggi delineato. In particolare ci si riferisce a quelli che, da accordi, sarebbero dovuti essere i prossimi step della transizione, quali il passaggio dei poteri all’interno del Consiglio Sovrano (come detto, ormai sciolto) e le stesse elezioni previste per il 2024 (a tal proposito si segnala che al-Burhan ha già pubblicamente annunciato che le elezioni si svolgeranno nel luglio del 2023). Sebbene in fieri, la situazione creatasi attualmente in Sudan sembra determinare la presa definitiva del potere da parte delle fazioni militari, sopprimendo nella sostanza l’esperimento di transizione mista precedentemente in atto. D’altro canto se è ipotizzabile un allontanamento definitivo dal processo politico sudanese della fazione civile, è altrettanto verosimile che i militari, seguendo una strategia utilitaristica, potrebbero cooptare nel processo politico che si aprirà da oggi in poi esclusivamente quelle fazioni civili inclini a sostenere le pretese dei militari stessi, sia in termini di potere politico sia in termini di potere economico. Si ricorda a tal proposito, infatti, che nonostante l’accordo sul Military Divestment del marzo 2021 l’esercito continua a preservare il proprio potere di controllo e i propri benefici in ampi settori dell’economia sudanese; proprio la tutela di tali interessi è sicuramente un dato fondamentale da tenere in considerazione anche qualora dovessero effettivamente tenersi elezioni nel 2023. Se dunque, riprendendo quanto detto precedentemente, il primo clivage che andrà a incidere sugli sviluppi futuri della situazione in Sudan sarà quello relativo al rapporto tra civili e militari, non meno importante, e anzi determinate nel momento in cui i militari sembrano assumere l’intero controllo della situazione, sarà l’equilibrio di potere all’interno della generale fazione militare. Come visto, i motivi di tensione tra le SAF e le RSF sono numerosi e radicati, poiché tutelano interessi particolaristici e ormai acquisiti delle singole componenti; a questi si aggiungono poi gli interessi specifici di tutte le altre milizie armate del Paese, soltanto in parte integrate nella precedente transizione tramite la Juba Declaration.

A. Roberta La Fortezza


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