Dall’intervento in Afghanistan alla Dottrina Bush: l’America in guerra contro il terrorismo

 

A venti anni di distanza, l’inizio della Guerra globale al terrore dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001. L’analisi di Enrico Casini, Direttore di Europa Atlantica, per la pubblicazione “2001-2021: Vent’anni di guerra al Terrore (Ed. START Insight)

L’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 aveva colto di sorpresa gli Stati Uniti nella loro interezza (istituzioni, opinione pubblica, intelligence, difesa) producendo uno shock enorme, paragonabile, come impatto e dimensione, solo a quello dell’attacco a Pearl Harbor del 1941. Fu subito evidente, non solo all’opinione pubblica americana, che per quanto il nemico che aveva condotto l’attacco fosse un soggetto non statuale, il paese dovesse mettere in campo una reazione efficace e immediata, anche se le modalità non furono immediatamente chiare.

Nel giro di poco tempo furono appurate le responsabilità degli attacchi, riconducibili al network terroristico di Al Qaeda, e divenne chiaro che l’obiettivo principale di questa reazione sarebbe stata proprio l’organizzazione terroristica fondata da Osama Bin Laden, che aveva insediato il grosso della sua struttura nel “santuario” dell’Afghanistan. Un nuovo tipo di guerra si profilava forse all’orizzonte, in quello scorcio di inizio millennio.

Il Presidente George W. Bush, eletto neanche un anno prima dopo un complicato testa a testa con il candidato democratico Al Gore, si era ritrovato, contro ogni previsione e soprattutto contro quanto era stato previsto al momento della sua candidatura, a dover guidare un paese ferito verso una probabile nuova fase di conflitti, diversi da quelli degli anni Novanta, e verso una nuova stagione della politica internazionale. Lui che in realtà era stato eletto sulla base di un programma incentrato sulla politica interna doveva invece fare i conti con la necessità di una nuova proiezione internazionale da parte degli Stati Uniti.

L’America, e non solo, si sentiva di fatto in guerra. Il paese si strinse indubbiamente intorno alla sua guida politica, il Commander in Chief, e ai suoi simboli istituzionali più certi, attendendo una reazione rapida a quanto era avvenuto. Come evidenzia Carlo Jean, “l’effetto geopolitico più rilevante dell’11 settembre è stato quello di mobilitare il patriottismo dell’opinione pubblica americana, di aumentare il sostegno al governo federale e di consentire all’amministrazione di assumere impegni all’estero che sarebbero stati impossibili.”[1]

Infatti, in meno di un mese, forti anche della solidarietà degli alleati e della comunità internazionale, riuscirono a costruire un’ampia coalizione multinazionale pronta a sostenerli in questa nuova battaglia lanciata contro il terrorismo jihadista. Ma la “war on terror” si annunciava fin da subito come molto difficile. La caccia ad Al Qaeda e ai suoi leader si sarebbe subito dimostrata molto complessa e i confini stessi di questa nuova guerra si presentavano da subito come incerti.

Già negli anni Novanta il tema dei conflitti asimmetrici era entrato nel dibattito strategico-militare. Ma dopo questi attacchi, di fatto, il nuovo millennio iniziava con un nuovo conflitto, condotto contro nemici non-convenzionali e non-statuali ma non in un singolo scenario locale o non in un contesto circoscritto di insorgenza, bensì contro una minaccia mutevole e asimmetrica come il terrorismo jihadista che però poteva agire sul piano sia locale che globale, colpendo anche in casa propria con strumenti impensabili, come quattro aerei di linea, anche attraverso l’impiego di kamikaze, in un quadro geopolitico e di sicurezza che stava cambiando rapidamente e di cui il terrorismo era una della tante possibili manifestazioni di potenziale minaccia.

Per quanto fosse noto che la dirigenza qaedista si trovasse tutta in Afghanistan da alcuni anni, sia la diffusione del suo network terroristico nel mondo, che la situazione politica stessa afghana, avrebbero potuto creare non poche difficoltà all’intervento militare. Ciò non significava che, date la gravità dell’attacco e la persistenza della minaccia rappresentata dal terrorismo jihadista e dai suoi sostenitori, non fosse necessario condurre un’azione militare, oltre che agire a livello politico, diplomatico, economico, per sconfiggerlo.

Il 20 settembre[2], davanti al congresso, George W. Bush presentò con chiarezza la linea che la sua amministrazione, improvvisamente ritrovatasi in mezzo ad una guerra completamente nuova e diversa da quelle del passato, avrebbe condotto contro un nemico la cui capacità di colpire era imprevedibile e non convenzionale. I terroristi, in particolare l’organizzazione di Al Qaeda, rappresentavano una minaccia per la sicurezza globale oltre che per la democrazia e la libertà. Attaccando gli Stati Uniti, e i simboli del loro potere economico e politico, avevano attaccato al cuore l’Occidente e l’ordine liberale internazionale. Bush lanciò un ultimatum molto netto al regime talebano, affinché consegnasse l’intera dirigenza qaedista e procedesse a smantellare i campi di addestramento presenti in Afghanistan. E non ebbe timore a far capire che gli Stati Uniti non si sarebbero fermati in nome della propria sicurezza nazionale, dando avvio ad una nuova politica di guerra al terrore, di cui la caccia ad Al Qaeda sarebbe stata solo una parte. Una politica che inevitabilmente avrebbe interessato anche la revisione delle leggi nazionali in materia di sicurezza: fu così che in poco tempo venne approvato lo US Patriot Act.

I piani dell’intervento militare in Afghanistan furono definiti in tempi molto rapidi, durante il mese di settembre, mentre parallelamente si preparava, sul piano internazionale, un’ampia coalizione di paesi pronti a seguire gli Usa in questa nuova, e inevitabile, campagna contro il terrore. Inevitabile, perché senza una risposta immediata le organizzazioni terroristiche avrebbero potuto colpire ovunque, anche in altri paesi. Non a caso il ricorso all’azione militare fu sostenuto subito da tutti paesi alleati, a partire dalla stessa NATO, in un’ottica di forte consolidamento dei legami transatlantici e di solidarietà reciproca. Nei mesi successivi la NATO avviò un processo di profondo rinnovamento strategico e organizzativo, che la portò non solo verso un ulteriore processo di allargamento verso est, ma anche a dialogare con la Russia, proprio nel settore della lotta comune al terrorismo jihadista, che interessava e minacciava direttamente anche la Federazione russa[3].

La minaccia jihadista aveva dimostrato la sua pericolosità sul piano internazionale e non più entro i confini di alcuni stati del Medio Oriente, Africa o Estremo Oriente dove si era manifestata maggiormente negli anni Ottanta e Novanta. Ma non si poteva affrontare un simile conflitto senza una coalizione internazionale ampia, e senza aver agito, anche sull’area mediorientale, per assicurare l’appoggio di paesi strategici come il Pakistan che confinava con l’Afghanistan e aveva da sempre avuto un rapporto molto stretto con esso[4]. Così come era necessario che Russia e Cina, che hanno tuttora problemi con gruppi jihadisti in casa propria, presenti nel consiglio di sicurezza dell’ONU, non fossero contrarie ad un’azione di forza, che andasse oltre la semplice azione di polizia internazionale.

Anche per questi motivi, con l’obiettivo di colpire con durezza i covi e i rifugi dei terroristi per distruggere la loro base logistica, l’intervento in Afghanistan poté essere progettato rapidamente e senza ostacoli internazionali. Il Presidente Bush aveva anche ribadito che l’azionenon si sarebbe fermata solo ad Al Qaeda: la war on terror quindi si annunciava non breve e si sarebbe poi rivelata molto difficile. L’Afghanistan era un obiettivo molto complesso: un paese impervio, sostanzialmente privo di infrastrutture e dove era assente una statualità solida, diviso al suo interno tra etnie e tribù che nella loro storia erano state spesso in guerra tra loro, devastato da venti anni di continui conflitti, iniziati di fatto con le tensioni interne al paese, alla fine degli anni Settanta, a cui era seguita nel 1979 l’invasione Sovietica e i dieci anni di guerra di liberazione.

La strategia che si intendeva seguire avrebbe previsto l’appoggio agli uomini dell’Alleanza del Nord, gruppi e milizie afghane avverse ai Talebani, impegnati sul terreno e assistiti sul campo da squadre di Forze speciali e da una massiccia copertura aerea. Successivamente, gli USA e gli alleati disponibili avrebbero messo sul campo anche forze di terra per la fase di stabilizzazione e controllo del paese. L’operazione, che si presentava come molto difficile, aveva come obiettivo principale la neutralizzazione dei santuari terroristici presenti in un territorio, quello afghano, dove era sostanzialmente assente una statualità solida. L’Afghanistan dei Talebani, noti al mondo per le loro violenze, le persecuzioni, la repressione, oltre che rifugio dei terroristi qaedisti, era anche uno dei principali produttori di oppio al mondo, un paese posto in una posizione geograficamente strategica di incrocio tra imperi e interessi geopolitici diversi da secoli, che ne aveva fatto nel tempo l’obiettivo delle mire di diverse potenze dell’area, ma sempre difficile da conquistare e, soprattutto, da controllare nella sua interezza[5].

Dopo il rifiuto dei talebani di consegnare i leader di Al Qaeda, il 7 ottobre, con i primi bombardamenti aerei, l’attacco ebbe inizio. L’operazione militare fu chiamata Enduring freedom (libertà duratura) e anticipava quello che sarebbe diventato uno dei capisaldi, nei mesi successivi, della dottrina che avrebbe preso il nome da Bush stesso: la promozione e la difesa della libertà e della democrazia anche attraverso l’uso della forza.

Lo stesso giorno in cui i primi bombardieri si levarono verso le montagne e gli altopiani afghani, al Jazeera trasmise una dichiarazione di Osama Bin Laden, registrata prima dei bombardamenti americani, la prima dichiarazione del leader di al Qaeda dopo l’11 settembre[6]. Pur non rivendicando la responsabilità degli attacchi Bin Laden ne celebrava l’importanza, come si fosse trattata di una punizione divina disposta contro l’America, e si scagliava, ancora una volta, contro i regnanti arabi schierati al fianco degli Americani. L’intervento manifestava quindi come l’attacco non fosse stato pensato solo nella logica del jihad globale contro il “nemico lontano”, ma anche per attaccare indirettamente i regimi arabi locali, rei di essersi messi al seguito degli “infedeli”. Confermando anche che l’idea di colpire il “nemico lontano” era profondamente legata al vero obiettivo strategico dei jihadisti, ovvero il rovesciamento dei “nemici vicini”.

L’appello di Bin Laden si rivolgeva direttamente a tutti i musulmani, nell’idea di una sorta di sollevazione generale, di mobilitazione dei fedeli, contro quelli che Bin Laden e la retorica qaedista individuavano e incolpavano come i responsabili dei mali subiti dal mondo islamico negli ultimi ottanta anni. Al Qaeda ambiva ad essere la guida dell’avanguardia di fedeli che avevano avuto il coraggio di colpire il nemico così profondamente dimostrandone la vulnerabilità. Ma il suo appello aveva probabilmente anche lo scopo di avvertire Stati Uniti e alleati, e di consolidare il ruolo di Al Qaeda e della sua leadership come guida del movimento jihadista. Ma la risposta che giunse, in maniera massiccia, non fu una sollevazione popolare bensì l’attacco all’Afghanistan e l’avvio della global war on terrorism, che avrebbe cambiato profondamente anche la sua stessa organizzazione. Ovviamente la grande maggioranza dei musulmani rifiutarono la violenza terroristica e la sollevazione non avvenne. Quando pochi anni dopo, nel 2011, il Medio Oriente fu travolto da un’ondata di rivolte e proteste di piazza non fu certo per seguire i richiami del jihadismo.

L’azione militare contro l’Afghanistan fu giustificata ricorrendo all’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, con la partecipazione di una coalizione internazionale di circa 70 paesi, di cui 27 contribuirono con propri uomini e mezzi; l’operazione enduring freedom si sarebbe dovuta sviluppare in quattro fasi diverse[7] che videro all’inizio una rapida progressione sul campo e condussero in poche settimane di combattimenti intensi, il 9 dicembre, alla liberazione della città di Kabul. In questo stesso periodo, fu condotta anche la celebre operazione contro l’organizzazione terroristica di Al Qaeda, principalmente nella zona di Tora Bora, orientata alla cattura dei suoi leader, che in quell’area impervia del territorio afghano avevano cercato riparo. Infatti, nel mese di novembre quella zona particolarmente montuosa e ricca di grotte naturali fu sottoposta ad un massiccio bombardamento aereo e divenne teatro di un violentissimo scontro, che non fu sufficiente però ad assicurare Bin Laden alla cattura.

In due mesi la coalizione guidata dagli Usa era riuscita a conquistare i punti focali del territorio afgano, distruggere i campi di addestramento, i centri di potere talebani e cacciare molti dei terroristi. La prima fase della lotta contro Al Qaeda si era conclusa con una vittoria, che aveva però mancato alcuni obiettivi rispetto alle attese degli inizi, poiché non era riuscita ad eliminare o catturare Osama Bin Laden e l’altro leader dell’organizzazione, il medico egiziano Ayman Al Zawahiri (colui che dopo la morte di Bin Laden nel 2011 lo avrebbe sostituito alla guida dell’organizzazione).

Adesso doveva avviarsi il processo di stabilizzazione politica e di state building dell’Afghanistan, in un contesto, va ricordato, diverso da quello incontrato precedentemente da britannici e sovietici. Il paese fu interessato da un complesso processo di riorganizzazione delle sue istituzioni e di definizione di nuovi assetti di potere, mentre una serie di risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU cercavano di prefigurare un possibile percorso da seguire. Nel momento in cui si avviavano queste complesse attività di riorganizzazione dell’inesistente stato afghano, in un contesto in cui storicamente la statualità era stata sempre molto fragile se non assente, le operazioni militari erano continuate e si era strutturata la presenza della comunità internazionale, per accompagnare il processo di pacificazione del paese, attraverso soprattutto ISAF. Questa operazione, cui parteciparono molti paesi alleati – tra cui l’Italia, con il ruolo di uno dei maggiori contributori – fu diversificata rispetto ad Enduring Freedom, e passata sotto il comando NATO, per quella che sarebbe diventata una delle più difficili missioni internazionali dell’Alleanza. Si trattava di un’operazione complessa, integrata nel tempo anche dall’apporto di civili e diplomatici, che progressivamente estese il campo territoriale di controllo e di intervento all’interno del paese, che però visse fasi alterne, anche a causa degli altri conflitti in cui le truppe americane furono coinvolte negli anni successivi soprattutto tra il 2003 e il 2008 in Iraq. Nel 2011 raggiunse il suo massimo, con un numero di circa 130 mila uomini impiegati sul campo[8], per poi ridursi progressivamente negli anni successivi, fino al momento della sua fine nel 2014 e del passaggio a Resolute Support, che aveva compiti ben diversi e soprattutto di preparazione, assistenza e addestramento delle forze di sicurezza afghane.

Enduring Freedom nel tempo andò esaurendosi, nonostante le attività di guerriglia messe in campo dai Talebani fossero proseguite anche nei mesi e negli anni successivi, tanto che, di fatto, l’Afghanistan non fu mai completamente pacificato e la complicatissima opera di stabilizzazione del paese e di ricostruzione del suo tessuto civile e politico proseguì lentamente, con difficoltà, tra continui focolai di resistenza e di insorgenza talebana e terroristica che esplodevano.

L’operazione militare in sé, comunque sia, rispecchiò pienamente i nuovi concetti strategici bellici, di cui nel corso degli anni Novanta si era ampiamente discusso soprattutto negli ambienti militari e accademici americani per quanto riguardava la cosiddetta RMA (Revolution in Military Affairs)[9]. Infatti, il suo modello sarebbe stato poi di grande supporto e importanza per la pianificazione delle operazioni successive che il Governo americano stava programmando: ormai all’interno dell’amministrazione Bush l’Afghanistan era sempre più considerato un problema superato, forse eccedendo in ottimismo, nonostante l’operazione non fosse risultata un successo in tutti i suoi aspetti, presentasse ancora delle incognite e alcune zone territoriali fossero di difficile controllo.

L’amministrazione Bush, comunque, anche in virtù della nuova dottrina strategica presentata nel settembre 2002 contenuta nella National Security Strategy[10], che sarebbe passata alla storia come “Dottrina Bush” (le cui linee essenziali erano già state anticipate dal Presidente in un suo celebre discorso all’Accademia di West Point[11]), stava ormai indirizzando il proprio interesse verso l’Iraq, con il rischio però di distogliere risorse dalla missione afghana (tema su cui per anni, fino ad oggi, si è prodotto un intenso dibattito tra analisti) e rischiando di ridurre così il proprio impegno in quel teatro[12].Ma l’amministrazione presidenziale risultava esserecondizionata ormai sempre di più dagli orientamenti dei neoconservatori presenti al suo interno[13], i quali nel tempo avevano fatto emergere progressivamente con forza le loro idee al suo interno riuscendo a condizionare molte delle scelte di politica estera del paese.

I neocons erano esponenti di una corrente politico/intellettuale già emersa negli anni Settanta nel contesto della Guerra Fredda, influenzati dalle idee del filosofo Leo Strauss, di cui facevano parte figure come Paul Wolfowitz, Richard Perle, Robert Kagan, Daniel Pipes. Alcuni rappresentanti neocons erano membri dell’amministrazione, come Wolfowitz, ma si trattava di una corrente rimasta a lungo ai margini del Partito Repubblicano, storicamente più allineato, sui temi della sicurezza e della politica estera, intorno alle posizioni nazionaliste e a quelle della scuola realista, di cui il principale esponente rimaneva ancora Henry Kissinger. I neocons avevano idee per certi versi innovative e rivoluzionarie, tanto che si sarebbe poi parlato di “rivoluzione neocon”, e pur partendo da una posizione marginale riuscirono a sfruttare il clima scaturito nel paese dopo l’11 settembre per fare emergere le loro proposte e condizionare sempre di più l’agenda di governo, grazie anche alle simpatie di due figure tutt’altro che marginali dell’amministrazione, come il Vicepresidente Dick Cheney e il Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld.

La nuova prospettiva strategica americana, frutto della visione neocon di politica estera e di sicurezza, avrebbe portato verso un progressivo passaggio dalle azioni multilaterali, come l’intervento in Afghanistan, a quelle di impronta unilaterale, come sarebbe stata poi la Guerra in Iraq, anche attraverso il ricorso alla guerra preventiva, in nome della volontà manifestata apertamente, nei documenti e negli interventi pubblici dei neocons, di promuovere un change nei regimi dittatoriali ed esportando la democrazia e la libertà. Un approccio interventista, a livello internazionale, che rifiutava sia il realismo classico che il multilateralismo. Una posizione, criticata anche in patria, che applicata alla politica estera dell’amministrazione Bush avrebbe prodotto alcune scelte come l’intervento in Iraq, ma anche attriti e tensioni a livello transatlantico, posizione che poi sarebbe stata superata dalle amministrazioni successive.

Il modello operativo offerto da Enduring Freedom avrebbe comunque dato un serio contributo all’elaborazione dei piani di applicazione di Iraqi freedom. Ma proprio con il manifestarsi della possibilità di un intervento in Iraq, nelgiro di pochi mesi, il quadro strategico e politico, anche intorno agli Stati Uniti, mutò profondamente. L’ampia coalizione che aveva sostenuto l’intervento in Afghanistan iniziò a perdere pezzi, e tra gli Stati Uniti di Bush, lanciati verso un secondo intervento in Iraq, e alcuni paesi alleati, si aprì una crisi nei rapporti che rese più difficili le relazioni. Fu in questa fase che Donald Rumsfeld, Segretario alla Difesa e grande protagonista della Seconda Guerra del Golfo, aveva parlato di “Vecchia Europa” rivolgendosi ai paesi contrari all’intervento. Nonostante diversi tentativi (il più celebre dei quali resta probabilmente l’intervento di Colin Powell al Consiglio di Sicurezza dell’ONU con l’esposizione della famosa fiala), non fu possibile incassare il sostegno delle Nazioni Unite alla nuova azione contro l’Iraq di Saddam Hussein, primo paese dell’“Asse del male” contro cui si sarebbe dovuta rivolgere l’azione americana. Nonostante queste difficoltà, con un’ampia opposizione anche a livello di opinione pubblica e pur senza l’appoggio internazionale ricevuto in occasione dell’intervento in Afghanistan, l’azione andò avanti e portò alla Seconda Guerra del Golfo, nel marzo del 2003. Un nuovo intervento che nel giro di poche settimane vide l’abbattimento del regime dittatoriale di Saddam, ma non l’inizio di una nuova fase di pace per l’Iraq. Anzi, negli anni successivi anche a causa di alcuni errori commessi nella gestione della fine del regime stesso, in Iraq si sviluppò un movimento di insorgenza molto violenta in cui si inserirono anche elementi jihadisti come Al Zarkawi.

Mentre la guerra avanzava verso nuovi teatri mediorientali, che nonostante la fulminante vittoria iniziale non si sarebbero rivelati affatto facili negli anni successivi e non avrebbero dato seguito allo sperato “effetto domino” immaginato sulla regione dai neocons, in Afghanistan permasero invece conflittualità diffuse e difficoltà di stabilizzazione del paese, mentre i Talebani progressivamente si riorganizzavano e tornavano a minacciarne sempre di più la sicurezza. La missione NATO, avviata nel paese con il contributo di molti alleati tra cui l’Italia, ha garantito a lungo, in ampie porzioni del territorio, stabilità e sicurezza, anche al prezzo di un elevato numero di caduti e di feriti.

Per quanto riguarda la lotta al terrorismo,una significativa svolta avvenne nel maggio 2011 con la morte di Osama Bin Laden. A quel punto, dopo il cambio di amministrazione presidenziale a favore del democratico Barack Obama, con le nuove priorità strategiche delineate dalla nuova amministrazione sul piano della politica estera (per esempio la Cina) e il superamento della Dottrina Bush in tutti i suoi aspetti molto criticati anche in patria, si iniziò realmente a immaginare un disimpegno e un ritiro possibile dall’Afghanistan.

Nel 2011 le truppe americane presenti in Afghanistan erano al massimo storico, dopo il ritiro dall’Iraq, ma il sostegno alla missione era sempre più ridotto nell’opinione pubblica americana. Il tema del ritiro sarebbe rimasto all’ordine del giorno, dal 2012, di presidente in presidente, fino ad oggi. Sarebbero stati infatti necessari altri dieci anni, la firma degli accordi di Doha con Donald Trump, fino all’inizio della Presidenza Biden, per lasciare definitivamente il teatro afghano. Intanto, in questi dieci anni, la guerra al terrore aveva ormai preso strade nuove e anche con protagonisti (e mezzi) in parte diversi. Si pensi all’emergere del fenomeno ISIS/Daesh.

Quello in Afghanistan è stato un intervento i cui obiettivi, iniziati con la guerra globale al terrorismo, sono nel tempo cambiati più volte, adattandosi ai mutamenti di contesto internazionale e di strategia da un’amministrazione presidenziale ad un’altra, passando dai neocon di Bush alla visione più realista ma orientata al multilateralismo di Obama, all’America First di Donald Trump, fino a oggi, nel tempo della competizione globale tra USA e Cina e la crisi pandemica.

In Afghanistan, è giusto ricordarlo, circa 2400 soldati americani hanno perso la vita, insieme a centinaia di altri uomini e donne alleati e decine di migliaia di afghani. Dopo venti anni, la continuazione della missione, a meno di una prosecuzione indefinita nel tempo e del rischio di assistere di nuovo a un aumento di conflittualità nel paese, era diventata per ogni presidente americano, non solo per l’opinione pubblica, di fatto politicamente insostenibile. Ma senza ricordare gli attacchi dell’11 settembre 2001, il loro impatto geopolitico globale e la guerra al terrore avviata da George W. Bush, richiamando anche il clima politico e le visioni strategiche che ne furono alla base, non sarebbe possibile comprendere le ragioni, politiche e militari, dell’intervento in Afghanistan e delle successive missioni internazionali che hanno visto gli USA e i loro alleati impegnati – compresa anche tutta l’intricata vicenda irachena, che ha avuto un’importanza fondamentale sotto molti aspetti, le cui ripercussioni sono state visibili e tangibili fino ai nostri giorni.

Fatti e conflitti, seguiti agli attacchi terroristici del settembre 2001, che hanno contribuito, nel giro di venti anni, ad accelerare il cambiamento geopolitico in corso nell’area del Medio Oriente, iniziato con la fine della Guerra Fredda, e tuttora in corso.


[1] Jean, C., Geopolitica del XXI secolo, Laterza, Bari, 2004.

[2] È possibile consultare il testo dell’intervento del Presidente George W. Bush davanti al Congresso il 20    settembre 2001 a questo link: https://catalog.archives.gov/id/134607502.

[3] Loth, W., Tensioni Globali. Una storia politica del mondo 1945-2020, pp. 209-210, Einaudi, Torino, 2021.

[4] Bariè, O, Dalla guerra fredda alla grande crisi. Il nuovo mondo delle relazioni internazionali, Il Mulino, Bologna, 2013.

[5] Per una ricognizione sulla storia dell’Afghanistan e delle diverse guerre afghane si consigliano Breccia, G., Le Guerre afghane, Il Mulino, Bologna, 2014 e Battisti, G. e Saini Fasanotti, F., Storia militare dell’Afghanistan, Mursia, Milano, 2014, e inoltre Giunchi, E., Afghanistan. Storia e società nel cuore dell’Asia, Carocci, Roma, 2002 e, infine, Coll, S., Ghost Wars: The Secret History of the CIA, Afghanistan, and bin Laden, from the Soviet Invasion to September 10, 2001, Penguin, London, 2019.

[6] O. Bin Laden, Dichiarazione ad Al Jazeera, 7 ottobre 2001.

[7] Si veda Battisti, G. e Saini Fasanotti, F., op. cit., p. 101.

[8] Per una descrizione più approfondita delle diverse missioni in Afghanistan si rimanda a Battisti, G. e Saini Fasanotti, F., op. cit.

[9] Beccaro, A., La guerra in Iraq, p. 15, Il Mulino, Bologna, 2013.

[10] National Security Strategy of The United States of America, September 2002, testo originale consultabile all’indirizzohttps://www.state.gov/documents/organization/63562.pdf.

[11] https://georgewbush-whitehouse.archives.gov/news/releases/2002/06/20020601-3.html.

[12] Bariè, O., op. cit.  p. 207.

[13] Per un approfondimento sull’origine delle teorie neocon si veda per esempio Kepel, G., Fitna. Guerra nel cuore dell’Islam, pp. 38-70, Laterza, Bari, 2004.

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