Le strategie di contrasto alla radicalizzazione e deradicalizzazione in Europa: dai primi anni duemila ai giorni nostri

 

L’analisi di Francesco Conti per la Pubblicazione “2001-2021: Vent’anni di guerra al terrore”

Alcuni degli attentati più recenti posti in essere da singoli jihadisti in Europa hanno fatto emergere il problema dell’importanza dell’effettivo disingaggio dalla violenza, se non vera e propria deradicalizzazione, per coloro che sono finiti in carcere per reati riconducibili all’ideologia del salafismo-jihadista. Il 29 novembre 2019, Usman Khan, considerato il simbolo di un programma di reintegro sociale per ex-detenuti, accoltellò a morte due persone durante un evento di presentazione del programma stesso a Londra. Pochi mesi dopo, sempre nella capitale britannica, Sudesh Amman, già condannato per terrorismo e che aveva rifiutato di prendere parte ad un programma di deradicalizzazione, attuò un altro attentato all’arma bianca.[1] Infine, nel novembre 2020, Kujtim Fejzulai, finito precedentemente in carcere per aver tentato di unirsi allo Stato Islamico in Siria, uccise quattro persone nel centro di Vienna. Anch’egli, come Khan, aveva affrontato, apparentemente con successo, un programma di deradicalizzazione ed uno di reintegro che gli avevano fruttato un’uscita anticipata dal carcere, nonostante l’opposizione della procura viennese[2].

Programmi di prevenzione della radicalizzazione e di deradicalizzazione in Europa sono ormai presenti da più di un decennio nei principali paesi del continente e tale dimensione è espressamente menzionata dalle istituzioni dell’Unione quale componente fondamentale della lotta al terrorismo, anche nella nuova 2020 – 2025 Counter Terrorism Agenda della Commissione Europea, che pone specifica enfasi sulle misure di riabilitazione e reintegrazione degli ex terroristi, assieme al contrasto all’ideologia radicale sul web e al ruolo chiave giocato dalle comunità locali nella lotta alla radicalizzazione[3]. Anche a livello internazionale, il contrasto alla radicalizzazione è assurto a dimensione chiave per la lotta al terrorismo. Le stesse Nazioni Unite hanno redatto, nel 2015, un piano di azione per la prevenzione dell’estremismo violento, riconoscendo la necessità di un approccio onnicomprensivo al contrasto al terrorismo, che sia capace cioè di andare al di là delle mere misure di sicurezza e sia in grado di andare alla radice dei fattori chiave che danno vita all’estremismo violento[4].

Gli attentati di Londra del 7 luglio 2005 furono un campanello d’allarme per i paesi europei. Infatti, i quattro giovani attentatori suicidi di al-Qaeda non erano più terroristi stranieri provenienti dal Medio Oriente, ma erano anzi figli della cultura occidentale, tutti provenienti da famiglie integrate nella società britannica, segno che il radicalismo incubava da tempo all’interno del continente. La stessa strategia antiterrorismo adottata dal Consiglio Europeo a distanza di pochi mesi dagli attentati di Londra si focalizzava, per la prima volta a livello dell’Unione, sulla necessità di non lasciare il contrasto al terrorismo totalmente in mano alle misure repressive di carattere penale, ma, di introdurre anche misure di prevenzione per affrontare il problema dell’ideologia e della radicalizzazione[5]. In realtà, le prime misure di contrasto alla radicalizzazione britanniche furono lanciate ben due anni prima dell’attentato del 2005, facendo del Regno Unito il primo paese, a livello europeo, ad avere una propria strategia ufficiale di P/CVE (Preventing and countering violent extremism), nata con lo scopo specifico di combattere il radicalismo islamista all’interno delle proprie comunità[6]. La strategia britannica di contrasto al terrorismo (CONTEST), ideata dall’ex direttore del GCHQ (l’agenzia di intelligence del Regno Unito deputata alla signal intelligence) ha quindi, da più di diciotto anni, fra i suoi quattro pilastri chiave[7] anche la prevenzione e il contrasto alla radicalizzazione attraverso misure cosiddette “soft” (cioè che non prendano in considerazione sanzioni penali), sotto l’ombrello della sigla PREVENT. Nello specifico, gli interventi posti in essere nel Regno Unito evidenziati dalla versione 2018 di CONTEST hanno posto enfasi sulla rimozione del materiale inneggiante al jihad presente online e alla protezione dei minorenni dalla radicalizzazione sul web, riuscendo ad evitare che molti di essi venissero reclutati dallo Stato Islamico, per pianificare potenziali attacchi futuri su suolo britannico o, in misura maggiore, per raggiungere le zone di conflitto in Siria o Iraq[8].

Esempio emblematico di tale preoccupante fenomeno è stato rappresentato dal “Bethnal Green trio”, tre teenagers londinesi, Shamima Begum, Amira Abase e Kadiza Sultana, che nel 2015 abbandonarono il proprio paese per unirsi al califfato e sposare foreign fighters.[9] Le ragazze erano state radicalizzate principalmente online, anche tramite assidui contatti con reclutatrici femminili dello Stato Islamico sui social media[10], che avevano lo specifico compito di sfruttare le vulnerabilità personali di tali ragazze per radicalizzarle e plasmarle in future “jihadi brides”. Shamina Begum, rintracciata nel 2019 nel campo di prigionia di al-Hawl in Siria,[11] dove si trova tuttora dopo che il governo britannico ha deciso di revocarle la cittadinanza, non può per tale motivo beneficiare di un programma di deradicalizzazione, eventualmente anche dopo aver scontato una possibile condanna per reati di terrorismo.

Punto importante di PREVENT è infatti la sua capacità di intervenire con misure tailor-made, adatte al singolo caso di specie, attraverso il programma denominato CHANNEL. Tale strumento, utilizzato proprio per la sua natura flessibile, si basa sulla figura di un “mentore” (di norma proveniente dalle forze dell’ordine)[12] in grado di rilevare i primi segni di radicalizzazione nell’individuo seguito e di predisporre, con l’ausilio di altri attori (inclusi membri dell’intelligence ma anche insegnanti o personale sanitario), un piano di intervento specifico di deradicalizzazione[13]. Proprio per quanto riguarda il personale sanitario, l’NHS (National Health Service, il servizio sanitario nazionale inglese), svolge un ruolo importante anche in PREVENT. Medici ed infermieri svolgono infatti corsi specifici per individuare i primi segni di radicalizzazione nei loro pazienti, soprattutto in coloro che sono affetti da patologie mentali o dipendenze. In questo ambito ha fatto scuola il caso di Nick Reilly, britannico convertito all’Islam e successivamente radicalizzatosi che, nel 2008, tentò di farsi esplodere in un ristorante dell’Exeter. Il soggetto era precedentemente passato per una struttura di cura per persone con disturbi mentali e si pensa che tali vulnerabilità personali abbiano giocato un ruolo importante nel suo passaggio all’estremismo violento[14].

Anche i paesi nordici, Danimarca, Norvegia e Svezia, sono stati tra i primi a sperimentare e porre in essere programmi di contrasto alla radicalizzazione nel primo decennio negli anni 2000. Nonostante il numero minore di attentati jihadisti subiti rispetto a nazioni come il Belgio, la Francia e il Regno Unito, la pubblicazione, nel 2005, di vignette satiriche sul profeta Muhammad da parte di un giornale danese aveva aumentato l’allerta dell’antiterrorismo locale. Allo stesso modo, l’uscita di simili caricature da parte dell’artista svedese Lark Vilk due anni dopo portò a simili reazioni, anche in seguito a violente proteste e le minacce da parte di al-Qaeda[15]. Per contrastare l’aumento dei casi di radicalizzazione, i tre paesi sono intervenuti con specifiche strategie, a livello sia nazionale che locale. La Svezia, ad esempio, ha sfruttato esistenti programmi di coesione sociale, anche a livello scolastico, che erano stati costituiti negli anni Novanta per far fronte alla criminalità giovanile di ideologia neonazista[16]. In Danimarca, seguendo l’esempio britannico, sono stati vagliati programmi di intervento mirati, anch’essi con il contributo congiunto della polizia, i servizi di sicurezza (PET o Politiets Efterretningstjeneste) e dei servizi sociali, dove l’expertise dei primi ha potuto integrare la conoscenza delle specifiche problematiche locali da parte dei secondi[17]. Anche in Norvegia, i servizi di intelligence della polizia (PST o Politiets sikkerhetstjeneste) svolgono un ruolo decisivo negli interventi di contrasto alla radicalizzazione dei più giovani a rischio[18].

Venendo invece a nazioni più vicine a noi, sia l’Austria che la Francia hanno posto in essere strategie ufficiali di contrasto alla radicalizzazione.  In Francia, all’indomani dell’annus horribilis del 2015, l’Eliseo decise di costituire un piano nazionale per combattere la radicalizzazione, poi più volte aggiornato, anche per far fronte agli eventi sul terreno, come l’arrivo dei primi returnees dal Siraq o dal gran numero di arresti da parte dell’antiterrorismo francese, che ha portato attenzione al problema della deradicalizzazione in carcere.[19] La strategia francese ha la peculiarità di basarsi sulla laicità dello stato (laïcité), principio fondante della Repubblica che impone allo stato un ruolo sempre neutrale nei confronti di ogni credo religioso. Ciò, da un lato, evita che le comunità musulmane si possano sentire prese di mira dai programmi di contrasto alla radicalizzazione, contribuendo ad un clima più disteso; dall’altro, la mancanza totale di discussioni in materia di islamismo in ambito di P/CVE,[20] porta ad ignorare un fattore che, in alcuni individui, può essere determinante per il loro passaggio all’estremismo violento. Nel nostro paese, invece, lo stato (attraverso il Ministero dell’Interno) ha optato per un atteggiamento più “interventista” (ovviamente senza intaccare la libertà di culto), arrivando a siglare, nel 2017, un Patto nazionale per un Islam italiano, che ha fra i suoi specifici obiettivi anche quello di “Proseguire nell’azione di contrasto dei fenomeni di radicalismo religioso”[21].

Per quanto riguarda l’Austria, la sua strategia di contrasto alla radicalizzazione è una creazione recente. Infatti, per la sua genesi si è dovuto aspettare la costituzione, nel 2017, del BNED, organo federale costituito proprio per la prevenzione, il contrasto all’estremismo violento e la deradicalizzazione. Come ammesso dalle stesse autorità austriache, tale ritardo nella pianificazione di una strategia centrale ha però fatto sì che esse potessero beneficiare di importanti documenti precedentemente pubblicate a livello internazionale ed europeo, come la United Nations Counter Terrorism Strategy e le linee guida del Radicalisation Awareness Network in seno alla Commissione Europea[22]. La strategia austriaca enfatizza come sia necessario prendere in considerazione eventi sia locali che globali (come, ad esempio, conflitti armati o la politica estera di un paese), che possono concorrere, insieme ad elementi personali, a contribuire alla radicalizzazione di un individuo. Inoltre, soprattutto con l’ascesa dello Stato Islamico, sono entrati in gioco anche fattori di radicalizzazione totalmente “laici”, come quelli legati ad una mancata integrazione sociale[23]. Per tale motivo sono sempre più presenti, a livello europeo, strategie di deradicalizzazione multidisciplinari, ove imam, ad esempio, affiancano esperti dei servizi sociali o psicologi.

Per quanto riguarda l’Italia, ancora carente di una disciplina nazionale in ambito di contrasto alla radicalizzazione e deradicalizzazione (nonostante le raccomandazioni a livello europeo)[24], un tentativo di creare un framework unitario era stato fatto nel 2016, con la presentazione della proposta di legge Dambruoso – Manciulli “Misure per la prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista”. Il testo conteneva anche una prima definizione del termine “radicalizzazione”, un concetto che, similmente a quello di terrorismo, non ha univoco significato per i diversi paesi[25]. Nell’iniziativa del 2016, la “radicalizzazione” era definita come “i fenomeni che vedono persone simpatizzare o aderire manifestamente ad ideologie di matrice jihadista, ispirate all’uso della violenza e del terrorismo, politicamente o religiosamente motivati”[26].

Tale proposta di legge introduceva per la prima volta strutture specializzate per contrastare il fenomeno, sia a livello centrale che regionale, nella forma di un “Centro Nazionale sulla Radicalizzazione” (a carattere strategico e di indirizzo) e di “Centri di Coordinamento Regionali sulla Radicalizzazione”. Così come dimostrato dai programmi posti in essere in Danimarca e nel Regno Unito, che si fondano sulla presenza di esponenti della società civile, ONG, dei servizi sanitari e di esperti di religione e di dialogo culturale, anche la proposta di legge puntava su un approccio decentralizzato, enfatizzando l’apporto degli attori locali in grado di attivarsi e rispondere più rapidamente al singolo caso di radicalizzazione. Tale carattere multidisciplinare della proposta di legge ricalcava inoltre il già citato, che consigliava agli Stati Membri di dotarsi di strategie nazionali in grado di sfruttare il potenziale sia degli attori governativi che di quelli provenienti dalla società civile[27]. Inoltre, la proposta di legge aveva evidenziato anche l’importanza della rete e delle carceri come campi di battaglia ideologici, predisponendo disposizioni ad hoc per il contrasto alla radicalizzazione nei due contesti. Come si è potuto vedere nel caso dello Stato Islamico, la presenza digitale è stato uno dei punti fondamentali per il successo non solo propagandistico, ma anche per quanto riguarda il reclutamento da parte del califfato. Le carceri, invece, data la presenza sia di detenuti per reati di terrorismo e di criminali comuni, magari provenienti dalle stesse aree del Medio Oriente di cui sono originari i primi, possono rappresentare una criticità dal punto di vista della radicalizzazione[28] e necessitano quindi di personale addestrato nell’intervenire all’esteriorizzarsi dei primi segni di avvicinamento all’ideologia jihadista, come dimostrato anche dalla costituzione di uno specifico working group sulle prigioni all’interno del Radicalisation Awareness Network.


[1] Douglas Weeks, Lessons Learned from U.K. Efforts to Deradicalize Terror Offenders, CTC Sentinel, marzo 2021, p. 33.

[2] Johannes Saal & Felix Lippe, The Network of the November 2020 Vienna Attacker and the Jihadi Threat to Austria, CTC Sentinel, febbraio 2021, p. 35.

[3] Commissione Europea, A Counter-Terrorism Agenda for the EU: Anticipate, Prevent, Protect, Respond, 9 dicembre 2020, pp. 6-8.

[4] Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Plan of Action to Prevent Violent Extremism, A/70/674, 25 dicembre 2015, paragrafo 6, p. 2.

[5] Oldrich Bures, EU Counterterrorism Policy: A Paper Tiger?, (Ashgate, 2011), pp. 71-72.

[6] Lorenzo Vidino & James Brandon, Countering Radicalization in Europe, International Centre for the Study of Radicalisation and Political Violence, 2012, p. 11.

[7] La Strategia CONTEST è formata da quattro pilastri fondamentali (le cosiddette 4 P), che delineano altrettanti punti di intervento per il contrasto al terrorismo. Prevent riguarda appunto la prevenzione e il contrasto alla radicalizzazione (non solo islamista); Pursue riguarda invece le misure investigative e di intelligence; Protect include gli strumenti per proteggere obiettivi sensibili quali aeroporti, edifici governativi e spazi pubblici; Prepare, infine, si riferisce alle misure in grado di mitigare i danni causati da attentati e di aumentare la resilienza della società britannica.

[8] HM Government, CONTEST: The United Kingdom’s Strategy for Countering Terrorism, giugno 2018, 31.

[9] Simon Cottee, ISIS and the Pornography of Violence, (Anthem Press, 2019), p. 43.

[10] Mallory Shelbourne, “Islamic State’s female jihadists use social media to lure women recruits”, The Long War Journal,27 febbraio 2015, disponibile su https://www.longwarjournal.org/archives/2015/02/islamic-state-female-recruits-use-social-media-to-lure-recruits.php.

[11] Tale campo di detenzione per ex membri dell’ISIS e le loro famiglie, sotto il controllo delle Syrian Defence Forces, è caratterizzato da sovraffollamento e scarse condizioni igieniche, sanitarie (amplificate anche dalla pandemia di COVID-19) e di sicurezza (non sono rare infatti le fughe dal campo). Data la presenza di un numero elevato di soggetti ancora radicalizzati e sotto sorveglianza non troppo stretta, tra cui molte donne con figli minori, il campo di al-Hawl potrebbe rappresentare un problema di sicurezza internazionale nei prossimi anni.

[12] Supra, nota 6, p. 19.

[13] Supra, nota 8, pp. 38-39.

[14] NHS Department of Health, Building Partnerships, Staying Safe: The health sector contribution to HM Government’s Prevent strategy: guidance for healthcare workers, 2011, p. 8.

[15] Petter Nesser, Islamist Terrorism in Europe (Hurst & Company, 2018), p. 201.

[16] Institute for Strategic Dialogue, European Counter-Radicalisation and De-radicalisation: A Comparative Evaluation of Approaches in the Netherlands, Sweden, Denmark and Germany, pp. 10-12

[17] Supra, nota 6, p. 52.

[18] OSCE, Preventing Terrorism and Countering Violent Extremism and Radicalization that Lead to Terrorism: A Community-Policing Approach, 2014, p. 136.

[19] République Française Le Gouvernement, “Prevent to Protect” National Plan to Prevent Radicalisation, 23 febbraio 2018, p. 20.

[20] ISPI, Deradicalization in the Mediterranean: Comparing Challenges and Approaches, 2018, p. 33.

[21] Patto Nazionale per un Islam Italiano, Espressione di una Comunità Aperta, Integrata ed Aderente ai Valori e Principi dell’Ordinamento Statale, p. 2. Disponibile su https://www.interno.gov.it/sites/default/files/patto_nazionale_per_un_islam_italiano_1.2.2017.pdf.

[22] Bundesweites Netzwerk Extremismus-pravention und Deradikalisierung, The Austrian Strategy for the Prevention and Countering of Violent Extremism and Deradicalisation, 2019, p. 7.

[23] Andrea Sperini, L’attrattiva del califfato sulle seconde generazioni. Identikit del terrorista europeo, GNOSIS: Rivista Italiana di Intelligence, 1/2017, pp. 59-60

[24] Ibid., p. 24.

[25] Peter R. Neumann, The Trouble with Radicalization, International Affairs, 2013, p. 874.

[26] Proposta di legge C.3558-A, art.1.2.

[27] Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Plan of Action to Prevent Violent Extremism, A/70/674, 25 dicembre 2015, paragrafo 44 (a), p. 12

[28] Analisi Difesa, “Dambruoso: ‘il terrorismo islamista non è sconfitto’ ”, Analisi Difesa, 5 febbraio 2021, disponibile su https://www.analisidifesa.it/2021/02/dambruoso-il-terrorismo-islamista-non-e-sconfitto/.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *