Ascesa (e declino) del sedicente Stato Islamico

 

L’ascesa e la sconfitta territoriale del sedicente Stato Islamico. Il racconto di Enrico Casini e Andrea Manciulli per la pubblicazione realizzata in collaborazione tra Europa Atlantica e START Insight

L’ingresso delle milizie di Daesh nella città di Mosul, nel mese di giugno 2014, rappresentò uno dei fatti più significativi nella storia dell’islamismo jihadista dai tempi dell’11 settembre 2001, permettendo al gruppo guidato da Abu Bakr Al Baghdadi di raggiungere rapidamente la fama internazionale [1].

Le milizie armate di Daesh iniziarono a controllare uno snodo strategico, vista l’importanza della città di Mosul e delle sue infrastrutture, potendo rivendicare il controllo su una grande porzione di territorio, a cavallo tra la Siria e l’Iraq, per larga parte abitata da popolazioni sunnite, in paesi dove il resto della popolazione era a maggioranza sciita.

Oltre alla sua importanza politica e simbolica, la conquista di Mosul ebbe un’eco vastissima in tutto il mondo e permise agli uomini di Al Baghdadi anche di fare cassa, entrando in possesso delle riserve monetarie presenti nelle banche cittadine[2], e di appropriarsi di molti dei materiali e degli armamenti che l’esercito iracheno aveva lasciato sul terreno. Ma, probabilmente, l’effetto più significativo della presa di Mosul fu l’uso propagandistico e simbolico che, soprattutto attraverso il web, Daesh riuscì a farne. Non a caso, proprio da Mosul, il 29 giugno 2014, Abu Bakr Al Baghdadi, durante le celebrazioni per l’inizio del Ramadan[3], proclamò il ritorno del Califfato. Un passaggio non banale, nell’ottica della stessa retorica jihadista, che segnerà anche negli anni successivi un elemento di forte differenziazione con i gruppi qaedisti e larga parte dei teorici dell’islamismo radicale. Autoproclamando il ritorno del Califfato, e se stesso come nuovo Califfo, Al Baghdadi produce una cesura audace, non casuale, con la storia del jihadismo, che va in parallelo con l’idea di dare vita ad uno Stato Islamico[4]. Ripristinando l’esistenza di un’istituzione, quella califfale appunto, che era scomparsa nel 1924 in corrispondenza con la fine dell’Impero Ottomano e la nascita degli stati nazionali in Medio Oriente e aveva portato anche alla frantumazione della comunità dei fedeli nelle diverse entità statuali che adesso, il nuovo Stato Islamico, si sarebbe candidato a superare.

Non a caso, una delle prime iniziative mediatiche adottate fu la distruzione, simbolica, di un tratto di confine tra Siria e Iraq, nel territorio controllato dai miliziani jihadisti, come a voler ribadire la volontà di superare quei confini, imposti dagli occidentali nel 1917.

Ovviamente l’autoproclamazione califfale da parte di Al Baghdadi non ebbe alcun riconoscimento nel mondo musulmano: nessun leader politico o casa regnante ne riconobbe l’autorità, la grandissima maggioranza dei musulmani non la riconobbe e molti autorevoli giuristi la contestarono anche sul piano formale. Ma ebbe comunque un evidente valore politico, nel mondo jihadista, nel segno della volontà di osare un avanzamento rispetto alla teoria e alla pratica qaedista, rivendicando un ruolo geopolitico diretto con la creazione di un proprio stato nel cuore del Medio Oriente e candidandosi a guidare la galassia jihadista rimasta orfana di Bin Laden.

Dal 1924 nessuno tra i leader e i regnanti arabi o islamici avevano mai rivendicato il titolo califfale. Gli islamisti, fin dagli anni Venti e Trenta del Novecento, in Egitto con la Fratellanza musulmana o in India con i movimenti fondati da Maududi, e poi, via via, con tutti i teorici e gli ideologi dell’islamismo politico, avevano   aspirato sul piano ideale alla sua rinascita. Ma rifondare il Califfato non era operazione semplice, rappresentava il tentativo di una riunificazione in chiave religiosa e non nazionale di tutta la comunità dei fedeli, liberando le terre sacre dell’Islam sia dai governi nazionalisti filoccidentali che dai paesi occidentali stessi. Una aspirazione che anche i più radicali, o gli stessi jihadisti, vedevano eventualmente possibile in tempi molto lunghi, quasi come un orizzonte ideale. 

Negli anni, la lotta dei movimenti jihadisti si era molto localizzata, nei singoli paesi, uniformandosi di fatto ai confini del paese in cui erano via via sorti, e la prospettiva della riunificazione califfale era diventata lontana.[5] La priorità, in questa ottica, era liberare i singoli paesi; solo poi, forse, sarebbe stato possibile riunificare la umma. Questo valeva anche per la prospettiva di lungo periodo dei movimenti jihadisti come Al Qaeda, che avevano tradotto la propria strategia terroristica dal piano locale a quello globale, o anche nella visione dello stesso Abdallah Azzam, che pure una sua influenza centrale nell’evoluzione del jihadismo e nella nascita della sua prospettiva transnazionale aveva avuto.

Con il consolidamento territoriale di Daesh attraverso lo Stato Islamico si produsse anche il tentativo di affermare l’autorità di questa organizzazione sul resto del mondo jihadista e anche oltre, su tutto l’universo radicale islamista. Abu Muhammad al Adnani, portavoce di Daesh, affermò: “precisiamo che con questa proclamazione del califfato tutti i musulmani sono tenuti a giurare fedeltà al califfo Ibrahim e a sostenerlo”[6].

La proclamazione del Califfato aveva il senso di conquistare l’egemonia nella galassia jihadista e attrarre quanti più combattenti alla sua causa. Fu un’operazione che però guardava anche oltre, ovvero l’affermazione di una nuova entità geo-politica nel cuore del Medio Oriente, in una regione particolarmente importante per la storia stessa del mondo islamico.

Con questa azione non solo si mirava ad aggredire e delegittimare tutti gli altri governi esistenti nel mondo islamico, che in presenza del califfato non sarebbero teoricamente legittimi, ma si produsse una rottura, di tipo politico e ideologico, con larghissima parte del resto dei movimenti jihadisti e di numerosi teorici dell’islamismo radicale, che non solo non avallavano questo passo, ma neppure ne condividevano la prospettiva e non riconoscevano Al Baghdadi come il legittimo Califfo.

Nonostante il mancato riconoscimento dell’autoproclamato Califfo e del sedicente Stato Islamico, l’operazione lanciata da Daesh ebbe successo, soprattutto sul piano mediatico: lo Stato Islamico divenne la nuova meta della “terza ondata” di jihadisti[7], e sul piano più politico e militare, permise il consolidamento e la strutturazione statuale dell’entità nuova, elemento di rottura rispetto alle altre organizzazioni del jihadismo classico. Così si afferma la volontà di statualizzare l’organizzazione, determinando la costruzione di un’entità reale, non virtuale, dotata di simboli evidenti di natura politica e identitaria, come la bandiera e la moneta, ma anche di una struttura vera e propria, un’amministrazione, un proprio stato sociale, un governo, un territorio da gestire. Inoltre, rispetto alla prospettiva della lotta globale portata avanti da Al Qaeda, Daesh torna anche a ri-localizzare il jihad, pur mantenendo un suo attivismo e una sua prospettiva di tipo transnazionale, imperversando anche sul web e superando le barriere della geografia fisica. Una azione globale condotta con gli strumenti più tradizionali del terrorismo, come le cronache dal 2015 ci hanno tristemente mostrato, ma anche il riconoscimento di altre province sotto la propria autorità, poste fuori dai suoi confini, dalla Libia all’Africa subsahariana, all’Afghanistan all’estremo Oriente.

La lotta globale, alimentata da una martellante propaganda mediatica, è indirizzata anche a colpire gli alleati degli stati mediorientali, quei paesi occidentali che hanno dichiarato guerra al Califfo dopo la sua autoproclamazione e dopo la conquista di Mosul, costituendo e sostenendo la coalizione internazionale.Ma Daesh sviluppò altresì e in particolare una lotta di tipo settario, privilegiando il ritorno al jihad locale contro i governi locali di Siria e Iraq, i regimi filoccidentali, gli sciiti e le altre minoranze religiose, considerati tutti apostati o infedeli[8]. Daesh con il suo agire si inserisce anche nella frattura geopolitica e religiosa tra sunniti e sciiti che divide sempre di più il mondo islamico[9].

In questo scontro, l’autoproclamato Califfato rivendica la sua presenza e si introduce con violenza in questa frattura, cercando di approfittare delle divisioni che oppongono sciiti e sunniti, e anche quelle interne al mondo sunnita, tra fazioni legate a diverse prospettive di tipo politico.

Deriva settaria e aspirazione a tappe forzate a costruire uno Stato Islamico sono, sul piano ideologico, l’eredità più consistente che Daesh ha avuto dal suo primo fondatore, Abu Musab Al Zarqawi. Egli delineò anche metodi e orizzonti sul cui solco l’organizzazione si è mantenuta dopo la sua morte, sostanzialmente rompendo con quanto Al Qaeda cercava invece di imporre alle sue organizzazioni affiliate[10].

Al Zarqawi è stato decisivo per la formazione ideologica di Daesh: con lui si afferma una linea fortemente settaria dell’organizzazione, in nome di un rigidissimo wahabismo e del takfirismo, votata a una lotta violenta e sanguinaria senza scrupolo alcuno contro gli sciiti e contro tutti gli infedeli, come hanno testimoniato dopo l’avvento dello Stato Islamico anche le tremende persecuzioni e le stragi di componenti delle comunità yazide e cristiane in Iraq o gli attacchi contro gli altri sunniti, accusati di apostasia. Sempre con Zarqawi si affermò anche una visione della religione condizionata da toni apocalittici, con venature messianiche e millenaristiche, come testimonia ad esempio la scelta di chiamare la rivista dell’organizzazione Dabiq, ovvero usando il nome del luogo in cui si sarebbero dovute fronteggiare alla fine dei giorni le forze del bene e quelle del male.

L’eredità di Zarqawi – come descrive minuziosamente nel suo lavoro Joby Warrick – si rintraccia infine anche su un altro piano, che con Daesh è enormemente più sviluppato e sfruttato anche degli altri gruppi o organizzazioni jihadiste, Al Qaeda compresa, ovvero sul piano mediatico. I messaggi violenti, brutali, sanguinari che resero Zarqawi tragicamente noto, si sono diffusi in tutto il mondo facendo scuola, e in Daesh hanno avuto una continuazione e uno sviluppo molto ricercato, “professionalizzato”, che ha usato quel tipo di grammatica e quel registro comunicativo, improntato sulla brutalità e l’immediatezza del messaggio, a fronte invece della complessità, della raffinatezza e della ricercatezza che invece erano stati tipici di Al Qaeda.

Per usare un esempio più chiaro, se Bin Laden o Zawahiri usavano farsi immortalare come guerrieri eremiti, e usavano una fraseologia molto ricercata, con messaggi spesso lunghi e articolati, ricchi a volte di metafore e riferimenti simbolici, Zarqawi invece impone uno stile più diretto, più adeguato alla società dell’informazione che vive sul web e i social media. È stato lui a rendere virale l’uso dei video delle esecuzioni, iniziando col famoso video di Nicolas Berg, con tutta la simbologia che esso richiamava: il coltello, la decapitazione, il prigioniero occidentale vestito con la stessa tuta arancione dei detenuti di Guantanamo. E dopo Zarqawi, sarà Daesh a diffondere senza limiti video di esecuzioni di ogni genere, crocefissioni, decapitazioni, esecuzioni di prigionieri per mano di bambini, fino al più violento e celebre dei video diffusi, quello del pilota militare giordano catturato e arso vivo in gabbia.

Il lascito di Zarqawi si misura oltre che sull’aver aperto la strada ad una propaganda diversa da quella della casa madre del tempo, anche sulla volontà di costruire davvero uno Stato Islamico, un nuovo solido rifugio dei jihadisti in Medio Oriente, che tutti, prima di loro, avevano immaginato, promesso, auspicato, ma che nessuno davvero aveva realizzato.

Daesh, con la nascita del sedicente Stato Islamico, inizia la costruzione di quello che secondo la sua visione deviata e integralista doveva diventare lo Stato del “vero Islam”, destinato a ospitare i radicali islamisti di tutto il mondo[11].   Probabilmente Daesh riuscì a mettere a frutto una serie di condizioni favorevoli alla sua ascesa e alla realizzazione di questo progetto, sfruttando certamente la guerra in Siria per allargare le proprie file, dopo aver strappato alcune città e zone di territorio in Siria agli altri gruppi jihadisti e ai ribelli siriani, oltre che al controllo del governo, potendosi poi riversare in Iraq.

La guerra siriana aveva avvantaggiato il suo rilancio e con i numerosi foreign fighters arruolati aveva rinforzato le sue milizie[12]; ma oltre a tutto questo vi sono stati anche altri due fattori decisivi che hanno permesso a Daesh di ascendere così rapidamente, strutturandosi e trasformando la propria azione da quella di un’organizzazione terroristica a quella di un’entità statuale.

I due fattori riguardano la reazione interna alla comunità e alle tribù sunnite dell’Iraq e della Siria, alle politiche settarie e alle scelte persecutorie che i governi iracheno e siriano avevano condotto nel tempo contro di loro. In particolare, in Iraq, i sunniti, abituati a detenere il potere per lungo tempo nel paese, si erano ritrovati disarcionati dal controllo dello stato iracheno a vantaggio degli sciiti, mentre le tensioni tra le due comunità erano enormemente cresciute.

Inoltre, ciò che aveva favorito sia l’espansione che il miglioramento qualitativo sul piano strategico e tattico, militare e non solo, e che aveva favorito l’alleanza con i clan e le tribù sunnite, era stato il connubio che si era creato tra molti membri sunniti del partito Baa’th e dell’apparato di sicurezza di Saddam Hussein e i vertici jihadisti dell’organizzazione di Daesh.

Questo incontro tra soggetti diversi, ma con obiettivi comuni, aveva permesso una pragmatica convergenza di interessi che mirava alla restaurazione del potere sunnita nel paese, almeno nelle aree a maggioranza sunnita, e a trasformare l’organizzazione terroristica di ISI in qualcosa di più strutturato: Daesh appunto.

L’incontro, che si era prodotto nel tempo, tra molti componenti di queste diverse organizzazioni, era stato possibile grazie al carcere di Camp Bucca, dove molti di questi elementi, sia Baa’thisti che jihadisti catturati nei mesi dell’insorgenza irachena antiamericana, si erano conosciuti[13]. Grazie a questo incontro era nata una convergenza, che aveva favorito un’ibridazione reciproca, e messo nelle condizioni Daesh di poter sfruttare l’esperienza e le capacità operative di uomini preparati e competenti su diversi campi di azione: militare, di intelligence, politico e propagandistico.

L’ingresso nelle file di Daesh di uomini provenienti dalla Guardia repubblicana di Saddam o dal partito o dai servizi segreti iracheni, non solo favorì l’alleanza con i gruppi sunniti locali, ma altresì la strutturazione del progetto dello Stato Islamico, una volta dopo aver conquistato il terreno strappato agli sciiti o ai siriani.

Queste figure, che infatti entrano nei ranghi dell’organizzazione jihadista ricoprendo ruoli di rilievo, hanno permesso a Daesh di strutturare lo Stato Islamico permettendogli di affinare la propaganda esterna, la comunicazione, come se si trattasse di un verso strumento di guerra psicologica e mediatica, ma anche di organizzare concretamente i servizi, il welfare, l’economia dello “stato”.

Perché la costruzione dello Stato Islamico, insieme al richiamo religioso e ideologico rappresentato dalla proclamazione del Califfato, ha permesso a Daesh di lanciare una grande operazione mediatica. Il richiamo dei simboli che Daesh ha sfruttato è stato indubbiamente efficace e ha permesso a migliaia di persone, attratte da questo miraggio, cioè dal sogno della propria realizzazione attraverso la partecipazione a questo progetto, di unirsi ad esso, scoprendo una sorta di “nuova utopia” radicale cui votarsi. Il flusso di foreign fighters giunti da tutto il mondo per accrescere le file dello Stato Islamico, resta uno degli elementi più rilevanti di questa nuova stagione del jihadismo. Una mobilitazione globale che ha coinvolto migliaia di persone, con un’età tendenzialmente più giovane rispetto ad altre “ondate” simili. Questa nuova ondata non è costituita solo da migliaia di aspiranti combattenti, ma spesso dalle famiglie dei combattenti, compresi mogli e figli. Daesh promette e garantisce uno stato sociale a famiglie con figli, vedove dei soldati della fede, a giovani donne attratte dalla promessa di poter sposare un miliziano e, infine, anche a personale tecnico, ingegneri, operai, medici, insegnanti, cui veniva promessa la possibilità di esercitare la propria professione contribuendo alla costruzione dello Stato Islamico.

Al tempo, tutto questo ha reso nuovo, concreto e reale il progetto di Daesh, misurabile non solo sulla base delle attività belliche e terroristiche, ma anche attraverso quelle quotidiane. Daesh sviluppa una sua economia, necessaria per autofinanziarsi, che lo rende in gran parte autonomo, anche rispetto al flusso di contributi volontari che da tutto il mondo arabo gli arrivano, clandestinamente, come sostegno alla causa. Chi non può contribuire armandosi e partendo per le sue città, può però contribuire, o combattendo in casa propria oppure economicamente. Ma gran parte degli introiti di Daesh arrivavano dall’economia illegale fatta di contrabbando di armi, di stupefacenti, e di petrolio, estratto dai pozzi conquistati, o di materiale archeologico raccolto nelle città antiche e nei siti distrutti[14].In poco tempo diventa un’organizzazione che può contare su entrate cospicue, una delle più ricche nel panorama internazionale dei gruppi jihadisti[15].

Mentre con la sua efficace comunicazione mostra al mondo lo scempio dei siti “pagani” del passato preislamico della Mesopotamia, di cui la distruzione di Palmyra in Siria è stata una delle azioni più gravi, Daesh è solerte anche nel mostrare con grande dovizia di particolari, sia la propria crudeltà verso gli infedeli e verso i nemici sconfitti, sia la bellezza del nuovo “paradiso” che sta creando, con video di propaganda rivolti alle famiglie. Tutto questo per aumentare il flusso dei foreign fighters e il consenso, ma anche per incutere paura nel nemico, mostrando la ferocia e l’abilità dei suoi combattenti.

Lo Stato Islamico però viene strutturato anche attraverso l’erogazione di un sistema di servizi e la strutturazione territoriale dello stato[16], con una divisione del territorio in varie province (Wilayat), ciascuna governata da un governatore (Wali), sottoposti tutti all’autorità dell’emiro generale, dei suoi vice e del suo gabinetto[17], composto di 7 consiglieri personali, e affiancato da un comandante militare, da tre ministri (per gli affari amministrativi, per la sicurezza e le finanze).

Le province hanno apparati amministrativi e per i servizi preposti alla sicurezza dell’ordine pubblico, all’educazione e agli affari tribali, ma anche deputati per la gestione delle infrastrutture, dei servizi igienici, delle risorse idriche, dell’agricoltura, della manutenzione delle strade, dei diversi servizi essenziali per le popolazioni[18].

Lo Stato Islamico si è poi dotato, ovviamente, di una complessa struttura militare, ben organizzata, che si basa a livello tattico e operativo sul principio dell’indipendenza delle unità militari dispiegate sul campo di battaglia, in grado di condurre operazioni simultanee e coordinate. Un sistema pensato con l’intento di evitare sia nelle strutture operative che in quelle di comando infiltrazioni da parte di servizi di intelligence ostili.

La struttura apicale dell’organizzazione invece era composta da un Consiglio della Shura, un organismo direttivo collegiale composto di una decina di membri nominati dall’emiro generale, il consiglio militare, nominato dall’Emiro e approvato dal consiglio della shura, con il compito di pianificare e gestire le operazioni militari; il consiglio mediatico, di cui Mohammed al Adnani è il portavoce; il consiglio della sicurezza e l’Intelligence, guidato da Abu Ali Al Anbari; il consiglio religioso, che risolve anche le dispute giudiziarie applicando la Sharia; infine, il consiglio per i servizi postali, che gestisce la corrispondenza postale tra le province usando corrieri[19].

La capitale dello Stato Islamico è stata considerata la città siriana di Raqqa, sede degli uffici principali del governo. L’amministrazione finanziaria dello stato prevedeva l’imposizione di tasse e tributi per i territori sottoposti al controllo diretto di Daesh, anche se le fonti principali di reddito dell’organizzazione sono rimaste a lungo i proventi delle loro attività illegali[20]. Ovviamente grande importanza veniva attribuita all’istruzione ed educazione religiosa, e anche sul rispetto della legge islamica, su cui vigilava la Hisba, la polizia religiosa.

Indubbiamente il tentativo di dotare questa entità territoriale nuova di una struttura burocratica non ha necessariamente permesso a Daesh di essere davvero uno stato. I problemi, anche a livello amministrativo, o nel controllo del territorio non sono mancati, così come è mancato un riconoscimento internazionale.

Certamente il tentativo di realizzare uno Stato Islamico di queste dimensioni e in quell’area specifica del Medio Oriente, così importante per la storia islamica e mondiale, ha permesso a Daesh di affermarsi nella galassia jihadista smarcandosi da Al Qaeda, di cui era stato comunque in origine un ramo, per entrare in competizione con essa[21].

Indubbiamente, il richiamo dello Stato Islamico e la restaurazione del Califfato, il cui avvento è capace di abbattere dopo un secolo esatto i confini imposti dall’Occidente con l’accordo Sykes-Picot durante la Prima guerra mondiale, hanno permesso a Daesh di diventare un soggetto guida, nel campo jihadista globale e poter soprattutto sviluppare una propaganda e una comunicazione mediatica molto efficaci e anche molto aggressive. Dopo il suo insediamento, la nascita del progetto territoriale e i suoi successi militari nel teatro siro-iracheno, Daesh ha iniziato a costruire anche una rete di organizzazioni affiliate fuori dai suoi confini, in Libia, Egitto, Afghanistan, Africa Occidentale[22]. Questi elementi hanno permesso di caratterizzare Daesh non più come una semplice minaccia di tipo terroristico, ma come un’evoluzione nuova, nel campo jihadista, e come un’entità molto più complessa, una sorta di mostro a più teste capace di mordere contemporaneamente con tutte. Un tentativo che ha avuto vita breve, ma ha segnato in maniera indelebile un nuovo stadio evolutivo del jihadismo. 

Dopo la sua sconfitta militare, con la caduta delle sue roccaforti in Iraq e Siria, a parte poche piccole enclavi, la sua organizzazione statuale è stata di fatto sconfitta e l’organizzazione, anche a seguito della morte del suo leader nell’ottobre del 2019, ha subito un arretramento sul piano territoriale. Ma la scomparsa dello Stato Islamico non ha eliminato l’organizzazione, ancora viva e vegeta nel mondo. Il “declino” del progetto statuale e la fine del tentativo di autoproclamazione del Califfato, che ha perso terreno a livello territoriale, non hanno significato la fine dell’organizzazione né la rinuncia alle sue aspettative e alle sue attività.

L’organizzazione terroristica dello Stato Islamico è sopravvissuta a livello virtuale e continua a vivere nelle azioni sia di alcune organizzazioni affiliate, insediate localmente, come ISI-K, oppure in alcune delle province sopravvissute alle campagne militari scatenate contro di essa, ma anche, nelle azioni di simpatizzanti ed emulatori che, attraverso la proliferazione del jihad e iniziative spesso individuali, hanno nei mesi continuato a colpire. 

Oggi la vicenda afghana, e la presenza di ISIS Khorasan, continua a manifestare coma la diffusione del brand sia ancora radicata nel mondo e possa godere, in contesti di crisi e di instabilità, della possibilità di un suo rilancio. Di sicuro, per quanto abbia perso Mosul, Raqqa e le altre città conquistate tra il 2013 e il 2014, lo Stato Islamico e la sua rete terroristica, soprattutto attraverso il web, continua ad essere, al pari di Al Qaeda, una delle principali minacce alla sicurezza internazionale. A venti anni dall’inizio della guerra al terrorismo è anche contro gli eredi di Zarqawi e Al Baghdadi, e i loro emuli, e non solo contro quelli di Bin Laden, che questa battaglia dovrà essere condotta.


[1] Burke, J., The New Threat From Islamic Militancy, p. 5, The Bodley Head, Londra, 2015. 

[2] Plebani, A., Jihad e terrorismo. Da Al-Qa’ida all’Isis: storia di un nemico che cambia, p. 56, Mondadori, Milano, 2016.

[3] Burke, J., op. cit., p. 80.

[4] Per un approfondimento sul tema si rimanda al report di Barrett, R., The Islamic State, Soufan Group, 2014.

[5] Kepel, G., Jihad. Ascesa e declino. Storia del fondamentalismo islamico, Carocci, Roma, 2001.

[6] Citazione di al Adnani presente in Plebani, A., op. cit., p. 57.

[7] Gerges, F., ISIS and the Third Wave of Jihadism, in Current History, December 2014.

[8] Gerges, F., op. cit., p. 340.

[9] Roy, O., Il contesto regionale, in Il Medio Oriente che cambia, CIPMO e ECFR, ottobre 2014.

[10] Si veda su questo tema l’ampia analisi presente in Warrick, J., Bandiere nere. La nascita dell’ISIS, La Nave di Teseo, Milano, 2016 e Burke, J., The new threat, op. cit.

[11] Manciulli, A., Daesh: la sfida alla sicurezza regionale e internazionale, p. 5, Rapporto per l’Assemblea parlamentare della NATO, novembre 2015.

[12] Su questo si veda anche l’aggiornamento a Barrett, R., Foreign Fighters on Syria, presente in AA.VV., Foreign Fighters. An updated assessment of the Flow of foreign fighters into Syria and Iraq, The Soufan Group, New York, December 2015.

[13] Manciulli, A., Daesh: la sfida alla sicurezza regionale e internazionale, pp. 8-9, Rapporto per l’Assemblea parlamentare della NATO, novembre 2015.

[14] Barrett, R., The Islamic state, op. cit., pp. 8-10.

[15] Goulet, N., Le financement du terrorism, Rapport pour l’Assemblèe parlamentaire de l’OTAN, avril 2015.

[16] Barrett, R., The Islamic state, op. cit., pp. 24-35.

[17] Manciulli, A., op. cit., p. 15.

[18] Barrett, R., The Islamic state, op. cit., pp. 41-44.

[19] Ivi, p. 17.

[20] Manciulli, A., op. cit., p. 18.

[21] Zelin, A., The War Between ISIS and al-Qaeda for Supremacy of the Global Jihadist Movement, Research Notes di The Washington Institute for Near East Policy, June 2014.

[22] Manciulli, A., op. cit., pp. 27-31.

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