Per interpretare il dramma dell’Ucraina, il realismo politico non basta

Perché le teorie realiste potrebbero non bastare per spiegare le cause del conflitto in Ucraina? Il punto di vista di Lamberto Frontera

Di fronte alla brutale invasione russa dell’Ucraina, in queste settimane, tra analisti ed accademici si è sviluppato un acceso dibattito nel tentativo di inquadrare ciò a cui stiamo assistendo e comprenderne le cause. Taluni, nel tentativo, forse, di attribuire motivazioni totalmente razionali alle scelte di Vladimir Putin e giustificarne l’intervento, hanno recuperato le tesi di John J. Mearsheimer, docente di scienza politica all’Università di Chicago ed influente autore del filone neorealista delle Relazioni Internazionali. Questi, nel 2001 pubblicava The Tragedy Of Great Powers e nel 2014 scriveva un articolo per Foreign Affairs, dal titolo Why the Ukraine Crisis Is the West’s Fault, che il 28 febbraio è stato condiviso dal Ministero per gli Affari Esteri di Mosca su Twitter, come parte della campagna informativa a sostegno dell’intervento armato. D’altronde, il neorealismo offensivo di Mearsheimer fonda le proprie ipotesi sul grande valore attribuito alla sicurezza degli Stati e sulla convinzione che i conflitti internazionali non possano che sfociare in conflitti armati, muovendo dal presupposto che difficilmente nell’area internazionale possa verificarsi un qualche processo evolutivo. Nell’agone internazionale, dove vige l’anarchia, l’unica legge sarebbe la legge del più forte e la stessa politica internazionale non sarebbe null’altro che politica di potenza, incessante lotta tra attori statali per l’egemonia.
Così, in relazione all’invasione russa, in una intervista rilasciata il primo marzo al New Yorker, l’illustre studioso statunitense ha affermato che: “It’s not imperialism; this is great-power politics. When you’re a country like Ukraine and you live next door to a great power like Russia, you have to pay careful attention to what the Russians think.” L’Ucraina, insomma, non sarebbe altro che un attore debole, per quanto orgoglioso, nell’arena internazionale e non potrebbe decidere del proprio futuro, fuoriuscendo dall’orbita di Mosca, perché i rapporti di forza lo impedirebbero. Ciò ricalca il pensiero del primo tra i realisti classici, Tucidide, che ne La guerra del Peloponneso, in relazione alla fiera ma vana resistenza dei Meli, dinnanzi alla potenza di Atene, affermava che: “il metro di giustizia dipende dall’eguaglianza del potere di costringere e dal fatto che il forte fa ciò che ha il potere di fare e il debole accetta ciò che deve accettare.”
È palese che chi scelga di leggere l’aggressione russa attraverso queste lenti – poiché le teorie non possono che offrire delle interpretazioni con cui leggere la realtà delle cose – rischia di commettere tutta una serie di errori politici ed analitici, legati alla natura intrinsecamente contraddittoria di questa teoria ed alla valutazione della situazione geopolitica in sé e per sé considerata.
Il neorealismo offensivo, sebbene sia uno strumento prezioso per comprendere le azioni di quegli attori che leggono la realtà attraverso queste lenti (come probabilmente lo stesso Putin), non può in alcun modo divenire una giustificazione teorica per la risoluzione delle controversie internazionali. Il suo determinismo storico assoluto, che tenta di traslare il rapporto causa-effetto delle scienze dure nel mondo delle relazioni sociali, che non include in sé alcuna variabile esogena che sia in grado mutare il quadro della situazione, non può diventare l’alibi del prepotente, dell’invasore, dell’occupante. L’idea che una grande potenza, indipendentemente da quale sia la sua situazione politica interna e da chi la governi, non possa che agire con una ferrea logica di potenza, imprimendo il proprio volere con l’uso della forza a tutti coloro che non sono abbastanza forti da opporsi, presta il fianco a molte critiche, sia di carattere metodologico, che storico. Il celebre studioso realista Hans Morgenthau, ad esempio, benché realista egli stesso, conferisce un peso decisivo all’arte del governo, alla possibilità di compiere altre scelte, diverse da quelle che l’ordine naturale di rapporti di forza imporrebbe.
Inoltre, se volessimo leggere tutta la storia europea più recente con questa teoria, dovremmo anche sostenere che nel giugno del 1989 l’URSS non avrebbe mai dovuto acconsentire a che Jaruzelski concedesse libere elezioni in Polonia, o anche che nel novembre 1989, in conseguenza di cosa stava accadendo a Berlino, sarebbe dovuta iniziare la rappresaglia sovietica, magari termonucleare, o che nei decenni successivi il processo di integrazione europea non avrebbe dovuto includere tutti quei paesi che erano sotto l’influenza di Mosca o il suo diretto controllo (Germania Est, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Romania, Ungheria, Bulgaria ed Estonia, Lettonia e Lituania).
In tutti questi casi, al paradigma determinista della violenza si contrapposero scelte politiche profondamente diverse, che furono prese nella consapevolezza che il vero senso della storia fosse un altro, che l’interesse russo potesse essere diverso da quello squisitamente sovietico e che l’analisi dei rapporti di forza, fotografando un momento e negando le sue evoluzioni, si presta ad essere uno strumento fin troppo relativo e mai oggettivo. Perché potremmo dire, ad esempio, che un’Unione Europea finalmente coesa in politica estera (come dimostrato anche dallo storico invio di armi ad uno Stato in guerra da parte della Commissione Europea) e quindi sufficientemente compatta da poter essere assimilata ad una grande potenza, peraltro alleata della superpotenza statunitense, possa essere considerata legittimata dal suo stato di forza ad imprimere il proprio volere alla ben più piccola Russia (secondo tutti gli indicatori, tranne che per estensione territoriale), contro la sua volontà.
Ma il determinismo realista, utile nell’analisi storica e predittiva, non si confà alla postura strategica europea. L’Unione ha fondato il successo dell’integrazione europea sui valori irrinunciabili attribuiti alla democrazia ed alla libertà, fondando il proprio consenso sull’adesione delle masse popolari agli ideali ed al benessere occidentali ed allargando i propri confini ogni qual volta l’onda della giustizia scavalcava i muri dell’oscurantismo totalitario. Anche stavolta, uno Stato libero ed indipendente, desideroso di conquistare un futuro migliore, ha iniziato dal 2014 a battersi aspramente, per le strade, a piazza Maidan, per l’Europa e per la libertà. Nessuna forza militare occidentale ha occupato il paese, costringendo Kiev a seguire un destino diverso da quello che Mosca le aveva prospettato o ponendo una imminente minaccia bellica alla Russia. Ma qualcuno, a Mosca, non ha accettato che le aspirazioni di un popolo intero potessero essere soddisfatte, non ha accettato che un paese “che non dovrebbe esistere” potesse adottare l’impianto politico/economico europeo, senza tentare con ogni mezzo di impedirlo. John F. Kennedy, di fronte al Muro di Berlino, nel giugno del 1963, ebbe a dire che: “La libertà presenta molte difficoltà, e la democrazia non è perfetta, però noi non abbiamo mai dovuto erigere un muro per trattenere la nostra gente ed impedirle di abbandonarci”.
La marcia per la libertà in Europa, che negli anni ’60 vedeva Berlino al centro del mondo, non si è ancora arrestata e i muri sono diventati carrarmati e bombe termobariche. Quarant’anni fa è stata la Polonia di Solidarnosc a dare la prima picconata alla diga rossa, come disse Ronald Reagan e pochi anni più tardi la Germania fu finalmente libera e riunita. Poi, il collasso dell’URSS liberò dal giogo totalitario tutta l’Europa orientale e le Repubbliche baltiche. Quarant’anni dopo l’inizio di questo vastissimo processo di emancipazione dall’influenza russa da parte di collettività nazionali europee, sovrane ed indipendenti, ci sono ancora dei popoli che combattono per la libertà. L’Ucraina, che aveva persino ceduto le proprie testate nucleari (nel numero di 1.900) in cambio della garanzia del rispetto della propria sovranità territoriale da parte della Federazione Russa e che è stata una terra continuamente sfruttata da Mosca fino al 2014, ha liberamente e pacificamente deciso di intraprendere un cammino di avvicinamento all’Occidente. La resistenza del popolo ucraino, che ha deliberatamente deciso di ignorare la teoria neorealista e battersi duramente contro l’invasore, ci dimostra che l’Occidente non ha perso la sua forza attrattiva e che gli altri, ad est, non possono che ricorrere alla forza bruta per tentare di impedire il tramonto del proprio dominio.
Lamberto Frontera

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