La strage dei fiori e la rivolta delle donne iraniane

Riflessioni in libertà sulle manifestazioni di protesta in Iran
e sulle altre rivoluzioni non violente. Di Alberto Pagani

Queste esplosioni continue
e le nuvole sporche
sono forse l’annuncio di un canto sacro?
Tu, amico, tu, fratello, tu che hai il mio stesso sangue
Quando arriverai sulla luna
Scrivi la storia della strage dei fiori.”

Farugh Farrokhzad

La bandiera della Repubblica islamica dell’Iran è un tricolore a bande orizzontali. Sopra è verde, bianca in mezzo e rossa di sotto. Il verde è il colore dell’islam, ma nella cultura iraniana richiama anche la vitalità e la felicità, il bianco rappresenta la libertà ed il rosso il martirio, e anche il fuoco, che era adorato nella tradizione zoroastrista preislamica. La cultura tradizionale è sopravvissuta all’oscurantismo della dittatura clerico militare, che non è riuscita a cancellare totalmente il lascito dei millenni di storia dell’impero persiano, che hanno preceduto l’occupazione araba e l’islamizzazione forzata.

Infatti in Iran si festeggiano da più di tremila anni i cicli astrali e della natura, come l’equinozio di primavera, Nowruz, il capodanno persiano. A primavera sbocciano i tulipani, a cui sono associati diversi significati: la vita e la morte, il martirio, ed anche l’opposizione agli ayatollah. La soluzione adottata dal professore di architettura Hamid Nadimi, incaricato di disegnare la nuova bandiera dalla Repubblica Islamica, fu di usare i colori della bandiera prerivoluzionaria, ma l’emblema centrale del leone e del sole, antichi simboli astrologici associati alla monarchia, furono sostituiti da un simbolo che rappresenta proprio un laleh, un tulipano stilizzato. Ma il tulipano è anche simbolo di lotta e di rivolta. Quando nel 2009 l’opposizione scese in piazza denunciando i brogli nella rielezione di Mahmud Ahmadinejad, alcuni dimostranti agitavano un tulipano in segno di sfida.

La più importante poetessa iraniana del ‘900, Forugh Farrokhzad, morta violentemente, concluse una sua bellissima poesia evocando “la strage dei fiori”. Sono versi che sembrano una preghiera disperata, scritta per celebrare la morte dei ragazzi e delle ragazzi uccisi dal regime, nelle proteste che hanno riempito le strade e le piazze dell’Iran, in questi giorni. Fino ad ora sono almeno 54 i morti, vittime della repressione del regime degli ayatollah. La scintilla che ha infiammato la rivolta è stato l’assassinio di Masha Amini, una ragazza di 22 anni del Kurdistan iraniano, arrestata il 13 settembre scorso e uccisa dalla polizia morale di Teheran ed uccisa con un brutale pestaggio perché non vestiva ‘in modo consono’ il velo.

Il regime clerico militare è contestato diverse volte dalla popolazione, ma fino ad ora è riuscito a controllare e reprimere le rivolte con la forza e la violenza. Gli studenti di Teheran protestarono per la libertà di espressione nel 1999, ci furono proteste che contestavano i brogli elettorali nel 2009, i manifestanti scesero per le strade anche nel 2019, per la grave situazione economica, nel 2020 per l’abbattimento del volo 752, colpito dalla stessa milizia iraniana, e nel 2021 per la corruzione del Governo e la gestione disastrosa dell’economia. Anche in questo caso, come nei precedenti, la repressione è stata feroce, e nemmeno i bambini sono stati risparmiati. Però c’è qualcosa che distinque questa nuova ondata di proteste dalle precedente.
Innanzitutto è diversa l’ampiezza della rivolta, che coinvolge tutte le generazioni e le fasce sociali, dai giovanissimi studenti, ai lavoratori adulti, dai ceti popolari alla classe media, e persino le persone più benestanti. Nel passato le proteste erano localizzate, e quindi più facilmente controllabili, ed erano organizzate dai manifestanti condividendo le informazioni sui social network. Al regime bastava interrompere l’accesso a internet per agire sull’organizzazione delle manifestazioni. Queste proteste sembra che si attivino anche in maniera più spontanea, non organizzata. Qualcuno scende per strada, altri escono di casa e si uniscono a loro, formando un corteo di manifestanti. L’interruzione del servizio internet non ha fermato le proteste.
La seconda differenza sta nell’oggetto della protesta. Quelle precedenti si accendevano per motivazioni politiche, come i brogli elettorali, o per il mal governo, l’interruzione della corrente elettrica, i salari ed il costo della vita. Interessavano prevalentemente alcune aree del Paese, ed alcune città in particolare, e per il regime era più semplice reprimerle. Ora i manifestanti lottano per affermare valori universali e la protesta è più diffusa, la sua dimensione è diversa, ed anche la sua durata.
Poi c’è una terza differenza: la scintilla dell’uccisione di una ragazza che per la polizia morale indossava il velo in maniera “inappropirata”, ha reso protagoniste della rivolta le donne iraniane. Con lo slogan “Woman Life Freedom”, le donne hanno infiammato una rivolta senza precedenti, per ottenere la democrazia, il rispetto dei diritti, la libertà, e conquistato la solidarietà ed il sostegno dell’opinione pubblica del mondo libero.
La questione del velo, come spiega chiaramente Shirin Zakeri, ricercatrice e docente dell’Università di Roma “la Sapienza”, ha una storia complessa , che accompagna la Repubblica Islamica fin dal suo inizio, nel 1979. Le donne e le associazioni femminili che lo indossavano in appoggio alla Rivoluzione, contro l’orientamento occidentale del regime dello scià Pahlavi, non immaginavano che un giorno si sarebbero ritrovate oppresse da un regime patriarcale islamico, che avrebbero perso gran parte dei diritti acquisiti dal regime precedente, ed avrebbero persino dovuto cedere all’uso obbligatorio di quel velo che avevano inteso come simbolo di liberazione.
La campagna contro il velo obbligatorio dei movimenti femminili iraniani, attive da diversi anni, utilizza questo elemento simbolico per rivendicare diritti concreti per le donne. L’Iran è un Paese giovane, con un’età media di 32 anni ed i tre quarti della popolazione che vive nell’area metropolitane. Oggi più del 70% della popolazione è nata dopo al rivoluzione e si sente lontana dalla retorica rivoluzionaria che politici, religiosi e militari, continuano a perpetrare I cittadini nati dopo il 1979 sono milioni e rappresentano la parte più attiva e vitale del Paese, parlano inglese, seguono la moda, usano internet, i social network occidentali, ed hanno uno stile di vita che contrasta profondamente con l’orientamento moralista e bigotto del clero e del regime.
Per questo ora le donne sono scese in piazza, bruciano le sciarpe e tagliano i capelli, e generano una solidarietà crescente, dentro e fuori i confini dell’Iran. Ora la protesta è diventata ancora più marcatamente politica e contro il sistema, e gli slogan della protesta sono “no allo Stato isalmico”, “no al sistema cdi Velaya-te Faqih (supremo leader assoluto “politico e religioso”), “no al dittatore”, “sì ad un Iran libero e democratico, sì ad un referendum popolare”.
Le ultime rivoluzioni non violente.
E’ possibile che queste rivolte diventino una vera e propria rivoluzione, e producano un cambio di regime, in Iran?
Per comprendere il presente è necessario studiare il passato. Osservando le rivoluzioni degli ultimi cinquant’anni si trovano elementi utili per ipotizzare qualche risposta alla domanda. Esaminiamo dunque alcuni casi storici di rivolte che hanno portato al rovesciamento di un regime dittatoriale e alla sua sostituzione. Comune a tutti i casi c’è il malcontento diffuso nell’opinione pubblica, ostile ad un regime che non gode più, se mai ne ha goduto, del favore e del consenso popolare. Nei casi più lontani nel tempo questo malcontento sfocia nell’azione rivoluzionaria per mezzo di un ristretto ed organizzato gruppo di avanguardia rivoluzionaria o golpista. Nei casi più recenti (dall’introduzione di internet e del web 2.0 in poi) i processi rivoluzionari sono più popolari, capillari e diffusi, decentrati e magmatici. Qui si nota un’ispirazione comune delle rivolte popolari, pacifiche e spontanee nelle teorie del politologo americano Gene Sharp, classe 1928, famoso per aver scritto Come abbattere un regime. Manuale di liberazione nonviolenta. Il pensiero di Sharp, infatti, è considerato da molti la fonte ispiratrice “a distanza” dei movimenti civili di Belgrado, di Tirana, di Pristina, di Kiev, di Tbilisi, fino a quelli di Tunisi e del Cairo e, di conseguenza, di molte delle azioni rivoltose di piazza che, oltre a molti innegabili successi, in alcuni casi hanno avuto tragici risvolti e sono state trasformate in stragi da eserciti sanguinari o da mercenari.
Ma procediamo per gradi, perché quella che per una parte è la rivoluzione, per la parte avversa è sempre un colpo di Stato, e quelli che si definiscono rivoluzionari o partigiani, dai regimi sono sempre considerati eversori, o terroristi. Per chiarire meglio questo aspetto esaminiamo per primo il caso del Portogallo, che è l’esempio di un regime change attuato con un colpo di Stato militare, sostenuto in massa dalla popolazione civile. La Revolução dos cravos è il nome con cui viene ricordato il colpo di Stato non cruento che nel 1974 rovesciò l’Estado Novo, il regime dittatoriale fascista di Antònio Salazar, instaurato nel 1933. Il nome Rivoluzione dei garofani deriva dal gesto di una fioraia che, in una piazza di Lisbona, offrì questi fiori ai soldati, perché li infilassero nelle canne dei fucili, facendoli diventare il simbolo della rivoluzione. Il cambio di regime fu attuato dalla fazione progressista delle forze armate portoghesi, che deposero il primo ministro Marcelo Caetano e avviarono la transizione democratica del Paese. Il colpo di Stato portoghese fu anomalo, in quanto i militari che lo promossero ebbero immediatamente l’appoggio della popolazione, che era stanca del regime. Quando radio Emissores Associados de Lisboa mandò in onda E depois do adeus, che era il primo segnale in vista del golpe, il regime era già sconfitto perché non godeva più di alcun appoggio popolare, tanto è vero che le vittime uccise dalle truppe lealiste furono solamente quattro.
Lo storico israeliano Yuval Noah Harari, che sostiene che nella storia dei conflitti quasi invariabilmente la vittoria è andata a quelli che hanno saputo cooperare meglio, potrebbe concludere che la rivoluzione dei garofani è una prova della cruciale importanza della cooperazione su larga scala. In un suo brillante saggio intitolato Homo Deus Harari scrive che nel 1914 tre milioni di nobili russi dominavano centottanta milioni di contadini, incapaci di un’effettiva mobilitazione. Nel 1917 il partito comunista che riuscì a fare la rivoluzione e rovesciare il regima zarista contava appena ventitremila membri. “Se volete far scoppiare una rivoluzione, non chiedetevi ‘quante persone sostengono le mie idee?’ Chiedetevi invece ‘Quanti tra i miei sostenitori sono capaci di un’effettiva collaborazione?’ Alla fine la rivoluzione russa non esplose quando centottanta milioni di contadini si sollevarono contro lo zar, ma quando un drappello di comunisti impose se stesso al posto giusto nel momento giusto.” Fu grazie al loro tempismo e all’organizzazione che i comunisti presero il potere in Russia, e non lo mollarono fino alla fine degli anni ottanta, quando implose l’Unione Sovietica, e con essa tutti i regimi fantoccio delle Repubbliche subalterne, sotto la spinta delle “rivoluzioni colorate”.
Quindi un secondo caso interessante ci porta nel 1989, il 21 dicembre, quando il dittatore comunista della Romania, Nicolae Ceausescu, organizzò una manifestazione di massa in suo appoggio nel centro di Bucarest. Venuto meno il sostegno sovietico, dopo il crollo del muro di Berlino, erano già collassati i regimi comunisti della Polonia, della Germania Est, dell’Ungheria, della Bulgaria e della Cecoslovacchia. Ceausescu deteneva il potere dal 1965 ed era convinto di poter resistere allo tsunami, anche se il 17 dicembre erano cominciate le prime rivolte a Timisoara. Ceausescu era convinto che la maggioranza della popolazione lo amasse ancora, o che avesse molta paura di lui, per questo fece organizzare dallo scricchiolante apparato del partito una maestosa manifestazione di ottantamila persone, in suo favore. Tutti gli altri cittadini ricevettero istruzioni di cessare ogni attività e di seguire la manifestazione in tv, o attraverso la radio. Scortato dalla moglie Elena e dai capi del partito il dittatore si affacciò al balcone che dominava la piazza (pare che i dittatori abbiano una vera mania per i balconi) ed incoraggiato da una folla che sembrava entusiasta attaccò uno dei suoi tetri e compiaciuti discorsi, tra gli applausi meccanici della folla. Ma qualcosa andò storto perché qualcuno tra il pubblico fischiò. Il dittatore non poté mai più terminare la frase perché, paralizzato dall’incredulità, vide il suo mondo crollargli addosso in una manciata di secondi. Nessuno sa chi sia stato il primo che osò fischiare, ma un altro lo seguì, e poi un altro ancora, finché tutta la massa cominciò a protestare in diretta, sulla televisione di Stato, mentre tre quarti della popolazione era incollata ai teleschermi a guardare l’inizio della rivoluzione, in diretta. La Romania comunista crollò quando ottantamila persone nella piazza centrale di Bucarest capirono di essere molto più forti dell’anziano signore con il colbacco, che dal balcone gridava “Pronto! Pronto! Pronto!” come se il problema fosse un malfunzionamento del microfono . Il simbolo della rivoluzione rimase la bandiera rumena con un foro, perchè l’emblema comunista al centro del tricolore veniva tagliato via. Anche la bandiera iraniana è un tricolore con un simbolo al centro, ma ne parleremo più avanti.

Un terzo caso sul quale riflettere è accaduto in Serbia. “Gotov je”, “E’ finito”, urlavano le centinaia di migliaia di manifestanti riunitisi nel centro di Belgrado, assediando il Parlamento. Ljubisav Djokic, sopra la sua ruspa, puntava il palazzo della Radio-televizija Srbije, la tv di Stato, simbolo della propaganda del leader. La “rivoluzione del bulldozer” era iniziata. Il regime di Slobodan Milošević, Presidente autoritario della Repubblica Federale Jugoslava (Serbia e Montenegro), era caduto. Erano le tre del pomeriggio del 5 ottobre del 2000. Uno dei protagonisti della rivoluzione che portò alla destituzione del dittatore si chiama Srđa Popović, classe 1973, figlio di due giornalisti liberali, laureato in biologia e cresciuto ascoltando rock e discorsi politici, dal 1994 era il presidente del Partito Democratico Serbo (Демократска странка, DS), stretto collaboratore del leader del partito Zoran Dindjic. I suoi modelli sono Gandhi, Mandela, Martin Luther King, Lech Walesa, e ancora, oltre a Sharp, Harvey Milk, Aung San Suu Kyi e Howard Zinn. I suoi primi passi verso la “lotta nonviolenta” risalgono al 1998, quando creò il movimento studentesco di protesta civile, Otpor! (Resistenza), un gruppo di attivisti serbi impegnati per sconfiggere il regime. Successivamente Popovic ha fondato il Centro per l’azione nonviolenta applicata e le strategie (CANVAS ) di cui è tuttora direttore esecutivo. Il simbolo scelto per Otpor! era un pugno chiuso stilizzato su uno sfondo nero ed è proprio quest’icona che ancora oggi fa il giro del mondo e rende riconoscibile il ruolo di Canvas nelle recenti rivoluzioni. Dopo la caduta di “Slobo”, per la Serbia si apriva una stagione di riforme finita però troppo presto, appena tre anni dopo, quando l’allora premier Zoran Dindjic venne assassinato mentre scendeva dalla propria auto nel cortile del Parlamento di Belgrado. A sparargli fu Zvezdan Jovanovic, membro delle Tigri di Arkan, il gruppo paramilitare fondato da Željko Ražnatovic, il boia di Milošević. Il paradosso, nel Paese balcanico, è che vent’anni dopo quel 5 ottobre al comando della nuova Serbia ci sono ancora gli alleati e i fedelissimi dell’ex leader. A cominciare dal presidente della Repubblica Aleksandar Vucic, che alla fine degli anni ’90 era Ministro dell’Informazione. La storia non procede sempre soltanto nella direzione del progresso. A volte è il popolo stesso che preme sul tasto del Rewind. La scuola diretta da Popovic però è diventata un punto di riferimento per le rivoluzioni non violente. Situata in uno degli scialbi palazzoni dell’anonima zona nuova di Belgrado, al di là del ponte Brankov, è stata frequentata finora da migliaia di giovani provenienti da oltre 45 Paesi. Molti altri si sono formati grazie al manuale Lotta nonviolenta. 50 punti cruciali, scaricabile gratuitamente da internet in sei lingue (anche in arabo e in farsi) o seguendo i workshop all’estero. “Esempi di movimenti civili di successo ispiratisi ai nostri metodi ci sono stati in Georgia (rivoluzione delle rose, 2003, ndr), in Ucraina (rivoluzione arancione, 2004, ndr), in Libano (rivoluzione dei cedri, 2006, ndr), nelle Maldive (2008), ma anche in Venezuela, in Tunisia (rivoluzione dei gelsomini, 2011, ndr), in Egitto e in Kenya” racconta Popovic. “I nostri libri sono letti a Cuba e in Iran e i workshop richiesti in Zimbabwe, in Birmania, in Nigeria. Non esiste una formula universale. Ogni movimento, nato sempre fuori dal mainstream, personalizza le tattiche al contesto sociale del suo Paese, mantenendo vivi i tre principi fondamentali: unità del gruppo, pianificazione e disciplina nonviolenta”. Qualcuno, però, maligna che sia ricoperta di dollari da Washington e che funga da sostegno ai servizi segreti americani, tesi sostenuta anche nel volume Rivoluzioni spa(AlpineStudio) del giornalista Alfredo Macchi, un libro che spinge che dietro le rivoluzioni arabe ci siano gli Stati Uniti. Diplomaticamente, invece, Popovic preferisce parlare dei suoi sogni. Immagina la Serbia nel futuro come un Paese democratico all’interno della Comunità Europea.

La filosofia dell’azione non violenta di Srdja Popovic, che non è altro che la versione più tecnologica e moderna della non violenza del Mahatma Gandi, la ritroviamo poi applicata in piazza Maidan, a Kiev, all’inizio del 2014, all’apice della sollevazione popolare Ucraina contro il presidente filorusso Viktor Janukovyc ed i suoi alleati del Cremlino. Un manifestante che suonava un pianoforte per strada, di fronte a una fila di poliziotti in tenuta antisommossa, immagini di dimostranti che tenevano in mano degli specchi davanti alle forze dell’ordine, il disegno di un poliziotto che si batteva in duello co un manifestane, l’agente puntava una pistola e l’attivista brandiva con un logo di Facebook, emblematico dell’importanza dei social network per le proteste. Gli attivisti infatti potevano organizzare tutto on line, dal supporto medico all’assistenza legale, coordinando manifestazioni di milioni di persone e raccogliendo fondi per il cibo e l’alloggio dagli ucraini all’estero. La sollevazione fu soprannominata la “Rivoluzione della dignità”. Era cominciata quando il presidente Janukovyc aveva picchiato gli studenti che protestavano, la sollevazione era diventata il simbolo dell’aspirazione ad un governo meno corrotto, a una società più giusta legata alla parola “Europa”. “Euromaidan” era l’altro soprannome della rivoluzione. In piazza Majdàn Nezaléznosti (piazza dell’Indipendenza) i cecchini avevano cominciato a sparare sulla folla, per disperderla. La maggioranza dei manifestanti apparteneva a Hromadske Sektor (il Settore civico), e solo poche centinaia erano quelli con il passamontagna, di Pravy Sektor (il Settore destro), che avevano cominciato a lanciare bombe molotov. Non c’erano dunque solo progressisti amanti della libertà, in piazza, ma diversi settori che avevano in comune l’insofferenza per la corruzione e l’occasionale brutalità di Janukovyc. Tuttavia in seguito alla repressione persero la vita 123 manifestanti, ma la gente continuò ad andare in piazza, finchè il presidente Janukovyc fu costretto a fuggire in Russia.

L’Iran di oggi, 43 anni dopo la rivoluzione del 1979.

L’Iran è un colosso non arabo, più grande di Germania, Francia e Italia messe insieme. Ci vivono meno di ottanta milioni di abitanti, quasi lungo le catene montuose, distribuite su tre lati dello Stato, perché lo spazio abitabile è limitato dai grandi deserti e dalle pianure salate dell’interno, che non si prestano ad insediamenti umani. La maggior parte della popolazione parla il farsi, la lingua della maggioranza di origine persiana, che corrisponde al 60% della popolazione, ma in Iran vivono anche curdi, azeri, baluchi, turkmeni, georgiani e, in piccola parte, arabi. Nel 1979 la rivoluzione komeinista distrusse il quadro sociale e politico esistente per ricrearne uno nuovo, basato sul giurisperito religioso (Velayat-i Faqih) come unica fonte di autorità e guida dello Stato.

La rivoluzione contro lo scià di Persia Reza Pahlavi era iniziata come movimento antimonarchico che chiedeva democrazia e redistribuzione economica, e fu appoggiata da una larga fascia di popolazione, a causa della crisi occupazionale e sociale che acuiva il divario tra i ceti più bassi e il ceto dominante e privilegiato. La scintilla che accese la miccia fu la protesta dei giovani universitari di Teheran, che si opponevano alla monarchia autoritaria dello scià, ma quando l’ayatollah Ruhollah Khomeini tornò in Iraq dall’esilio a Parigi, per rivendicare il suolo di “Guida suprema” della rivoluzione, non lo fece in nome della democrazia, o di nuovi e più equi programmi sociali. Il messaggio delle forze islamiste era contro l’intero ordine regionale e contro gli assetti istituzionali della modernità. I religiosi però erano organizzati e quando presero il controllo della situazione non lasciarono più spazio ad altri attori politici, cristallizzando la rivoluzione, con la promessa di realizzare giustizia sociale e alleviare al povertà delle classi più svantaggiate. Il 1 aprile 1979, in occasione della proclamazione della Repubblica Islamica dell’Iran, Khomeini dichiarò che quello era “il primo giorno del governo di Dio”. Scrive acutamente Henry Kissinger: “Il regime clericale iraniano si collocava in tal modo all’intersezione di due ordini mondiali, arrogandosi le protezioni formali del sistema vestafaliano, pur proclamando ripetutamente di non credere in esso, di non ritenersene vincolato e di aver intenzione, alla fine , di sostituirlo.”

La Repubblica Islamica si presentò quindi sulla scena come un soggetto eversivo dell’ordine mondiale, perché l’autorità dell’ayatollah che è a capo della struttura di potere del Paese (prima Khomeini, ora Khamenei) è concepito come un’autorità globale, che può violare liberamente il principio dell’immunità diplomatica, prendendo d’assalto l’ambasciata americana e tenendo in ostaggio il personale per 444 giorni, o emettere una fatwa (responso giuridico) che condanna a morte il cittadino britannico di origine indiana Salman Rushdie, per la pubblicazione di un libro considerato offensivo per i musulmani. E all’interno di uno Stato teocratico ogni forma repressione è giustificata, perché è nel nome di Dio. “Quando il governo è concepito come entità divina, il dissenso sarà trattato come blasfemia, non come opposizione politica. Sotto Khomeini la Repubblica islamica mise in atto tali principi, cominciarono da un’ondata di processi ed esecuzioni e una sistematica repressione delle minoranze religiose, che andava ben oltre quanto era accaduto sotto il regime autoritario dello scià.”

Inoltre la neonata Repubblica Islamica si trovò subito in guerra, contro l’Iraq di Saddam Hussein, che fu involontariamente il più grande alleato degli ayatollah, perché lo spauracchio del nemico invasore li aiutò a consolidare il potere, giustificando la soppressione di ogni contestazione interna. La guerra andò avanti fino al 1988, morì un milione di giovani iraniani e altrettanti rimasero feriti ed invalidi, e fornendo ampio materiale per la retorica del martirio. Per consolidarsi e conservare il potere il regime avviò effettivamente anche un programma di welfare, finalizzato a compensare le disparità sociali, puntando sul consenso dei ceti popolari più poveri e marginalizzati e delle famiglie dei martiri e dei combattenti. Nella realtà però i soli che hanno beneficiato davvero del nuovo regime, oltre ai religiosi, sono i Pasdarn (guardiani della rivoluzione) ed i tecnocrati connessi al sistema politico. I Pasdaran si sono progressivamente trasformati da corpo militare nei principali protagonisti dell’economia iraniana, lecita e illecita, a danno del settore privato. La seconda categoria comprende tutte quelle famiglie vicine al regime che occupano posizioni politiche, burocratiche o istituzionali in un sistema che fondamentalmente è corrotto e clientelare. La rivoluzione del ’79 ha quindi distrutto un sistema elitario e autocratico, come quella della monarchia Pahlavi, per ricostruirne uno nuovo, altrettanto elitario ed autocratico. Questi sono i soli che avrebbero realmente molto da perdere da un cambio di regime, e sono quelli che lo difenderanno, a meno che non partecipino direttamente al suo rovesciamento per mantenere o migliorare al propria rendita di posizione, come spesso accade.

L’Iran è un Paese potenzialmente ricchissimo, per risorse minerarie, culturali, ed umane. Ma oggi la sua economia è improduttiva e parassitaria perché è gestita malissimo dai religiosi e dai Pasdaran, che hanno puntato a sfruttare essenzialmente il petrolio ed il gas naturale, invece di sviluppare un sistema tecnologico ed industriale a valle del settore oil and gas. Per questo, stretta nella morsa delle sanzioni internazionali, anche l’industria estrattiva è andata in difficoltà. In teoria la massima capacità di produzione si aggirerebbe intorno ai 3,5 milioni di barili al giorno, ma oggi non riescono a ricavarne nemmeno uno. Comunque, anche esportando tre milioni di barili al giorno, difficilmente ottanta milioni di persone potrebbero viverci, senza diversificare nel settore industriale e terziario. Che una popolazione ridotta alla fame dal mal governo non veda di buon occhio la spesa per i missili balistici e per le avventure delle milizie proxy a sostegno dell’espansionismo sciita in Yemen, Iraq, Siria e Libano, è abbastanza scontato. Il sentimento popolare confligge però con l’elemento costitutivo della Repubblica Islamica, iscritto nella sua Costituzione: l’obiettivo dell’unificazione di tutti i musulmani come dovere nazionale , e quindi la conquista ideologica di tutta la Umma islamica. Alla maggioranza degli Iraniani di questo obiettivo esistenziale del loro Stato non importa proprio nulla.

L’Iran di oggi è pronto per una nuova rivoluzione?

Impossibile sapere ora se anche questa volta il regime riuscirà a soffocare le rivolte o se invece sia arrivata la fine di questa dittatura clericale e militare, come certamente è auspicabile. Il popolo iraniano, questo è evidente, in larga parte è stanco degli ayatollah e se ne vuole liberare, ma c’è anche una parte della popolazione, quella che ha solo da rimetterci da un cambio di regime, che farà di tutto per resistere e conservare la propria condizione privilegiata. La religione è più che altro una maschera, il vero punto è il potere, il controllo dello Stato e della sua ricchezza. Per difenderlo verranno mobilitate tutte le risorse disponibili, ma se il contagio rivoluzionario si allarga invece di riassorbirsi, non ci sarà più nulla da fare per il regime. La fine della dittatura Iraniana non offre in sé alcuna garanzia di un futuro migliore, perché anche la rivoluzione del 1979 nasceva con delle grandi aspettative di liberazione, che sono state immediatamente deluse. Tuttavia il popolo iraniano è stanco, e vuole scommettere su di un futuro migliore, libero dall’oppressione di una teocrazia corrotta, incapace e violenta.

Tre sono a mio avviso i fattori che possono determinare il successo delle rivolte e produrre una vera e propria rivoluzione, con il conseguente cambio del regime.
Il primo è il mantenimento di quella pratica di rivolta fondamentalmente non violenta, che ha prodotto il successo delle rivoluzioni colorate che abbiamo esaminato. Il rovesciamento dei regimi dittatoriali che resistevano al crollo dell’Unione Sovietica è stato determinato fondamentalmente dalle rivoluzioni colorate, che erano popolari, di massa e non violente.
La seconda è l’organizzazione. Come abbiamo visto le rivoluzioni hanno maggiori probabilità di successo quando sono organizzate, perché le proteste spontanee non riescono facilmente a coordinare i tempi e le azioni necessarie a rovesciare un sistema di potere strutturato ed organizzato. A questo scopo è necessario anche l’aiuto tecnologico dell’Occidente, per ristabilire via satellite i servizi di comunicazione tramite la rete internet, che il regime ha prontamente e opportunamente sospeso, proprio per impedire ai manifestanti di organizzarsi.
Il terzo è la necessità di trovare un punto di appoggio interno al sistema di potere morente. Il regime non crollerà facilmente soltanto per la pressione esterna, come non è crollato sino ad ora, quando le proteste popolari l’hanno incalzato. Ma le fratture che meno si vedono nel sistema di potere sono quelle che più facilmente possono divaricarsi e produrre un cedimento strutturale. Quando un regime avverte il rischio della sua fine è naturale che si cominci a pensare a come ci si potrebbe salvare se il sistema crollasse, o persino approfittare delle opportunità prodotte dal crollo. Un sistema di potere sottomesso all’autorità della Guida Suprema, che si basa però su di una diarchia di fatto tra religiosi e militari, non può nascondere completamente tutte le sue crepe. Le forze armate Iraniane sono numerose, articolate e complesse. Non ci sono soltanto i Guardiani della Rivoluzione, ma c’è anche l’esercito, che è più popolare. Il successo della rivoluzione dipenderà anche dalle capacità dell’intelligence occidentale, soprattutto israeliana ed americana, di esplorazione e conoscenza della complessità del mondo militare iraniano e delle idee, delle aspettative, delle ambizioni degli uomini di cui sono fatte le forze armate.

La storia delle cosiddette Primavere Arabe, e dei conseguenti cambi di regime, insegna che la strada della non violenza ha maggiori probabilità di successo. Le primavere arabe, trasformate in guerra civile dalle milizie tribali, hanno prodotto disastri. Dopo la morte di Gheddafi la Libia non ha portato libertà e democrazia, né stabilità, né alcun miglioramento delle condizioni di vita del popolo. Le milizie armate che hanno devastato la Siria per rovesciare il regime di Bashar al-Assad non hanno raggiunto lo scopo prefissato, ed hanno prodotto morti civili, feriti, e milioni di profughi, costretti a fuggire dalla loro patria in guerra per rifugiarsi altrove. Assad è ancora al suo posto, a beneficio dei suoi amici russi ed iraniani, e nella guerra siriana è nato e si è finanziato l’ISIS. Anche l’Egitto, dove le elezioni del 2012, successive alla deposizione del dittatore Mubarak, portarono alla presidenza di Mohammed al-Morsi, espressione del Partito Libertà e Giustizia, espressione della fratellanza musulmana e politicamente vicino alla Turchia di Recep Tayyip Erdogan, non ha prodotto né stabilità, né democrazia. Nel 2013 un altro colpo di stato militare lo depose e salì al potere il feldmaresciallo Abdel Fattah al-Sisi, già capo delle forze armate egiziane. Morsi fu accusato della morte di diverse centinaia di manifestanti antigovernativi e di aver ordito alle spalle dello Stato egiziano un’azione di spionaggio in favore del Qatar, nonché del coinvolgimento in attività terroristiche. Morì per infarto durante un’udienza di appena 15 minuti, in tribunale. Persino la Tunisia, che dopo la caduta del regime di Zne El Abidine Ben Ali, fuggito in Arabia Saudita nel 2011, pareva l’unica primavera araba dopo la quale resisteva una democrazia, alla fine è regredita. Il Presidente Kais Saied, come soluzione alla paralisi del sistema democratico instaurato dopo la primavere araba, ha annunciato nel 2021 la sospensione del Parlamento, ha rimosso dall’incarico il Primo Ministro, Hichem Mechichi, e ha assunto su di sé l’autorità esecutiva. Per quanto possa godere ancora di una residua fiducia popolare è difficile non parlare di restaurazione dell’autoritarismo.

Tuttavia il rischio che la rivoluzione iraniana fallisca, o faccia la fine di una primavera araba, non cancella la speranza che il futuro di un grande Paese, erede dell’antico Impero Persiano, possa essere migliore di un presente prigioniero dall’ipocrisia e dalla brutalità della Repubblica Islamica. La democrazia non si importa, si conquista. Muore ovunque, quando non funziona, e quando leadership incapaci ed autoreferenziali smarriscono la volontà o la capacità di perseguire l’interesse generale e la via del progresso. Se il popolo iraniano riuscirà a conquistarla dovrà lottare anche per mantenerla, ma quel che è certo, al di là dell’idealismo ispirato dall’universalità dei valori democratici, è che il successo della rivoluzione iraniana sarebbe una svolta epocale negli equilibri del Medio Oriente e del mondo intero. Sarebbe, in secondo luogo, anche una grande opportunità per gli interessi dell’Occidente. Un cambio di regime avrebbe conseguenze importanti in Siria, in Libano, in Iraq, nello Yemen, nell’Oman, nel Bahrein, In Cisgiordania, a Gaza, forse anche nell’area del Kurdistan. E’ assai probabile un miglioramento complessivo della situazione, che trarrebbe benefici dalla scomparsa del principale fattore di destabilizzazione politica e militare dell’area.

In secondo luogo è molto probabile che con un nuovo regime, meno ostile all’Occidente, verrebbe meno la pressione immediata del programma nucleare iraniano, finalizzato alla produzione di armi atomiche, che rischia di scatenare una rincorsa in tutta l’area, per le ovvie ragioni della deterrenza. Le monarchie del golfo non rinuncerebbero di certo alle loro ambizioni nucleari, se gli iraniani avessero la bomba atomica. E se il Medio Oriente si riempisse di armi nucleari i rischi per l’intera umanità aumenterebbero vertiginosamente, perché più armi nucleari ci sono più diventa probabile che qualcuno le usi per primo.

Infine il ritorno nel mercato mondiale di un grande produttore di idrocarburi come può essere l’Iran, a pieno regime estrattivo e libero dalle sanzioni, sarebbe un fattore notevole di stabilizzazione del mercato, consentirebbe di affrontare la crisi energetica e calmierare i prezzi. Un abbassamento del prezzo del petrolio, ottenibile in questo modo, danneggerebbe di riflesso anche l’economia russa, molto di più delle sanzioni occidentali, e faciliterebbe anche la conclusione del conflitto in Ucraina. Certo è più facile che i russi smettano di combattere perché finiscono i soldi che non le munizioni.

Con la convinzione e la speranza che queste mie riflessioni coincidano con quelle che hanno fatto le principali potenze democratiche dell’Occidente, e quindi che queste agiscano di conseguenza, e nella consapevolezza che il cambio del regime iraniano può avere successo solamente se nasce dal suo interno e per volontà libera del suo popolo, non ci resta che sperare in un’evoluzione positiva di questa pagina di storia che stiamo vivendo.

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