Quanto è presente la minaccia del terrorismo nel tempo del Covid? Intervista a Lorenzo Vidino

Tra Pandemia e nuove minacce, come è cambiata negli ultimi mesi la minaccia terroristica in Europa e nel mondo e quanto, ancora, le organizzazioni come lo Stato Islamico sono presenti e strutturate. L’analisi di Lorenzo Vidino.

Dopo gli attentati a Vienna, Parigi e Nizza il tema del terrorismo jihadista è tornato di grande attualità in Europa. Nel tempo del Covid e dell’emergenza pandemica, come sta cambiando la minaccia terroristica, non solo di matrice jihadista, e la sua percezione nell’opinione pubblica? Come, durante la pandemia, le organizzazioni terroristiche si stanno organizzando e quali sono le più attive? Europa Atlantica ha rivolto alcune domande su questi temi a Lorenzo Vidino, uno dei maggiori esperti italiani del tema, Direttore del Programma sull’estremismo della George Washington University, già coordinatore della commissione di studio dell’estremismo jihadista in Italia nominata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Prof. Vidino, nelle ultime settimane a seguito degli episodi di Parigi e  Vienna si è tornati a parlare di terrorismo di matrice jihadista. Del resto questo anno è stato dominato dal dramma dell’emergenza Covid. Ma a parte i recenti fatti che hanno coinvolto l’Europa, la minaccia del terrorismo jihadista è stata molto presente, anche durante la pandemia, in numerosi paesi, a partire dal Medio Oriente. Quali sono state le realtà più colpite durante il 2020?

Gli attentati di Parigi, Nizza e Vienna hanno riportato l’attenzione del grande pubblico, più che comprensibilmente assorto in altre problematiche negli ultimi mesi, sul fenomeno jihadista e hanno confermato quello che le autorità europee già sapevano bene: che il jihadismo europeo non è magicamente evaporato col crollo del Califfato. Si è indubbiamente indebolito, ha perso la sua bussola e si trova in una fase transitoria e confusa. Ma non è certo scomparso. Lo dimostra l’alto numero di arresti in vari paesi europei negli ultimi due anni—dimostrazione che la minaccia esiste ancora ma che, al tempo stesso, è migliorata la qualità della risposta da parte dell’antiterrorismo dei vari paesi europei. E lo dimostra il fatto che il numero di attentati è diminuito solo lievemente rispetto agli anni 2015-2017, i più intensi da questo di vista—quello che è cambiato è il tipo di attentati registrati, oggi tendenzialmente più improvvisati e amatoriali rispetto ad alcune delle azioni più letali viste anni addietro. Ma una “scena” jihadista europea—che fa dell’eterogeneità operativa e dei profili una delle proprie caratteristiche principali—- esiste ancora, sia sul web che nel mondo reale.   

Se poi ampliamo il raggio della nostra analisi, nell’anno che si sta per chiudere abbiamo visto un riposizionamento del jihadismo globale. È evidente che lo Stato Islamico e al Qaeda, i due conglomerati globali del jihadismo mondiale, stiano attraversando un periodo a dir poco difficile (che portano alcuni a ipotizzare addirittura la fine vera e propria di al Qaeda—cosa che personalmente esito a fare). Ma alla parziale impotenza delle strutture centrali dei due gruppi si contrappongono i successi di varie formazioni ad essi affiliate in varie parti del mondo. Ed è nell’Africa subsahariana che negli ultimi mesi abbiamo visto gli sviluppi più preoccupanti, con gruppi jihadisti locali con legami di vario tipo col jihadismo globale che hanno saputo sfruttare le debolezze strutturali di vari paesi e condurre campagne militari di notevole entità. Penso al Mozambico, al nord della Nigeria, al Burkina Faso, e alla Repubblica Democratica del Congo. Nel 2020, intensificando un trend iniziato qualche anno prima, il baricentro del jihadismo si è spostato dal Medio Oriente all’Africa. Ciò non vuole però dire che i teatri africani esercitino lo stesso effetto magnetico, sia a livello emotivo che operativo, di ciò che la Siria e l’Iraq sono stati negli anni passati, sono situazioni molto diverse.     

Durante la pandemia le organizzazioni jihadiste come si sono organizzate e come hanno sfruttato l’emergenza per operare?

I gruppi jihadisti sono innovativi e cercheranno sempre di sfruttare le crisi a proprio vantaggio. Già a gennaio 2020 gruppi come lo Stato Islamico utilizzavano l’emergenza sanitaria globale per giustificare una serie di narrazioni preesistenti. Le risposte alla pandemia sono però state diverse tra i gruppi jihadisti (che forse sarebbe meglio definire solo islamisti, anche se il confine è spesso labile) al governo e quelli che attualmente non detengono territorio. La maggior parte dei gruppi in quest’ultima categoria ha concentrato un’attenzione significativa sulla messaggistica strategica. In particolare, lo Stato Islamico e i suoi sostenitori nei campi di detenzione in Siria hanno utilizzato la pandemia per espandere gli sforzi di raccolta fondi, organizzare fughe e condurre attacchi mirati contro presunti nemici nei campi. D’altra parte, le organizzazioni jihadiste governative si sono concentrate sulla dimostrazione della loro efficacia di governance e gestione della crisi del COVID-19, deviando nel contempo qualsiasi critica dei loro sforzi verso coloro che si oppongono al loro governo. Ad esempio, Hezbollah ha assoldato medici in Libano per aiutare gli sforzi per combattere la pandemia, ma ha evitato la responsabilità dell’aver continuato i voli dall’Iran al Libano anche dopo la chiusura delle frontiere, che molti in Libano hanno accusato della diffusione del COVID-19. Indipendentemente dal fatto che detengano o meno il territorio, le organizzazioni jihadiste hanno colto le opportunità offerte dalle nuove vie di raccolta fondi online, tra cui l’offerta di falsi dispositivi di protezione individuale in vendita online e il crowdsourcing degli acquisti di armi tramite Bitcoin. Alcuni gruppi hanno anche discusso di come armare il virus come agente biologico, sebbene l’effettiva minaccia di tale sviluppo rimanga marginale. Infine, le cospirazioni anti-vaccinazione, in particolare, sembrano diffondersi tra i gruppi e la sfiducia generale nel concetto di un vaccino contro il coronavirus può avere gravi implicazioni nella vita reale.

L’attentato di Vienna è stato rivendicato dallo Stato Islamico. Dopo la sconfitta territoriale in Siria, quale è al momento l’entità e la portata della minaccia di questa organizzazione?

Pare abbastanza certo che lo Stato Islamico avesse ben poco a che fare con l’attentato di Vienna, che è stato compiuto da un soggetto che da anni faceva parte della scena jihadista germanofona ma che non aveva legami operativi con lo Stato Islamico. Quello di rivendicare attacchi con cui non ha nulla a che fare se non puramente a livello di ispirazione ideologica è però un modello già visto e che permette al gruppo di rimanere rilevante. Il gruppo però non è così alle corde come alcuni pensano. Esiste ancora come forza insorgente in Siria ed Iraq, dove è nato. Come detto, gode di ottima salute in vari paesi grazie alle azioni di gruppi affiliati in giro per il mondo, dal Mozambico all’Afghanistan. E resiste come brand, come idea, cosa particolarmente evidente online, dove il cosiddetto Califfato virtuale rimane un’ispirazione per molti.  

Negli ultimi mesi, anche prima della Pandemia, avevamo assistito a un aumento di episodi e di atti violenti non solo di matrice jihadista, o ad altre forme di radicalismo di origine confessionale, ma ricollegabili anche a forme di estremismo politico violento, anche a sfondo razzista, neonazista, suprematista o all’opposto di matrice anarco-insurrezionale. Quali sono le caratteristiche di queste nuove forme di violenza estremistica?

Mentre il jihadismo, nonostante il parziale declino degli ultimi due/tre anni, costituisce ancora la principale minaccia terroristica per i paesi europei, forme di terrorismo motivate da altre ideologie sono debitamente fonte di preoccupazione crescente. Le autorità nella maggior parte dei paesi europei sono particolarmente allarmate per la crescita, negli ultimi anni, di diverse varianti dell’estremismo di destra. Finora gli attacchi motivati ​​dall’ideologia di estrema destra (concetto vago, viste le molte sfaccettature del movimento) sono stati per la maggior parte perpetrati da individui isolati che senza dubbio appartenevano a una scena informale ma agivano da soli. Ma le autorità temono la crescente sofisticazione e connettività di una scena internazionale di estrema destra. Sebbene questo fenomeno sia stato a lungo evidente online, è sempre più visibile offline. Mi riferisco, per esempio, al flusso di militanti europei verso Russia e Ucraina, dove si aggregano a milizie locali e acquisiscono esperienza di combattimento e capacità operative (in sostanza come militanti di area anarco-insurrezionalista fanno con milizie kurde). La crescita dell’estrema destra innesca anche quella che gli esperti chiamano radicalizzazione reciproca, una dinamica perversa in cui il messaggio e le azioni dell’estremismo islamista radicalizzano ulteriormente e forniscono eccellenti strumenti di proselitismo all’estrema destra esattamente come le la dinamica funziona al contrario—si osserva un circolo vizioso preoccupante.

Anche altre forme di estremismo destano preoccupazione. Il terrorismo di estrema sinistra/anarchico è ancora piuttosto attivo nei paesi dell’Europa meridionale come l’Italia e la Grecia. Gruppi extra-europei che vanno dal PKK curdo all’Hezbollah libanese sono attivi in ​​tutto il continente, sebbene per la maggior parte impegnati in varie attività di supporto e approvvigionamento. Infine, le autorità esprimono preoccupazione per nuove forme di estremismo che sono, al momento, abbastanza marginali ma potrebbero ancora essere problematiche: varie forme di tecnofobia (come si è visto in vari attacchi contro gli alberi 5G da parte dei complottisti del COVID19), culti ispirati a fenomeni americani come QAnon o il movimento Incel.

Nelle dinamiche degli attacchi, o anche nelle forme di radicalizzazione, ci sono dei punti di contatto tra queste diverse forme di estremismo violento e il jihadismo?

Assolutamente. L’emulazione è da sempre una caratteristica del terrorismo: gruppi e individui motivati dalle ideologie più disparate si studiano, si copiano, spesso si ammirano, anche tra “nemici”—nel suo manifesto, per esempio, Anders Breivik, il terrorista norvegese che perpetrò la strage di Utøya, dichiarava la sua ammirazione per al Qaeda, nonostante l’odio per l’islam fosse la sua principale motivazione. A livello di messaggi, tutte le ideologie estremiste hanno dei punti cardine in comune, una narrativa che individua il gruppo a cui appartengono come superiore ma oppresso, identificano un nemico e indicano una soluzione—cambiano i fattori ma le analogie sono molte. A livello tattico, poi, le contaminazioni sono evidenti, basta pensare, per esempio, agli attacchi con veicoli lanciati su pedoni: resi popolari dal movimento jihadista dopo attacchi come quelli di Berlino, New York, Stoccolma e Nizza, sono ormai spesso utilizzati da estremisti di destra (cosa molto evidente negli Stati Uniti, la prima volta a Charlottesville nel 2017 e con grande frequenza contro manifestazioni di Black Lives Matter negli ultimi mesi) e anche da soggetti che semplicemente vogliono uccidere senza avere una specifica ideologia motivante.      

Secondo lei tra gli effetti della pandemia, in Europa, potremo assistere ad un aumento di casi di radicalizzazioni violenta, anche non solo di matrice jihadista?

Alcuni elementi potrebbero farci pensare che così possa essere: la crisi economica derivante dalla pandemia; l’esplosione di odio e teorie complottistiche su internet, luogo dove la pandemia ha inevitabilmente portato molti a passare ancora più tempo di prima; e gli effetti psicologici della pandemia, la tensione e propensione all’aggressione che i lockdown e l’incertezza di questo periodo hanno causato in molti. Detto ciò, mi sembra prematuro predire che questa sia la traiettoria. Anche perché, al tempo stesso, la pandemia ha privato l’estremismo di un fattore fondamentale per la sua diffusione: il contatto umano. Se è verissimo che una buona parte del percorso di radicalizzazione avviene online—spazio che la pandemia ha rinforzato—una parte ugualmente importante (chiaro è che la proporzione tra online e offline cambia di caso in caso) avviene di persona, in piccoli gruppi, cosa che la pandemia ha diminuito. Penso che una risposta a questa domanda sia prematura e comunque diversa da paese a paese, ideologia a ideologia.   

Intervista realizzata da Europa Atlantica


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