Difesa, sicurezza, interessi strategici. Il punto di vista di Pagani

Riceviamo e pubblichiamo questa intervista realizzata ad Alberto Pagani, deputato e componente della Commissione Difesa della Camera.

Come ha funzionato fino ad oggi il processo di commercializzazione dell’industria della difesa, specialmente in ambito navale?

La politica estera e il sistema delle alleanze di un Paese si costruisce sia con la diplomazia, che con la collaborazione nei settori strategici, tra i quali vi è certamente anche quello della Difesa. Le forniture militari sono anche strumenti di posizionamento politico e non rispondo ad una mera logica di mercato. L’export dei sistemi d’arma è regolato dalla legge, che si tratti di un singolo proiettile o di una nave. La “185/90”, che esiste da 30 anni, prevede che le aziende produttrici di armamenti chiedano al governo le autorizzazioni ad esportare e vieta di fornire armi a Paesi in conflitto armato, in contrasto con l’articolo 11 della Costituzione (in cui si afferma che l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli n.d.r.) o che violano i diritti umani.

Segue un indirizzo preciso del Governo/Parlamento?

Certamente i grandi campioni nazionali,  dialogano con il Governo per condividere le politiche industriali, ed anche perché la cessione di sistemi d’arma all’uno piuttosto che all’altro Paese è una parte della politica estera dell’Italia, ed il Governo è ovvio che vi sia interessato sul piano strategico e politico. In secondo luogo, il confronto è d’obbligo anche perché si tratta di aziende controllate dal Tesoro, direttamente o attraverso CDP, per cui gli azionisti sono gli italiani ed il governo deve rappresentarli.

Come viene definito e attuato questo indirizzo?

Dipende ovviamente dall’importanza della fornitura, è diverso se si tratta di una fregata, di elicotteri, di aerei addestratori, si sistemi di difesa dello spazio aereo, radar o missilistici, di mezzi blindati terrestri, o di armamento leggero. Ci sono filiere industriali diverse, ma in ogni caso il ministero della Difesa, attraverso il segretariato generale, il Ministero degli Esteri, attraverso l’unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento, ed il ministero dello sviluppo economico hanno il ruolo principale.

Detto ciò, il Governo nel suo complesso ne può sempre discutere.

In quali casi può il governo impedire una operazione commerciale?

Le operazioni commerciali devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia, vengono pertanto autorizzate nell’ambito delle direttive di Governo e Parlamento. Tuttavia, è la legge stessa che impedisce le operazioni commerciali verso i Paesi in stato di conflitto armato, in contrasto con i principi della Carta delle Nazioni Unite, quelli la cui politica contrasti con i principi della nostra Costituzione, quelli nei cui confronti sia stato dichiarato l’embargo dall’ONU o dalla UE e quelli i cui governi sono responsabili di gravi e accertate violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani.

Cosa può (deve) essere migliorato nella collaborazione tra industrie navali strategiche (cantieristica, tecnologia, logistica) e Stato?

A me pare che ci sia già un’ottima collaborazione, ma bisogna sempre e comunque cercare di migliorare. Il progresso principale potrà essere rappresentato dal cosiddetto G2G. Gli accordi Government-to-Government sono uno strumento strategico di politica industriale, che consente allo Stato di supportare all’estero la propria industria della difesa. Negli ultimi anni si è registrato un notevole incremento degli accordi G2G, non solo nel quadro europeo ma altresì a livello globale, come risposta all’evoluzione degli equipaggiamenti militari in ambito tecnologico, così come delle politiche di difesa e sicurezza. È naturale ed è giusto che il Governo di un Paese che intende acquisire sistemi d’arma complessi, come possono esserlo le unità navali, preferisca interloquire anche con il Governo del Paese dell’azienda fornitrice. Una nave ha una vita lunga decenni, necessità di essere mantenuta in efficienza nei sistemi, non solamente nello scafo, ed avere siglato un accordo con un Governo costituisce una garanzia in più, rispetto a quella che può offrire un’azienda, per quanto importante, che nel corso degli anni può avere varie vicissitudini. La recente modifica della normativa completa il sistema e va in questa direzione.

Fremm all’Egitto: in un momento in cui la nostra Marina ha in servizio scafi con una discreta anzianità di servizio, quanto si è trovato d’accordo con la vendita?

È stata una scelta giusta ed opportuna, le navi della Marina Militare italiana saranno sostituite con unità nuove e l’Italia ha colto giustamente l’opportunità di rafforzare la collaborazione con uno dei più importati Paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Le decisioni relative al procurement militare comportano legami destinati a consolidarsi e rafforzarsi con il tempo, perché quando un Paese decide da chi acquisire un sistema d’arma, sa che decide anche di dipendere in parte dal fornitore per il mantenimento in efficienza dei suoi sistemi di difesa, e quindi per la sua sicurezza.  In questo modo si ridefiniscono anche gli equilibri geopolitici, quelle relazioni tra le Nazioni che sono anche legami tra popoli e producono una visione ed una prospettiva comune del futuro ed anche della sicurezza. Il legame e l’amicizia tra il popolo italiano e quello egiziano è scritto nella nostra storia, coltivarlo è giusto ed è nell’interesse reciproco.

Porti: se da un lato utilizzo di golden power e crescente attenzione a investimenti cinesi sono più che benvenuti, quale può essere una strategia a breve termine che vada a mitigare l’inevitabile incentivo economico rappresentato dalla Cina?

Non esiste questa strategia perché si tratta prima di tutto di una questione politica, poi economica. Bisogna avere chiaro che la collocazione del nostro Paese nel sistema internazionale di alleanze di cui facciamo parte, ed il nostro specifico interesse nazionale, non sono compatibili con la creazione di una condizione di dipendenza economica dagli interessi, dalla volontà e dalle decisioni del partito comunista cinese. È dalla consapevolezza di una visione prospettica e di insieme che bisogna far discendere le decisioni conseguenti sulla portualità, che è un’infrastruttura assolutamente strategia, e non dall’opportunismo dell’una o dell’altra singola realtà locale.

Fino a che punto un indirizzo politico può convincere entità private a non commerciare con i Cinesi?

Le concessioni sono pubbliche, le autorità di sistema portuale che affidano in concessione le attività terminalisti che sono articolazioni dello Stato. I porti sono del popolo italiano, non dei terminalisti che hanno in concessione un terminal.

Non esiste un ulteriore rischio di contraccolpo a impedire transazioni in maniera coatta?

Non si tratta di impedire transazioni, ma di governare un sistema infrastrutturale, impedendo condizioni di monopolio o di dipendenza dagli interessi di parti private, o peggio di una potenza straniera.

Abbiamo individuato nel golden power il bastone, che forma potrebbe avere una carota per compensare? (e non sto suggerendo sussidi)

Non serve una carota, non si tratta di un mercato povero; gli operatori della logistica guadagnano, per fortuna. Bisogna solamente garantire la concorrenza in maniera corretta, far rispettare a tutti le regole, e pretendere che l’attività imprenditoriale sia svolta nell’interesse della collettività, con reali benefici per il territorio e per il Paese, proprio perché si parla di concessioni pubbliche.

Sarebbe auspicabile iniziare a strutturare una cornice legale ed economica in stile “Trade with the Enemy”?

Sarebbe auspicabile avere una vera e solida visione Europea della questione. Ci si sta avvicinando per approssimazioni successive, ma con troppe incertezze, ancora. I Paesi fintosovranisti dell’est Europa sono i più cedevoli nella svendita della nostra sovranità a Pechino, in prospettiva. Se osserviamo ciò che accade con occhio attento ed oggettivo vedremo che le principali falle alla solidità politica dell’Unione Europea stanno nella convinzione di chi pensa di essere più furbo e svelto degli altri nel cogliere le magnifiche opportunità offerte dal gigante economico cinese. E non si rende conto che sta svendendo per due soldi la forza negoziale che avrebbe l’Europa realmente unita.

Può l’Italia aspirare al ruolo di “autorità del Mediterraneo” in ambito NATO, in cambio di una minore coinvolgimento in altri teatri dove la nostra Marina può esprimere un numero limitato di unità e raramente ha il comando delle operazioni?

Noi dobbiamo essere presenti anche fuori dal Mediterraneo, ma è comunque questo il quadrante più importante per il nostro interesse nazionale, essendo l’Italia una media potenza regionale, non una superpotenza. L’ipotesi di rafforzare la nostra presenza nel Mediterraneo è auspicabile, ma non dipende solo da noi, dipende anche dai nostri alleati. Quello che è accaduto in Libia dovrebbe farci riflettere, perché la mancanza di stabilità politica e di sicurezza in quel Paese rappresenta una minaccia diretta anche per il nostro interesse nazionale. In secondo luogo, dovrebbe farci riflettere anche sul fatto che non possiamo affidare la sicurezza e la stabilità del Mediterraneo ad un solo protagonista, anche se questo è un nostro alleato nelle Nato, come la Turchia, ed agisce perseguendo interessi suoi che sono parzialmente e momentaneamente convergenti con i nostri.

Espandendo sulla domanda precedente, come si dovrebbe porre il Paese nei confronti del dossier Libia e del Mediterraneo Orientale, entrambi fortemente influenzati dalla Turchia, che a) vanta la forza navale più numerosa nel Mediterraneo (e in espansione) b) è membro NATO ma c) sembra non curarsene se questo inficia i suoi progetti nazionali in politica estera

In prospettiva dobbiamo tenere conto dell’evoluzione dello scenario geopolitico. La strada per la pace non è rettilinea, e non ci sono scorciatoie. Non abbiamo la pretesa di conoscere che cosa sia meglio per ciascuna Nazione, ma non è credibile che la stabilità del quadrante mediterraneo possa derivare dall’espansionismo turco o della riorganizzazione delle province del decaduto impero Ottomano.

È più ragionevole pensare che la pace e la sicurezza vengano da un equilibrio di potenza a livello regionale, che sia capace di resistere nel tempo e di assicurare la stabilità e il perseguimento degli interessi di ciascuno. L’Italia può ambire ad essere protagonista nella costruzione di questo equilibrio ed ordine regionale, o accontentarsi di esserne spettatore. Quando ad esempio si discute dei nostri rapporti con l’Egitto, di cui mi chiedeva, è proprio di questo che si sta parlando.

Creazione di posti di lavoro: potrebbe un’espansione del polo cantieristico (non più solo riparazioni, ma costruzione) mitigare l’impatto delle chiusure di ILVA e rilanciare il territorio tarantino?

La cantieristica italiana si è specializzata nei settori più ricchi, seguendo un’inflessibile legge dell’economia: il lavoro più povero va dove ci sono i poveri, perché si compete sulla compressione dei costi del lavoro, e quindi dei diritti dei lavoratori, e dei costi ambientali, e quindi della tutela del pianeta e del futuro delle prossime generazioni. Noi non possiamo e non vogliamo risparmiare su ciò che riteniamo più importante, perché vogliamo progredire, non regredire. Questo però ha fatto sì che la nostra cantieristica si sia specializzata sul militare e sulla croceristica, cioè su quanto di più difficile è complesso possa andare per mare. Purtroppo però nella cantieristica mercantile l’Europa sta perdendo ogni anno il 10 per cento del mercato a favore dei cantieri cinesi e coreani. Dobbiamo fermarci a riflettere perché quando saremo completamente fuori da questo mercato cominceremo a perdere progressivamente capacità, fino a quando non sapremo più costruire in modo efficiente e moderno una grande portacontainer o una mega petroliera, e questo io penso che possa di mente se un problema, ed anche essere anche pericoloso. Quando perdi una capacità non la ricostruisci in due e due quatto, ci vogliono anni per rimettersi in pari. L’Unione Europea investe giustamente tanti soldi del proprio bilancio per difendere l’agricoltura nazionale, che altrimenti andrebbe fuori mercato. Ma siamo sicuri che la cantieristica sia meno importante?

Non mi è chiara la risposta: si suggerisce che l’industria in Italia è costosa (perché giustamente attenta alla salute di territorio e operai) ma si dice che la cantieristica non può esser lasciata a se stessa. Sarebbe un’apertura a Taranto possibile economicamente e politicamente?

Non entro nello specifico con un discorso astratto. Senza un piano industriale non si può valutare nulla. Dico una cosa più semplice. Il libero mercato autoregolato non esiste: la Daewoo coreana è forte perché decenni fa la dittatura militare che governava a Seul ha imposto una politica forzata di produzione dell’acciaio in perdita per poter sostenere l’industria dell’auto e la cantieristica navale. Se oggi i cantieri coreani e cinesi hanno la leadership nella cantieristica mercantile è in virtù del sostegno dello Stato, e si una politica pubblica pesante, non del libero mercato.

Particolarmente interessante da chiedere a un parlamentare del suo schieramento, come approcciare le problematiche etiche e l’opinione pubblica legate a questo settore? (pur non essendo strettamente navale, il caso RWM a Domusnovas è esemplare di quanto delicata sia la tematica e l’antinomia posti di lavoro – etica del prodotto)

Non ho capito la domanda: i politici del mio schieramento non sono né anime belle, né poveri scemi. Sappiamo bene che c’è una demagogia ammanta di pacifismo ideologico che semplifica i problemi, senza approfondirli e senza comprenderli, ma quando dobbiamo governare sappiamo anche che non possiamo permetterci il lusso di anteporre vuoti slogan pseudo pacifisti alla realtà. 

Il ricatto che mette la pace contro il lavoro è come quello che mette l’ambiente o la salute contro il lavoro, ed è una trappola nella quale non si deve cadere, perché il progresso tiene insieme la pace, l’ambiente, la salute ed il lavoro.

Lungi da me suggerire una ingenuità diffusa: quello che chiedevo è come fare a continuare a gestire una materia delicata e convincere l’elettorato/l’opinione pubblica che si tratta comunque di una attività necessaria. Ipotizziamo che l’industria della difesa si espandesse: si dovrebbe preferire una strategia di divulgazione onesta ma “realista” o lasciare semplicemente che accada e mitigare possibili proteste solo se dovessero erompere?

La mia opinione è probabilmente minoritaria, ma io credo che si debba dire la verità è spiegare che l’industria della Difesa non è la cospirazione dei produttori di morte, ma il settore industriale che ha la più alta capacità di innovazione e sviluppo tecnologico.  Le industrie del settore della Difesa (tra l’altro i campioni nazionali, Leonardo e Fincantieri, sono aziende di Stato) accedono, per i loro programmi di ricerca e sviluppo, ai fondi destinati dal ministero dello Sviluppo economico, che gestirà sicuramente anche alcune risorse del PNRR finalizzate alla ricerca tecnologica o alla digitalizzazione. Si tratta di investimenti importanti per la ripresa economica e per lo sviluppo del Paese, perché finanziano ricerca di altissimo livello scientifico, che permetterà all’industria italiana di essere competitiva nel futuro, con ricadute positive per tutti i cittadini.

Per comprenderlo, dobbiamo riflettere sulle enormi ricadute che derivano dalla ricerca tecnologica delle aziende della Difesa, e del vantaggio che ne deriva per l’industria civile e per la vita quotidiana. Internet, che utilizziamo per lavorare, per la didattica a distanza dei nostri figli e per il nostro tempo libero, fu inventato per garantire una rete protetta e sicura per vertici politici e militari americani in caso di guerra atomica. Il tessuto impermeabile e traspirante gore-tex, che si usa nell’abbigliamento tecnico e sportivo, deriva dalla ricerca per le tute degli astronauti. Il Gps del nostro navigatore satellitare o il touch screen del nostro smartphone sono applicazioni derivate dalla ricerca militare e finanziante in massima parte da programmi statali. Gli Stati Uniti, che hanno finanziato quella ricerca, vivono ancora di rendita per le invenzioni che ha prodotto e per il vantaggio tecnologico di cui ha beneficiato il loro sistema industriale. Questo ci dovrebbe insegnare che investire nella ricerca militare del massimo livello ci darà ritorni e ricadute nel campo civile di pari livello, ma moltiplicate per mille. Io non credo che siano opportunità da sottovalutare, soprattutto di questi tempi.

Qual è il rapporto tra intelligence, corpo diplomatico, indirizzo politico e industria della difesa? Cosa funziona bene? Cosa si potrebbe migliorare?

In due battute è impossibile rispondere compiutamente, e mi scuso quindi per la semplificazione che uso dicendo che sono la stessa cosa. Ciascuna delle cose che ha detto è menomata senza le altre. L’indirizzo politico senza intelligence è cieco e sordo, e quindi pure stupido. Non esiste la proiezione estera della Difesa disgiunta dalla politica estera, la quale ha bisogno di una buona diplomazia per svilupparsi correttamente ed utilmente. Insomma, i confini tra queste discipline danneggiano il Paese, e la consapevolezza di questa banale verità dovrebbe essere sempre alla base dell’indirizzo politico.

Temo di doverle chiedere di espandere: certamente sono tutte membra di uno stesso corpo, ma nella struttura della pubblica amministrazione sono funzioni espletate da diverse entità e istituzioni. E quindi, come comunicano questi enti? Esiste una comunione di intenti? Dove insorgono i problemi di solito e cosa in generale possiamo migliorare nella collaborazione fra agenzie, ministeri (Esteri e Difesa) e privati?

Se il Governo non ha visione ciascuno va per conto proprio, non c’è alcuna strategia sistemica e non si combina nulla. Se invece il Governo è all’altezza del proprio compito sa definire ed indicare, grazie ai propri strumenti informativi, analitici e strategici, le priorità del sistema Paese. Non credo che funzioni tutto a meraviglia, vedo grandissimi margini di miglioramento perché le agenzie informative, il corpo diplomatico, la rete degli istituti per il commercio estero, le grandi aziende di Stato, non suonano tutte sullo stesso spartito. Ma questo è normale, in tutte le orchestre la musica che suonano gli archi non è uguale a quella degli ottoni o dei legni, perché ciascuno deve fare la propria parte. L’insieme però deve essere armonico, integrato, e deve seguire una logica. Il bravo direttore d’orchestra interpreta la logica dell’insieme e fa suonare a ciascuno la sua musica.


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