Biden e la Cina tra passato, presente e futuro

La vittoria in Pennsylvania ha consegnato di fatto la Casa Bianca a Joe Biden che – salvo dispute legali annunciate da Trump – il 20 gennaio 2021 si insedierà come 46esimo presidente degli Stati Uniti. Quale sarà l’approccio della nuova Amministrazione verso il dossier che nell’ultimo decennio ha assunto la maggiore rilevanza strategica, la Repubblica Popolare Cinese? Alcune evidenze suggeriscono che, nonostante i proclami di molti commentatori, pochi cambiamenti rilevanti della politica estera americana verso Pechino sono da aspettarsi dopo il passaggio di consegne del 20 gennaio.

Joe Biden: il vicepresidente del Pivot

Il primo indizio sul futuro approccio di Biden alla Cina lo si trova nel passato recente. L’Amministrazione di Barack Obama e Joe Biden è stata l’artefice di quel ribilanciamento militare, politico-diplomatico, economico-commerciale verso l’Asia-Pacifico conosciuto come Pivot to Asia. A tal scopo, l’America del ticket Obama-Biden ha avviato il progressivo disimpegno dal Mediterraneo e dall’Europa in favore di una crescente attenzione strategica verso l’Estremo Oriente. Per l’Amministrazione Obama, gli Stati Uniti avrebbero dovuto “coinvolgere ma limitare” la Cina, trattandola come uno strategic partner, ricercando in grandi accordi multilaterali la fonte della stabilità regionale e accompagnando tali iniziative ad un potenziamento della presenza politico-militare nella regione. Pur promuovendo ancora una “relazione costruttiva” con Pechino, allo stesso tempo la National Security Strategy 2015 ha introdotto maggiori elementi di confronto. Il nuovo approccio strategico americano costruito intorno al Pivot to Asia ambiva, quindi, a «gestire la competizione [cinese] da una posizione di forza, insistendo affinché la Cina si conformasse alle norme e alle regole internazionali» (p. 24). Militarmente, il Pivot to Asia si è tradotto nell’Air Sea Battle poco dopo ribattezzato come Joint Concept for Access and Maneuver in the Global Commons, un concetto operativo che enfatizza la necessità di garantire libertà di manovra e accesso dove questi siano interdetti da bolle A2/AD, in primis nel Pacifico occidentale. L’esperienza di Biden da vicepresidente, quindi, suggerisce che, non essendo mutate le condizioni esterne dell’assertività cinese, il futuro approccio americano approfondirà la filosofia dietro il Pivot.

Joe Biden: l’amministrazione Trump e la corsa presidenziale

La monumentale ascesa politica, economica, e sempre più militare della Repubblica Popolare Cinese ha indotto l’Amministrazione Trump ad apportare un parziale ripensamento alla strategia americana nella regione dell’Indo-Pacifico e, più nello specifico, nei confronti della Cina – definita espressamente potenza “revisionista”, ovvero uno strategic competitor in grado di porre una sfida sistemica all’ordine internazionale ­– dalla National Security Strategy del 2017. In tal senso, con la Free and Open Indo-Pacific Strategy, la Casa Bianca ha mirato ad accrescere la presenza statunitense nell’area attraverso il potenziamento dei rapporti bilaterali tra Washington e i propri alleati nella regione Indo-pacifica tra cui Australia, India e Giappone proprio per arginare la crescita di Pechino. Contestualmente, la presidenza Trump ha avviato una possente pressione commerciale – ribattezzata come trade-war – al fine di punire il gigante cinese per le sue pratiche economiche scorrette e allievare il sistema produttivo americano di un concorrente sleale in alcuni settori cruciali.

Di fronte alla nuova postura muscolare di Washington nei confronti di Pechino, l’ex vicepresidente Biden è stato inizialmente critico della politica commerciale – così come della politica estera, definita “miope” – del presidente Trump che, attraverso l’imposizione di numerosi dazi sulle merci cinesi, oltre ad aver avuto effetti negativi sulle relazioni con Pechino ha comportato preoccupanti ripercussioni sugli agricoltori americani. Tuttavia, se inizialmente il 77enne democratico aveva minimizzato la minaccia cinese, successivamente è tornato sui suoi passi sostenendo una politica più aggressiva nel tentativo di contrastare la RPC, accusata da Biden di condurre un capillare spionaggio industriale per “derubare le aziende americane di tecnologia e proprietà intellettuale”.

Joe Biden il Presidente?

In una campagna elettorale pesantemente segnata dal tema Covid-19, è da notare, in generale, la quasi totale assenza di Biden dal dibattito di politica estera. Ciò testimonia, soprattutto per un candidato alle presidenziali, la volontà di astenersi dal prendere posizioni più miti rispetto ad un attore, come la Cina, che è in larga parte inviso all’elettorato a stelle e strisce. Alcune evidenze già suggeriscono quale potrà essere l’approccio che un’Amministrazione Biden adotterà nei confronti della Cina. In primis, il partito democratico non è più moderato del GOP in materia di Cina. Il dibattito politico negli Stati Uniti sulla questione cinese vede sia repubblicani che democratici convergere sulla stessa linea di pensiero: la Cina è un attore sempre più incompatibile con i valori e gli interessi statunitensi. Dunque, è verosimile pensare che l’approccio di Biden sostanzialmente non cambierà rispetto a quello dell’ultimo quadriennio; piuttosto potrebbero cambiare i toni e la ricerca di un maggiore multilateralismo e una più salda cooperazione nei forum internazionali.

Negli ultimi mesi, d’altronde, il presidente eletto ha più volte rimproverato Trump di aver scaricato alleati europei ed asiatici che sarebbero potuti, invece, essere fondamentali in funzione anti-cinese. È interessante notare che, in uno dei primi comunicati da Presidente-eletto, Biden ha accolto con piacere i messaggi di congratulazioni arrivatigli dai leader dei paesi asiatici e del Pacifico e, in una mossa inaspettata, si è riferito all’area strategica come Indo-Pacifico, termine attribuitole principalmente dall’Amministrazione Trump. In questo modo, il Presidente-eletto sembrerebbe condividere l’orizzonte geopolitico dell’amministrazione precedente e richiamare il concetto trumpiano (mutuato da quello di Shinzo Abe) di Free and Open Indo-Pacific che ribattezza come “Indo-Pacifico sicuro e prospero”. L’attuale primo ministro del Giappone Yoshihide Suga ha dichiarato che Biden, durante una telefonata, avrebbe garantito l’applicabilità della clausola di mutua difesa del Trattato nippo-americano anche per le isole Senkaku, che la Cina rivendica da decenni. Tale dichiarazione da parte del Presidente eletto porta sicuramente un sospiro di sollievo al Giappone che da anni denuncia lo sconfinamento delle navi cinesi nelle proprie acque territoriali.

Il 77enne democratico ha, inoltre, espresso in più occasioni posizioni piuttosto severe riguardo alla Cina, verso cui la nuova Amministrazione dovrà adottare un approccio più duro. Inoltre, è interessante sottolineare l’importanza ricoperta dai diritti umani per Biden. Quest’ultimo, infatti, oltre ad aver dichiarato a più riprese di voler sanzionare la Cina in caso dell’imposizione di nuove regole di sicurezza nazionale ad Hong Kong, tramite la sua campagna ha accusato Pechino di “genocidio” nei confronti degli uiguri nello Xinjiang, termine che neanche l’Amministrazione Trump, fortemente critica del trattamento riservato alla popolazione turcofona, aveva mai utilizzato. Biden, infine, ha criticato duramente Trump per non aver mai incontrato il Dalai Lama, figura politica internazionale tra le più invise al Partito Comunista Cinese, che da Presidente, invece, si ripromette invece di incontrare presto.

Interessante, inoltre, sarà capire quali saranno le figure chiave del Gabinetto di Biden e quali posizioni avranno sul dossier cinese. L’attuale scenario interno prevede una maggioranza repubblicana, seppur risicata, al Senato; ciò significa che tutte le nomine politiche del Gabinetto, e non solo, passeranno per il GOP. Dunque, per il Partito Democratico sarà importante ponderare con attenzione le scelte anche in base alle posizioni che i possibili candidati hanno riguardo a Pechino. Cerchiamo di capire quindi chi sarà alla guida dei Dipartimenti chiave nello scontro con la Cina.

Dipartimento di Stato: la principale indiziata per tale Dipartimento sarebbe Susan Rice, ex National Security Advisor di Obama ex Rappresentante permanente alle Nazioni Unite. Rice è stata spesso critica delle politiche cinesi, soprattutto riguardanti lo Xinjiang, ad esempio quando ha definito Zhao Lijian una “vergogna razzista” dopo che il vicecapo della missione cinese in Pakistan aveva preso le difese della politica di Pechino nella regione a maggioranza uigura.

Dipartimento della Difesa: la favorita alla guida del Pentagono potrebbe essere Michele Flournoy, sottosegretario alla Difesa per la politica militare, dal 2009 al 2012, dell’Amministrazione Obama e co-direttrice del Center for New American Security. La Flournoy ha spesso sottolineato come Pechino sia la principale minaccia alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti e dei suoi alleati, criticando Trump per aver lasciato ampio margine di manovra in termini di soft power alla Cina nel corso del contenimento della pandemia da Covid-19. Inoltre, l’ex sottosegretario – commentando la crescente assertività di Pechino nel Mar Cinese Meridionale – ha ribadito che gli Stati Uniti devono mantenere e rafforzare la propria capacità militare di dissuadere la RPC dal commettere qualsiasi tipo di azione che comporti l’uso della forza, sottolineando che molti dei sistemi d’arma a disposizione delle forze americane rischiano di essere vulnerabili agli attacchi di guerra elettronica avanzata e alle capacità cyber di Pechino. Nel giugno 2020, Flournoy ha suggerito che gli Stati Uniti dovrebbero sviluppare la capacità di «affondare tutte le navi militari, i sottomarini e le navi mercantili cinesi nel Mar Cinese Meridionale nel giro di 72 ore».

Dipartimento del Commercio: tale Dipartimento è ritenuto da molti analisti quello in cui Biden potrebbe nominare un politico repubblicano. A tal proposito, Meg Whitman – CEO di Quibi ed ex CEO di eBay – sembrerebbe la favorita. Sarà interessante, chiunque sarà il Segretario, vedere come porterà avanti la politica di imposizione di dazi doganali fortemente perseguita da Trump attraverso la cosiddetta trade war. Che la possibile nomina di un repubblicano sia significativa in questo senso?

In conclusione, le poche evidenze disponibili agli analisti puntano tutte in una direzione chiara: la Repubblica popolare cinese costituirà ancora una volta il dossier fondamentale di politica estera per la prossima amministrazione e difficilmente vedremo un’inversione di marcia rispetto all’approccio muscolare e competitivo adottato negli ultimi anni dalla Casa Bianca.

Lorenzo Termine, Sapienza Università di Roma

Alessandro Savini, Centro Studi Geopolitica.info


Immagine tratta da Pixabay

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