George Washington ai tempi del 5G

Quanto il risultato elettorale americano del 3 novembre potrebbe influire sulla politica internazionale? In particolare, ma non solo, sul fronte del multilateralismo internazionale? Con l’analisi di Matteo Gerlini iniziamo il nostro speciale sul dopo voto USA2020.

L’aspetto più eclatante delle elezioni presidenziali americane è la discrasia fra le complicazioni di un processo i cui essenziali sono contenuti in un documento del Settecento, e la complessità della politica nel mondo digitale del ventunesimo secolo. La stessa maratona televisiva elettorale è stata al fondo una nottata in bianco, essendo chiaro fin dalla chiusura delle urne che senza il conteggio dei voti inviati per posta non si sarebbe potuto realisticamente individuare il vincitore. Voti postali, verifiche sui votanti ed altre procedure che rimandano a una tempistica appartenente al passato, ma che non ci permettono di identificare un quadro chiaro, perlomeno fino al 13 dicembre.

Da parte sua il presidente Donald Trump non ha perso troppo tempo a giocare a golf, come romanzescamente ha riportato stampa, ma ha iniziato già un redde rationem fra i vertici dell’amministrazione, che sarebbe errato leggere come un’italiana tornata di nuove nomine delle partecipate da parte di un governo uscente. Le settimane dell’anatra zoppa (lame duck presidency), durante le quali il presidente è tecnicamente uscente sono un lasso di tempo di grande rilevanza per il bilancio del mandato concluso e per porre le basi della presidenza entrante, coincidendo con l’attività sia dei riconteggi e dei ricorsi, sia del transition team che realizzerà appunto il passaggio delle consegne. Vale la pena ricordare che la prima controversia pubblica relativa al programma nucleare israeliano, e la crisi diplomatica che questa innescò fra Washington e Tel Aviv, si svolse proprio nelle settimane intercorse fra la sconfitta di Richard Nixon nelle elezioni del 1960 e il giuramento di John Fitzgerald Kennedy.

Pertanto ha senso riflettere non tanto su cosa la presidenza cambierà nell’azione internazionale degli Stati Uniti, ma su quel che le prossime settimane possono rappresentare per il sistema internazionale. In primo luogo va considerato l’effetto che la spaccatura del Paese avrà in politica estera, una lacerazione non riducibile alla politica interna. Harry S. Truman governò dopo la prematura scomparsa di Franklin D. Roosevelt un Paese diviso, che indirizzò verso una posizione internazionale rimasta tendenzialmente costante fino al collasso sovietico. Lyndon B. Johnson realizzò le più grandi riforme sociali dopo Roosevelt, entrando anch’egli in carica dopo l’attentato di Dallas, epitome dell’antagonismo feroce di una parte del Paese a Kennedy. L’afflusso al voto e la retorica di queste ultime elezioni testimoniano una contrapposizione a tratti quasi antropologica nel Paese, e tutto questo non potrà non avere un riscontro internazionale. Dallo stato della società americana deriva il tipo e la qualità di impegno che gli Stati Uniti profonderanno nella loro azione internazionale. L’isolazionismo insito nella società politica statunitense fu sconfitto da Truman grazie al senatore Arthur H. Vanderberg, che portò i Repubblicani su posizioni internazionaliste sostenendo in Senato – foro di approvazione della politica estera – il Piano Marshall, la creazione della NATO e quindi la Guerra Fredda. Oggi non è così.

La crisi finanziaria globale del 2008 ha reso l’impero insostenibile, e la presidenza di Barack H. Obama, di cui Joseph Biden era vicepresidente, ha iniziato quella lunga revisione dell’impegno internazionale degli Stati Uniti alla quale Trump ha impresso una sfrenata accelerazione. Gli elementi cardinali dei due mandati di Obama andavano nel senso di una progressiva riduzione dell’interventismo, nel tentativo di mantenere a Washington il baricentro del sistema internazionale giocando su una distribuzione dei gravi. Così sono interpretabili il pivot to Asia, che mirava a mobilitare l’economia transpacifica per contenere l’ipertrofia della Repubblica popolare cinese; la Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), che avrebbe sterilizzato la competizione economica europea; e infine l’Iran Deal, che avrebbe disinnescato la crisi del nucleare iraniano e stabilizzato l’area.

Perseguendo in ultima istanza le stesse finalità, Trump ha disarticolato tutti e tre i cardini. Ha avviato la guerra commerciale con la Cina, cercando di riequilibrare l’offensiva tariffaria di Pechino. Ha silurato la TTIP, acuendo la competizione con l’Unione Europea a beneficio degli investimenti interni. Ha rapidamente stracciato l’accordo con l’Iran, delegando la rappresentanza degli interessi statunitensi alla destra israeliana e alle petromonarchie del Golfo, lasciando loro condurre il gioco politico sia verso l’Iran, che soprattutto verso la Turchia alleata NATO. Senza i cardini, difficilmente Biden potrà ripristinare il meccanismo, ammesso che egli lo ritenga ancora appropriato. Certamente i nuovi dirigenti democratici, se riusciranno a consolidare la loro vittoria, potranno imprimere un cambio di rotta all’unilateralismo trumpiano, rientrando nell’OMS e negli accordi sul clima, tornando cioè al mutilateralismo; ma dovranno trovare nuove soluzioni per le relazioni transatlantiche, ponendo forse con maggior forza la questione del burden sharing delle spese di difesa del continente europeo, in un quadro reso ancor più critico dalla crisi economica innescata dalla pandemia.

La relazione con l’Unione europea sarà uno snodo su cui la presidenza democratica dovrà investire coraggio e fantasia, perché essa può contribuire alla possibilità di Washington di tenere testa alla competizione cinese, ricompattando un blocco euroamericano come sembra stia avvenendo per la decisiva partita del 5G. Sul versante pacifico infatti tutto promette un acuirsi ulteriore del conflitto, perché il capo della Repubblica popolare Xi Jinping ha intrapreso con convinzione la strada dell’indipendenza tecnologica, i cui effetti saranno di una vastità difficile da definire. Ugualmente difficili da definire saranno le questioni interconnesse del mondo arabo, di Israele, dell’Iran e della Turchia, anche se un rinnovato impulso alla NATO potrebbe ricostruire un dialogo con Istanbul piegata dalla crisi economica, uno scenario che implica altrettanto una necessaria revisione della strategia verso la Russia, sempre più presente nell’area.

Infine la pandemia, non nei suoi effetti socio-economici ma nei suoi caratteri “biopolitici”: bisognerebbe ricordare che Trump aveva a suo tempo contrattato l’esclusiva per il vaccino della Biontech, multinazionale con sede a Magonza associatasi con la statunitense Pfizer, che ha dichiarato nelle scorsa ore un’efficacia del vaccino davvero sorprendente. L’esclusiva non è stata concessa, e forse Trump ha perso lì una partita decisiva, perché il vaccino è una parte rilevante della strategia verso la crisi SARS-CoV2, il primo dossier, come si sarebbe detto nel secolo scorso, sul quale la prossima amministrazione dovrà confrontarsi.

Matteo Gerlini


Immagine tratta da Pixabay

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