Tra Trump e Biden come cambia la strategia americana in Medio Oriente

Cambierà l’approccio verso la regione mediorientale degli Stati Uniti nei prossimi anni? Che differenze erano già emerse, negli anni scorsi tra Trump, Obama e i presidenti precedenti? In questa analisi Paolo Salvatori descrive l’evoluzione strategica americana verso il Medio Oriente e le prospettive possibili di collaborazione con l’Europa.

Gran parte della stampa americana ed internazionale sembra essere d’accordo sul fatto che la politica e la società degli Stati Uniti si vada sempre più radicalizzando.

Da una parte, una destra aggressiva, insofferente delle tradizionali forze politiche di riferimento, condizionata dal fondamentalismo cristiano senza escludere fenomeni estremi come il suprematismo bianco, dall’altra una sinistra radicale fortemente orientata alla difesa di minoranze organizzate, di genere o etniche.

Se dunque il fronte interno si conferma piuttosto turbolento, per quanto riguarda la politica estera – ad onta delle impressioni epidermiche e del differente stile che caratterizzerà la presidenza Biden – è prevedibile una sostanziale continuità con il recente passato e una riconferma degli obiettivi principali statunitensi.

È dal 2008, con i nuovi indirizzi strategici di Barack Obama, che gli Stati Uniti si sono scrollati di dosso il fardello del liberismo interventista e l’immane compito di “esportare la democrazia” in nome di un realismo che li ha portati ad affidarsi ad un hub di alleati tradizionali incaricati di presiedere alle rispettive aree di influenza, garantire la stabilità internazionale e, ovviamente, la tutela degli interessi americani.

A questo disimpegno generale fa eco contraria l’interesse primario degli USA verso l’area del Pacifico, il cosiddetto pivot to Asia, che vede contrapposte le due sponde dell’Oceano in una competizione senza esclusioni di colpi per il primato tecnologico, da cui discende, come la storia ci insegna da qualche secolo a questa parte, ogni altro fattore di potenza.

Per noi europei, meri spettatori di questo gioco, è tempo di girare il nostro mappamondo, tradizionalmente centrato sul Mediterraneo, e mettervi al centro un’immensa distesa d’acqua con due accaniti competitor ai suoi estremi. A sinistra i grandi Stati trainanti degli USA, California, Oregon e Washington, a destra le grandi città costiere della Cina, motore mobile, direi vorticoso, del sistema economico, scientifico e tecnologico del Paese. Poco lontano dalle coste e dai confini cinesi, una collana di Paesi, dal Vietnam alla Corea (Nord e Sud), vero e proprio terreno di competizione delle due superpotenze.

Nelle aree di specifico interesse europeo e italiano, invece, non si intravedono grandi mutamenti di indirizzo della politica americana. Ci si riferisce soprattutto ai quadranti nordafricano e mediorientale che attualmente vedono quali protagonisti l’asse formato dalla Turchia e dal Qatar in contrapposizione a quello formato da Arabia Saudita, Egitto ed Emirati Arabi Uniti, tutti tradizionali alleati degli Stati Uniti.

All’interno di questo confronto si muove una galassia di movimenti politici, religiosi, più o meno ispirati e condizionati dai due blocchi. In particolare il movimento politico islamista della Fratellanza mussulmana, ormai entrato nella sfera di influenza della Turchia di Erdogan, accreditatosi come novello erede della tradizione califfale ottomana, che si contrappone a quella  parte di mondo islamico che da decenni subisce l’influenza del Wahabismo istituzionale della Dinastia Saud e che si manifesta nelle forme e nei modi più compositi che vanno da modelli autoritari militar-tecnocratici a fenomeni più complessi che non escludono derive violente, anche di tipo terroristico.

In questo scacchiere tutto interno al mondo islamico, la politica estera americana gioca un ruolo sostanzialmente distaccato, con iniziative ed esternazioni rivolte più ai media che agli attori in campo che poco hanno influenzato il corso degli eventi.

Alla posizione di Obama che è sembrata strizzare l’occhio al movimento della Fratellanza mussulmana è subentrato un atteggiamento da parte di Trump molto più incline a sostenere il tradizionale alleato dell’Arabia Saudita e la galassia di Stati ad essa vicini.

Ma in entrambi i casi questo preteso sostegno non ha impedito un naturale evolversi delle crisi regionali, con esiti spesso opposti alle tiepide simpatie espresse dalle Amministrazioni americane.

Nel primo caso basti ricordare le vicende egiziane a partire dal discorso di Barack Obama all’Università di El Azhar (2009). Quello che allora sembrò una sorta di via libera al processo di democratizzazione dell’Egitto, culminato con la vittoria della Fratellanza mussulmana alle elezioni generali (2012), si risolse qualche mese dopo (2013), in piena contraddizione con gli indirizzi statunitensi, con un colpo di Stato guidato dall’Arabia Saudita e dai suoi alleati.

Durante la Presidenza Trump, invece, gli strettissimi rapporti con gli Stati del Golfo guidati dall’Arabia Saudita non hanno impedito una loro sostanziale sconfitta in Libia, con l’Amministrazione Trump nel ruolo di esclusiva spettatrice.

Molto più interessante e foriero di possibili sviluppi è lo scenario che si pone in maniera trasversale rispetto allo scontro sopradescritto tutto interno al mondo sunnita.

Mi riferisco, in particolare, alla speciale relazione instauratasi tra Israele e gli Emirati del Golfo, importantissima tappa di un processo virtuoso  appuntatosi come medaglia al merito da parte di Trump.  

È presumibile che la nuova amministrazione Biden proseguirà questa politica di appeasement,tentando di includere nel processo di pace l’Autorità Nazionale Palestinese, finora il grande assente del percorso intrapreso da Israele e parte del mondo arabo.  

Non è pensabile, infatti, che la normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Israele e i dirimpettai regionali possa prescindere dalla soluzione del “problema palestinese”. L’entusiasmo con cui il Presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Maazen ha salutato la vittoria elettorale di Biden è uno dei segnali più interessanti che è provenuto dalla regione.   

Se la nuova amministrazione USA si porrà, come tutto lascia supporre, in un rapporto di continuità rispetto alla politica estera di Obama, c’è da aspettarsi anche un miglioramento delle relazioni con il regime di Teheran e un possibile riavvio delle trattative sul contenzioso del programma nucleare iraniano.  

È qui che già si intravedono gli aspetti più critici del prossimo quadriennio in Medioriente. Migliori relazioni tra gli Stati Uniti e l’Iran potrebbero provocare risentite reazioni nel mondo sunnita, guidato da Riyad. Ad un livello “prepolitico”, attraverso complessi processi di azione-reazione tipici dell’articolata galassia wahabita, un’aumentata percezione della minaccia agli interessi sunniti potrebbe provocare un rigurgito del fenomeno terroristico, con imprevedibili ricadute anche fuori dal contesto regionale.  

Da questo punto di vista non va dimenticato che a fronte di un accordo sul dossier nucleare iraniano tra USA/Europa ed Iran e, contemporaneamente, di una stabilizzazione del regime iracheno in senso decisamente filo-sciita, nacque nel 2014, dall’oggi al domani, quel fenomeno passato alla storia come ISIS che conquistò senza colpo ferire vaste regioni a prevalenza sunnita della Siria e dell’Iraq.  

Questo precedente indurrà sicuramente la nuova amministrazione americana alla massima prudenza.  

Se, dunque, il quadro generale delle priorità statunitensi rimarrà tutto sommato invariato, ci sarà un terreno in politica estera su cui Biden si distaccherà sostanzialmente dal suo predecessore? O ci si deve solo aspettare un cambio di linguaggio e di stile che porterà Biden a citare il dittatore nordcoreano come Mr. Kim Jong-un e non più come il rocketman o il fatman di trumpiana memoria?

 Si può ipotizzare, in realtà, che assisteremo ad una rinnovata fiducia nell’altro cardine tradizionale della politica estera statunitense inaugurata da Barak Obama: il sistema delle alleanze, prima fra tutte la NATO, e il forte sostegno alle organizzazioni internazionali che fanno capo all’ONU. 

Questo aspetto, concepito fino al 2008 come strumento per imporre un ordine mondiale liberal-democratico – la cosiddetta politica del “guardiano del mondo” – si è evoluto, sotto l’era obamiana di disengagement, in un sostegno alle Organizzazioni Internazionali che si battevano per la diffusione dei valori di umanità, equità e democrazia. E’ qui che la politica di Trump ha completamente rovesciato il tavolo ponendosi in aperta polemica con il “mondo istituzionale internazionale”.

 Il tycoon, in un’ottica unilaterale più che isolazionista, è stato molto più attivo nello stabilire canali di comunicazione diretti con i singoli Paesi (alleati o meno) a volte pretendendo di giocare il ruolo di leader della maggiore potenza mondiale, garante giocoforza della stabilità del sistema e, allo stesso tempo, quello di ispiratore ed icona del mondo antagonista, contestatore globale se non addirittura complottista. 

È probabile che assisteremo con la nuova Amministrazione USA ad una rivalutazione del multilateralismo e al sostegno all’azione stabilizzatrice delle Organizzazioni Internazionali. Non a caso Biden ha già lanciato segnali in questo senso annunciando il rientro nell’OMS e facendo riferimento ad una prossima adesione alla conferenza del clima di Parigi. 

Anche in Medio Oriente, il rilancio del multilateralismo e del ruolo delle Organizzazioni Internazionali sotto Biden potrà apportare le novità più interessanti. Un accordo definitivo sul conflitto israelo-palestinese, una Conferenza internazionale per la risoluzione dei dossier libico, siriano e iracheno, ancora preoccupantemente aperti, nonché un’accettabile definizione delle rispettive aree di influenza di Turchia e Arabia Saudita, sono tutte possibili sfide che potrebbero vedere gli Stati uniti interessati protagonisti. 

Sembra credibile pensare, infatti, che la stabilizzazione di un’area contigua al loro tradizionale sistema delle alleanze, come quella della piattaforma islamica, possa rientrare nelle scelte prioritarie della nuova Amministrazione americana  in vista di un’ancora più accesa competizione globale che vedrà contrapporre il vecchio mondo occidentale al nuovo che avanza dall’Oriente.

E’ in questa convergenza di interessi in quest’area che la politica estera europea potrebbe trovare spazi di azione e opportunità insperate. Ritrovare le ragioni di un’alleanza storica con gli Stati Uniti, non più all’ombra di uno scudo protettivo, ma cercando soluzioni che possano soddisfare gli interessi di entrambi: è questa la sfida per l’Europa a patto che il fronte europeo sappia trovare finalmente unità di intenti e volontà politica di perseguirli. 

Paolo Salvatori


Immagini tratte da Pixabay

Le opinioni espresse sono personali e potrebbero non necessariamente rappresentare le posizioni di Europa Atlantica

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