ACCORDI DI PARIGI SUL CLIMA: COSA POTREBBE COMPORTARE IL RIENTRO DEGLI USA PROMESSO DA BIDEN

Esce Trump, rientra Biden. L’importanza del Paris Agreement nell’agenda del 46° Presidente e i principali ostacoli al ritorno americano nella lotta al cambiamento climatico globale

Che l’amministrazione Trump non abbia mai gradito gli accordi di Parigi, non è di certo un mistero.

Quello che in pochi sanno però, è che gli Stati Uniti si sono ufficialmente svincolati dal trattato solamente il 4 novembre 2020, nel bel mezzo del conteggio dei voti che avrebbero poi assegnato la vittoria a Joe Biden.

Difatti, la presidenza Trump pur esprimendo l’intenzione di rimuovere gli Stati Uniti dagli impegni di Parigi già nel 2017, si scontrò con l’art.28 del trattato che consente la possibilità di notificare tale volontà solamente dopo tre anni dall’entrata in vigore (4 novembre 2016) che diviene effettiva l’anno successivo[1].

Il neoeletto Biden ha annunciato che il rientro negli accordi sul cambiamento climatico sarà uno dei suoi primi atti da presidente, mirati a invertire la rotta intrapresa dall’amministrazione precedente.

Tuttavia, seppur il ritorno degli Stati Uniti sia certamente gradito e non necessariamente un procedimento lento, non sarà una sfida facile sia per pressioni interne che ostacoli esterni, presentarsi con un progetto credibile e soprattutto in grado di ricostruire la leadership americana sul contrasto al cambiamento climatico. Ma poiché non si può capire il presente senza conoscere il passato, è necessario ripercorrere brevemente le principali novità dell’accordo di Parigi e la sua storia.

Il Paris Agreement

Il Paris Agreement Under the United Nations Framework Convention on Climate Change, chiamato spesso anche come COP21 è un trattato internazionale promosso dalle Nazioni Unite adottato nel dicembre 2015, che mira a ridurre l’emissione di gas che contribuiscono al riscaldamento globale. L’accordo di Parigi si proponeva di migliorare e sostituire il protocollo di Kyoto. È entrato in vigore il 4 novembre 2016 ed è stato firmato da 194 paesi e ratificato da 188.


Le origini di questo importante passo per una presa di coscienza e contromisure al riscaldamento globale risalgono al 2009, quando i negoziatori si incontrarono a Copenaghen per concordare la prossima fase dell’azione internazionale sul cambiamento climatico una volta concluso il Protocollo di Kyoto. Nonostante il summit si rivelò un completo fallimento, nel corso dei sei anni successivi, l’amministrazione del presidente Barack Obama fu in grado di svolgere un ruolo determinante nell’imparare dagli errori commessi in Danimarca e contribuire all’elaborazione dell’accordo di Parigi e nel dare vita ad un clima favorevole nello scenario internazionale.

Il nome stesso – l’accordo di Parigi – fu scelto, in gran parte, grazie agli sforzi degli Stati Uniti. Non c’è differenza tra un trattato e un accordo nel diritto internazionale; tuttavia, la legge interna degli Stati Uniti afferma che i trattati vengono ratificati dal Senato mentre gli accordi esecutivi sono approvati dal Presidente. Pertanto, definirlo “l’Accordo di Parigi” (in contrasto con il Trattato di Parigi o il Protocollo di Parigi) ha permesso all’amministrazione Obama di impegnare con fiducia gli Stati Uniti sul percorso stabilito dall’accordo senza preoccupazioni di un eventuale rifiuto del senato.

Nel tentativo di “ridurre in modo significativo i rischi e gli impatti del cambiamento climatico”, l’accordo chiede di limitare l’aumento della temperatura media globale in questo secolo ben al di sotto di 2 gradi Celsius, mentre persegue gli sforzi per limitare l’aumento della temperatura a 1,5 gradi. Chiede inoltre ai paesi di lavorare per raggiungere un livellamento delle emissioni globali di gas a effetto serra il prima possibile e per diventare carbon neutral non più tardi della seconda metà di questo secolo.

La novità rispetto al passato (nonché la principale fonte di critiche) è che l’accordo stabilisce che i paesi stabiliranno e raggiungeranno individualmente obiettivi specifici per la riduzione delle emissioni, denominati “contributi determinati a livello nazionale” o NDC: una volta che un paese aderisce formalmente all’accordo, non ci sono requisiti specifici su come o quanto esso deve ridurre le emissioni, ma ci sono aspettative politiche sul tipo e il rigore degli obiettivi da parte dei vari paesi. Di conseguenza, i piani nazionali variano notevolmente per portata e ambizione, riflettendo in gran parte le capacità di ogni paese, il suo livello di sviluppo e il suo contributo alle emissioni nel tempo. Questo approccio dal basso richiede impegni universali, ma non uniformi che divergono dagli sforzi dei negoziati passati, incentrati su un impegno di riduzione delle emissioni uniforme da parte dei paesi industrializzati e nessun impegno di riduzione delle emissioni da parte dei paesi in via di sviluppo.

Gli ostacoli per Biden

La decisione di Trump di perseguire una politica ambientale differente implicando l’uscita dall’accordo del più grande emettitore storico del mondo e il secondo più grande emettitore di carbonio dopo la Cina, ebbe importanti ripercussioni e non sortì l’effetto sperato.

Difatti, dopo aver dichiarato l’intenzione di voler abbandonare gli impegni intrapresi a Parigi, si temette un abbandono conseguente di numerosi stati che invece non si verificò. Gli States si ritrovarono quindi isolati a livello internazionale assieme ai 7 stati che non hanno ratificato l’accordo, lasciando il campo in favore della Cina di Xi Jinping che diversamente dal 2009 a Copenhagen dove era stata accusata di aver sabotato i negoziati, si presentava con la volontà di intraprendere impegni seri in favore della lotta al cambiamento climatico, e di acquisire una leadership naturale visto il “peso” delle sue emissioni.

Molto è cambiato in questi ultimi anni, tra l’emersione della Cina come rivale globale degli USA e una pandemia globale ancora in corso. Il ritorno promosso da Biden nell’accordo sarà sicuramente ben accolto, ma è chiaro che se vorrà recuperare la credibilità internazionale perduta sul tema, sarà necessario promuovere degli obiettivi NDC fortemente ambiziosi e in grado di tenere il passo di Pechino.

I principali problemi per la promozione di tali obiettivi saranno quindi legati alla stabilità interna del paese. Donald Trump è stato il volto della negazione del clima negli ultimi quattro anni, ma la sua sconfitta non sarà sufficiente a trasformare gli Stati Uniti in un motore per la ripresa verde globale. Anche con la vittoria del ballottaggio in Georgia, che rende il senato americano pendente verso il partito democratico grazie al voto decisivo della vicepresidente Kamala Harris, tale argomento sarà inevitabilmente connesso alla crisi economica legata al COVID-19 e la grande vittoria di Biden negli stati della “Rust Belt”. La sua amministrazione dovrà essere in grado di trasformare la lotta al cambiamento climatico in ripresa economica e nuovi posti di lavoro, cercando allo stesso tempo di riconvertire quelle attività economiche che seppur inquinanti, rimangono fonte di posti di lavoro e interessi ai quali alcuni senatori potrebbero sentirsi “vincolati”. Una missione non facile quindi, ma non impossibile: la strada è già stata tracciata dagli stati europei con il Green Deal che per Biden rappresentano il miglior esempio e alleato in questo campo nonché il miglior terreno su cui giocare per la ricostruzione delle relazioni transatlantiche. Biden gode anche di un’elevata popolarità internazionale che giocherà a suo favore specialmente nelle sue prime decisioni da presidente. L’intenzione del neoeletto presidente democratico di partire dal climate change non nasce quindi dal caso. L’Europa, la Cina e il mondo intero sono in attesa di scoprire la reazione americana all’ormai tanto decantato declino del gigante americano e l’idea che essa possa partire proprio dall’impegno ambientale internazionale, dove vi è un estremo bisogno di azioni rapide e impegni seri nel tentativo di limitare i danni, è già molto. Ma se Biden potesse collegare l’azione sul clima alla rigenerazione economica, all’occupazione, alla giustizia ambientale e a una politica estera proattiva sia con la Cina che con l’Europa, potrebbe adempiere ai suoi programmi nazionali e internazionali, ristabilendo un clima di cooperazione internazionale di cui il mondo ha oggi più che mai estremo bisogno.

Andrea Bonelli, Laureato magistrale in studi internazionali e geopolitica degli interessi europei presso l’Università di Pisa e ricercatore presso l’International Centre for Defence and Security (ICDS) a Tallinn dove si occupa di Energy Security e delle implicazioni geopolitiche e di sicurezza derivanti dal cambiamento climatico.


[1] https://unfccc.int/files/meetings/paris_nov_2015/application/pdf/paris_agreement_english_.pdf


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