Biden e la Cina tra passato, presente e futuro

La vittoria in Pennsylvania[1] ha consegnato di fatto la Casa Bianca a Joe Biden che il 20 gennaio 2021 si insedierà come 46esimo presidente degli Stati Uniti. Quale sarà l’approccio della nuova Amministrazione verso il dossier che nell’ultimo decennio ha assunto la maggiore rilevanza strategica, la Repubblica Popolare Cinese? Alcune evidenze suggeriscono che, nonostante i proclami di molti commentatori, pochi cambiamenti rilevanti della politica estera americana verso Pechino[2] sono da aspettarsi dopo il passaggio di consegne del 20 gennaio.

Joe Biden: il vicepresidente del Pivot

Il primo indizio sul futuro approccio di Biden alla Cina lo si trova nel passato recente. L’Amministrazione di Barack Obama e Joe Biden è stata l’artefice di quel ribilanciamento militare, politico-diplomatico, economico-commerciale verso l’Asia-Pacifico conosciuto come Pivot to Asia. A tal scopo, l’America del ticket Obama-Biden ha avviato il progressivo disimpegno dal Mediterraneo e dall’Europa in favore di una crescente attenzione strategica verso l’Estremo Oriente. Per l’Amministrazione Obama, gli Stati Uniti avrebbero dovuto “coinvolgere ma limitare” la Cina, trattandola come uno strategic partner, ricercando in grandi accordi multilaterali la fonte della stabilità regionale e accompagnando tali iniziative ad un potenziamento della presenza politico-militare nella regione. Pur promuovendo ancora una “relazione costruttiva” con Pechino, allo stesso tempo la National Security Strategy 2015[3] ha introdotto maggiori elementi di confronto. Il nuovo approccio strategico americano costruito intorno al Pivot to Asia ambiva, quindi, a «gestire la competizione [cinese] da una posizione di forza, insistendo affinché la Cina si conformasse alle norme e alle regole internazionali» (p. 24). Militarmente, il Pivot to Asia si è tradotto nell’Air Sea Battle poco dopo ribattezzato come Joint Concept for Access and Maneuver in the Global Commons, un concetto operativo che enfatizza la necessità di garantire libertà di manovra e accesso dove questi siano interdetti da bolle A2/AD, in primis nel Pacifico occidentale. L’esperienza di Biden da vicepresidente, quindi, suggerisce che, non essendo mutate le condizioni esterne dell’assertività cinese, il futuro approccio americano approfondirà la filosofia dietro il Pivot.

Joe Biden: l’amministrazione Trump e la corsa presidenziale

La monumentale ascesa politica, economica, e sempre più militare della Repubblica Popolare Cinese ha indotto l’Amministrazione Trump ad apportare un parziale ripensamento alla strategia americana nella regione dell’Indo-Pacifico e, più nello specifico, nei confronti della Cina – definita espressamente potenza “revisionista[4]”, ovvero uno strategic competitor in grado di porre una sfida sistemica all’ordine internazionale ­– dalla National Security Strategy del 2017[5]. In tal senso, con la Free and Open Indo-Pacific Strategy, la Casa Bianca ha mirato ad accrescere la presenza statunitense nell’area attraverso il potenziamento dei rapporti bilaterali tra Washington e i propri alleati nella regione Indo-pacifica tra cui Australia, India e Giappone proprio per arginare la crescita di Pechino. Contestualmente, la presidenza Trump ha avviato una possente pressione commerciale – ribattezzata come trade-war – al fine di punire il gigante cinese per le sue pratiche economiche scorrette e allievare il sistema produttivo americano di un concorrente sleale in alcuni settori cruciali.

Di fronte alla nuova postura muscolare di Washington nei confronti di Pechino, l’ex vicepresidente Biden è stato inizialmente critico della politica commerciale – così come della politica estera, definita “miope” – del presidente Trump che, attraverso l’imposizione di numerosi dazi sulle merci cinesi, oltre ad aver avuto effetti negativi sulle relazioni con Pechino ha comportato preoccupanti ripercussioni sugli agricoltori americani. Tuttavia, se inizialmente il 77enne democratico aveva minimizzato la minaccia cinese, successivamente è tornato sui suoi passi sostenendo una politica più aggressiva nel tentativo di contrastare la RPC, accusata da Biden di condurre un capillare spionaggio industriale per “derubare le aziende americane di tecnologia e proprietà intellettuale[6]”.

Joe Biden il Presidente

In una campagna elettorale pesantemente segnata dal tema Covid-19, è da notare, in generale, la quasi totale assenza di Biden dal dibattito di politica estera. Ciò testimonia, soprattutto per un candidato alle presidenziali, la volontà di astenersi dal prendere posizioni più miti rispetto ad un attore, come la Cina, che è in larga parte inviso all’elettorato a stelle e strisce[7]. Alcune evidenze già suggeriscono quale potrà essere l’approccio che un’Amministrazione Biden adotterà nei confronti della Cina. In primis, il partito democratico non è più moderato del GOP in materia di Cina[8]. Il dibattito politico negli Stati Uniti sulla questione cinese vede sia repubblicani che democratici convergere sulla stessa linea di pensiero: la Cina è un attore sempre più incompatibile con i valori e gli interessi statunitensi. Dunque, è verosimile pensare che l’approccio di Biden sostanzialmente non cambierà rispetto a quello dell’ultimo quadriennio; piuttosto potrebbero cambiare i toni e la ricerca di un maggiore multilateralismo e una più salda cooperazione nei forum internazionali.

Negli ultimi mesi, d’altronde, il presidente eletto ha più volte rimproverato Trump di aver scaricato alleati europei ed asiatici che sarebbero potuti, invece, essere fondamentali in funzione anti-cinese. È interessante notare che, in uno dei primi comunicati da Presidente-eletto, Biden ha accolto con piacere i messaggi di congratulazioni arrivatigli dai leader dei paesi asiatici e del Pacifico e, in una mossa inaspettata, si è riferito all’area strategica come Indo-Pacifico[9], termine attribuitole principalmente dall’Amministrazione Trump. In questo modo, il Presidente-eletto sembrerebbe condividere l’orizzonte geopolitico dell’amministrazione precedente e richiamare il concetto trumpiano (mutuato da quello di Shinzo Abe) di Free and Open Indo-Pacific che ribattezza come “Indo-Pacifico sicuro e prospero”. L’attuale primo ministro del Giappone Yoshihide Suga ha dichiarato che Biden, durante una telefonata, avrebbe garantito l’applicabilità della clausola di mutua difesa del Trattato nippo-americano anche per le isole Senkaku, che la Cina rivendica da decenni. Tale dichiarazione da parte del Presidente eletto porta sicuramente un sospiro di sollievo al Giappone che da anni denuncia lo sconfinamento delle navi cinesi nelle proprie acque territoriali.

Il 78enne democratico ha, inoltre, espresso in più occasioni posizioni piuttosto severe riguardo alla Cina, verso cui la nuova Amministrazione dovrà adottare un approccio più duro[10]. Inoltre, è interessante sottolineare l’importanza ricoperta dai diritti umani per Biden. Quest’ultimo, infatti, oltre ad aver dichiarato a più riprese di voler sanzionare la Cina in caso dell’imposizione di nuove regole di sicurezza nazionale ad Hong Kong, tramite la sua campagna ha accusato Pechino di “genocidio” nei confronti degli uiguri nello Xinjiang[11], termine che neanche l’Amministrazione Trump, fortemente critica del trattamento riservato alla popolazione turcofona, aveva mai utilizzato. Biden, infine, ha criticato duramente Trump per non aver mai incontrato il Dalai Lama, figura politica internazionale tra le più invise al Partito Comunista Cinese, che da Presidente, invece, si ripromette invece di incontrare presto[12].

Alla luce delle recenti nomine di Biden sarà interessante osservare quale sarà il loro approccio nei confronti del dossier cinese. Scopriamone i profili:

Dipartimento di Stato: se inizialmente la principale indiziata per tale Dipartimento era Susan Rice, ex National Security Advisor di Obama ed ex Rappresentante permanente alle Nazioni Unite, Biden ha nominato ufficialmente Antony Blinken – vice National Security Advisor (2013-2015) e vice Segretario di Stato (2015-2017) dell’Amministrazione Obama. Adesso sarà interessante vedere, considerando il ruolo di principale artefice della politica estera di Washington, come si comporterà Blinken nei confronti della Cina. Molti analisti suggeriscono che, nonostante abbia più volte detto che Pechino rappresenti la principale sfida per gli Stati Uniti, la sua posizione possa essere nettamente più moderata rispetto al repubblicano Mike Pompeo.

Dipartimento della Difesa: la nomina di Lloyd Austin III come capo del Pentagono[13] è la vera sorpresa tra tutte le scelte di Biden. La principale favorita era Michele Flournoy – sottosegretario per la politica durante l’Amministrazione Obama e co-direttrice del think tank Center for a New American Security – che sarebbe potuta diventare la prima donna a guidare il Dipartimento della Difesa (DoD). Tuttavia, il presidente eletto ha scelto Lloyd Austin – Generale in congedo, 12° Comandante dello US Central Command tra il 2013 e il 2016 nonché Comandante Generale delle Forze Armate americane di stanza in Iraq.

Tale nomina ha ricevuto non poche critiche: in molti si stanno chiedendo se effettivamente sia la scelta giusta per guidare il Pentagono, nato proprio con la necessità di avere un civile al comando e non un militare. L’appartenenza alla Raytheon Company – azienda leader nel settore della difesa – ma soprattutto la sua esperienza prettamente in Medio Oriente rispetto alla regione indo-pacifica (fondamentale per il contenimento cinese) e il fatto che rappresenti lo US Army – spesso considerata la Forza Armata meno rilevante nel contrastare l’assertività cinese – sono i fattori che più gli si recriminano.

National Security Advisor: tra le cariche più importanti, quella del National Security Advisor è una delle poche che non necessita della conferma da parte del Senato. Biden ha scelto Jake Sullivan, ex vice assistente del presidente Obama e National Security Advisor per l’allora vicepresidente Biden, una delle menti dietro il Pivot to Asia.

Dunque, è verosimile pensare che Sullivan si concentrerà maggiormente sull’area dell’Indo-Pacifico[14] per affrontare la crescente sfida posta dalla Cina e per rafforzare le alleanze di Washington in ottica di tale competizione, riducendo la presenza americana in Medio Oriente. Infatti, secondo Sullivan, le precedenti amministrazioni democratiche e repubblicane dalla fine degli anni ‘90 hanno commesso l’errore di dare la priorità alla componente militare nella regione mediorientale a scapito della diplomazia.

Rappresentante per il Commercio: come Rappresentante per il Commercio, ruolo che durante l’Amministrazione Trump ha assunto sempre più importanza, Biden ha scelto Katherine Tai – attualmente capo consulente commerciale della commissione Fisco e Bilancio della Camera dei Rappresentanti.

La scelta di Tai evidenzia come Biden sia intenzionato a perseguire un approccio commerciale più multilaterale per promuovere gli interessi economico-commerciali degli Stati Uniti e affrontare la crescente concorrenza economica e tecnologica cinese, ma non necessariamente in contrasto con l’Amministrazione Trump. In questo senso, il presidente eletto ha dichiarato che non rimuoverà immediatamente i dazi nei confronti di Pechino[15] volendo prima rivedere l’accordo che l’Amministrazione Trump ha stipulato con il governo cinese. Dunque, sebbene Tai possa favorire una maggiore cooperazione con gli alleati, ciò non significherebbe un ammorbidimento nei confronti della Cina.

In conclusione, le poche evidenze disponibili agli analisti puntano tutte in una direzione chiara: la Repubblica popolare cinese costituirà ancora una volta il dossier fondamentale di politica estera per la prossima amministrazione e difficilmente vedremo un’inversione di marcia rispetto all’approccio muscolare e competitivo adottato negli ultimi anni dalla Casa Bianca.

Lorenzo Termine, è dottorando in Relazioni internazionali presso il Dipartimento di Scienze Politiche di Sapienza Università di Roma e Research Fellow del Centro Studi Geopolitica.info. 

Alessandro Savini, è Research Fellow per l’area Stati Uniti del Centro Studi Geopolitica.info e Responsabile di Faro Atlantico: Osservatorio sulla Difesa Euro-Atlantica


[1] A. Savini e L. Zacchi, Dopo #USA2020: analisi del voto e scenari interni, https://bit.ly/2L6vwOC

[2] L. Termine e G. Natalizia, China may be challenging the US-led international order – but not in the way the US thinks, https://bit.ly/2L3JLUl

[3] White House, National Security Strategy (2015), https://bit.ly/3i0ReiT

[4] G. Natalizia e L. Termine, Tracing the modes of China’s revisionism in the Indo-Pacific: a comparison with pre-1941 Shōwa Japan, https://bit.ly/3q0v0R0

[5] White House, National Security Strategy (2017), https://bit.ly/38mm966

[6] J. Pramuk, Biden slams Trump’s trade war even as he calls to ‘get tough’ on China, https://cnb.cx/3npTmli

[7] K. Devlin, C. Huang, L. Silver, U.S. Views of China Increasingly Negative Amid Coronavirus Outbreak, https://pewrsr.ch/2LspCXM

[8] C. Kafura e D. Smeltz, Do Republicans and Democrats Want a Cold War with China?, https://bit.ly/399wUrK

[9] Biden-Harris Transition Team, Readout of the President-elect’s Foreign Leader, https://bit.ly/2L4N4L2

[10] L. Termine, Il convitato di pietra di #USA2020: la Repubblica Popolare Cinese, https://bit.ly/39bWr3x

[11] Z. Basu, Biden campaign says China’s treatment of Uighur Muslims is “genocide”, https://bit.ly/2L3MAVr

[12] Y. Raj, Biden says he will meet Dalai Lama, sanction China over Tibet, https://bit.ly/2Lgjimv

[13] A. Savini, Il Generale Austin al Pentagono? La scelta di Biden fa discutere, https://bit.ly/3hWGJwQ

[14] H. Gugarats, US to try another Middle East reset under Biden, https://bit.ly/2LBsj9l

[15] T. Franck, Biden picks longtime China critic Katherine Tai as top U.S. trade official, https://cnb.cx/2LcGLVC


Questo articolo è un aggiornamento di quello pubblicano nel mese di Novembre.

Le opinioni espresse sono personali e potrebbero non necessariamente rappresentare le posizioni di Europa Atlantica

Immagine tratta da Pixabay

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