L’Amministrazione Biden e le sfide strategiche dell’America

L’intervento di Gabriele Natalizia, Coordinatore del Centro Studi Geopolitica.info e docente di relazioni internazionali alla Sapienza, Università di Roma

L’inaugural address di Joe Biden – al pari di quello tenuto da Barack Obama nel 2009 e da Donald Trump nel 2017 – è stato rivolto principalmente ai problemi interni degli Stati Uniti, riflettendo fedelmente le questioni – Covid-19, economia, diseguaglianze – che erano state al centro della recente campagna elettorale. Persino il “tema dei temi” su cui tradizionalmente si misura l’afflato internazionalista delle singole amministrazioni americane – cosa fare con la democrazia? – è stato declinato in chiave domestica.

Poco spazio, pertanto, è rimasto per la politica estera nel primo discorso che Biden ha rivolto all’America quale suo commander in chief. Nella tradizione politica statunitense, d’altronde, questa è stata di sovente presentata in termini umanitaristico-volontaristici come un’attività a cui il Paese è chiamato – come ebbe a dire il presidente William McKinley – “per il bene dell’umanità” e quasi mai trattata esplicitamente nei termini dell’interesse nazionale. Quanto detto dal presidente, tuttavia, è particolarmente significativo per cominciare a delineare quello che potrebbe essere l’approccio strategico americano nel prossimo quadriennio.

Biden, anzitutto, ha ribadito il suo impegno a “riparare le alleanze”. Tale messaggio è apparso diretto in prima battuta alle cancellerie europee, facendo eco al ritornello America is back che ha enfaticamente avvolto le settimane di attesa all’insediamento del 46° presidente. Estrapolandolo tal contesto a mo’ di titolo di giornale, questo si presta sicuramente a far intendere quello che gli europei sarebbero lieti di poter intendere, ovvero un ritorno al multilateralismo e una rinnovata disponibilità degli Stati Uniti nell’Alleanza Atlantica, soprattutto sui fronti caldi costituiti dal fianco est e da quello sud.

Subito dopo aver definitivo questo obiettivo, tuttavia, Biden si è affrettato ad aggiungere che questo non serve “ad affrontare le sfide di ieri, ma quelle di oggi e di domani”. È opportuno riflettere su tali parole unitamente a quanto sostenuto dal segretario generale Jens Stoltenberg la scorsa estate nel suo intervento su #NATO2030, quando ha parlato della necessità di un approccio globale per l’Alleanza Atlantica di fronte al mutamento negli equilibri di potere determinato dall’ascesa cinese. Se, da un lato, le parole di Biden costituiscono la conferma del suo interesse a rilanciare la Nato, dall’altro fanno supporre che anch’egli sia sostanzialmente d’accordo con l’opinione espressa da Trump secondo cui questa – allo stato attuale – rischi di diventare obsoleta se non sceglie di adattarsi ai tempi nuovi. Tale cambiamento, come noto, la trasformerebbe in un’alleanza sempre meno regionale e imporrebbe una parziale riallocazione di risorse – americane ed europee – al di fuori dell’Europa, cosa poco gradita a quasi tutti gli Stati membri dell’organizzazione (Italia in testa).  

L’obiettivo di “recuperare gli alleati”, inoltre, è stato interpretato anche come una promessa di ritorno al multilateralismo. Anche qui la ricerca dell’auto-inganno sembra colpire molti osservatori della sponda orientale dell’Atlantico. È verosimile che il multilateralismo di Biden sarà più simile a quello di Obama – ovvero a una richiesta agli alleati di maggiore condivisione delle responsabilità nella dimensione della sicurezza (burden sharing) – che a quello di Clinton – ovvero a un loro maggiore coinvolgimento nelle decisioni strategiche. D’altronde, l’ambiente internazionale con cui sarà chiamato a confrontarsi Biden poco ha in comune con quello da cui sono scaturite le politiche di Clinton, costituendo invece un’evoluzione – in senso peggiorativo dalla prospettiva americana – di quello sperimentato da Obama.

A riprova delle profonde differenze che intercorrono tra quanto fatto dall’America negli anni Novanta e quanto sembra disposta a fare negli anni Venti, Biden ha poi aggiunto che gli Stati Uniti non guideranno il mondo solo “con l’esempio del loro potere, ma anche con il potere del loro esempio”. Tale monito sembra confermare quella scelta del retrenchment già compiuta da Obama e Trump, per cui l’America sarà disponibile a ricorrere alla forza solo laddove lo riterrà vitale per i suoi interessi strategici, ma in tutti gli altri casi si limiterà a proporre comportamenti virtuosi e a delegare ai suoi alleati sul campo la responsabilità di conseguire quelli che si profilano come obiettivi comuni.

Cosa fare, invece, con gli avversari del primato americano? Sul punto si può ricavare poco o nulla dall’inaugural speech, mentre sembrano particolarmente interessanti le posizioni espresse dal segretario di Stato Antony Blinken nell’audizione per la sua conferma (su questa audizione e su quelle di Lloyd Austine Avril Haynes, si suggerisce la lettura di Alessandro Savini su Geopolitica.info https://bit.ly/2KDvmhc). Se ne ricavano due importanti continuità – su Cina e Iran – con il solco tracciato dall’Amministrazione Trump e una discontinuità sulla Russia.

Blinken ha ribadito la linea dura con Pechino con cui – ha sostenuto – gli Stati Uniti devono approcciare da una posizione di forza e nei confronti della quale – ha fatto intendere con una vera e propria denuncia delle condizioni della popolazione uigura nello Xinjiang – eserciterà una pressione costante sul tema dei diritti umani. Allo stesso modo, ha confermato la bontà degli Accordi di Abramo (con Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein) e dichiarato che un ritorno al JCPOA con l’Iran è molto lontano e che comunque dovrebbe essere associato a un nuovo accordo sul programma missilistico iraniano e a una rinuncia di Teheran a sostenere quelle milizie ad essa legate che destabilizzano il Medio Oriente (condizione evidentemente inaccettabile per il regime degli ayatollah).

Parzialmente diversa, invece, la posizione del nuovo segretario di Stato sulla Russia rispetto a quella tenuta nell’ultimo quadriennio. Diversamente dall’Amministrazione Trump che si era ritirata dal trattato INF nel 2019, Blinken ha dichiarato di voler arrivare a un nuovo accordo con Mosca rispetto al New START in scadenza all’inizio di febbraio. Tale proposito è ben comprensibile alla luce dell’enfasi posta sul “problema” cinese. Di fronte a una minaccia strategica a cui, ancor più dopo la crisi pandemica, gli Stati Uniti tendono ad attribuire una portata globale, l’approccio del retrenchment richiede di relativizzare le inimicizie minori come quella con la Russia. D’altronde, la ricerca di un’integrazione di Mosca all’interno dell’ordine internazionale a guida americana è stata un’ambizione coltivata da tutti i presidenti americani dopo la fine della Guerra fredda (di questo ne ho parlato con Marco Valigi su The International Spectator https://bit.ly/2LOUmmw). Solo Trump – nonostante le premesse favorevoli a questa politica – non ha percorso questa strada, probabilmente per non corroborare quelle accuse che gli sono poi valse un impeachment. Libera da questi vincoli, invece, l’Amministrazione Biden potrebbe tentarla per evitare di far cadere definitivamente la Russia nell’abbraccio cinese, profilando quello stesso incubo geopolitico che turbò tante notti alla classe dirigente americana negli anni Cinquanta.

Gabriele Natalizia


Le opinioni espresse sono personali e potrebbero non necessariamente rappresentare le posizioni di Europa Atlantica

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *