L’Atlantico tornerà a essere un “lago” occidentale?

Gli effetti presunti e potenziali della Presidenza Biden nelle relazioni tra Europa e Stati Uniti. L’analisi di Marco Valigi

Joe Biden è ufficialmente il Presidente degli americani. Ha vinto una competizione senza esclusione di colpi prevalendo con uno scarto netto sul Presidente uscente Donald Trump. Sorretto da maggioranza schiacciante, da Biden ci si attende una sterzata vigorosa nella definizione dell’agenda politica, nell’organizzazione delle priorità strategiche della nazione e, nondimeno, nei rapporti sia con i partner di lungo corso, come i Paesi europei e il Giappone, sia con i maggiori competitor di Washington, ovvero Cina e Russia. Le relazioni con l’Europa, giunte durante il quadriennio di Trump ai minimi storici, rivestiranno dunque in questa fase il ruolo di osservato speciale, soprattutto dopo la chiusura da parte della Cina degli accordi di libero scambio con Paesi del Sudest Asiatico e del Pacifico, incluso il Giappone.[1]

Con l’Europa i potenziali tavoli negoziali sono molteplici, dall’ipotesi di rimuovere i dazi, alla questione energetica (il cui rovescio della medaglia sono la gestione del surriscaldamento globale e le sue conseguenze), all’eventuale creazione di un fronte comune nel contenimento della pandemia da COVID-19, per finire con il ripristino – magari anche attraverso una significativa revisione della struttura della NATO – dei legami atlantici. Se la questione sanitaria e quella commerciale appaiono ancora in divenire, soprattutto in una fase delicata come la transizione tra Presidenze, sul versante NATO, alcune indicazioni (o auspici) sull’approfondimento della dimensione politica dell’Alleanza sono arrivate dal rapporto NATO 2030. In più di un passaggio, infatti, si ha l’impressione che il Segretario uscente Stoltenberg e gli esperti consultati premano per la creazione di meccanismi istituzionali volti a contenere gli effetti derivanti dall’affermazione di esecutivi populisti oppure da nazionalismi di tipo isolazionista. 

Sul versante delle relazioni con l’Europa, quella di Trump non è stata solo una Presidenza di rottura, ma anche la Presidenza della rottura. Rottura di un legame, quello appunto tra Vecchio e Nuovo Mondo, che aveva consentito all’Occidente di essere la parte più prospera del pianeta, epicentro dello Stato di diritto. Inoltre, l’idiosincrasia, del tycoon verso gli alleati europei ha messo in discussione la stessa mission della NATO – la struttura che aveva garantito ai Paesi occidentali il trionfo nella Guerra fredda e il protrarsi del primato americano sulle altre aree del globo.

Se l’atteggiamento di Trump verso la NATO e l’Europa (in due temi benché non sovrapponibili hanno indubbi punti di contatto) appariva come un paradosso, giustificabile solo in ragione di logiche interne volte a fare presa su un certo tipo di elettorato e su parte della classe dirigente[2] americana, nella sua componente più profonda e meno mediatica, di contro, risultava radicato nella complessa relazione che intercorre tra le due sponde dell’Atlantico – un rapporto basato sul senso di apparenza al contesto occidentale, ma anche sulla consapevolezza che le differenze sia politico-identitarie sia degli interessi sono comunque profonde e stratificate. Proprio partendo dall’ultima considerazione, la Presidenza Biden va indubbiamente accolta con ottimismo, non cieco tuttavia. La maggior parte delle ragioni che rendono quello tra europei e americani un rapporto di complessa armonizzazione non dipendono infatti dai loro leader. A svolgere un ruolo preminente, al contrario, sembrano ancora una volta essere le caratteristiche strutturali degli attori e del contesto internazionale. Tanto per l’Europa quanto per gli Stati Uniti, infatti, quest’ultimo costituisce il maggiore tra i vincoli nella definizione delle rispettive politiche. Un giusto ottimismo verso il cambio al vertice della Casa Bianca combinato con una sana (non cinica) dose di realismo riguardo le diversità strutturali e di interessi tra le due sponde dell’Atlantico sembrano dunque le giuste premesse per avviare un efficace processo negoziale il cui esito potrebbe essere il rinsaldamento di un legame, quello atlantico, che possiede in sé le caratteristiche per bilanciare l’avanzata, talora spregiudicata, di altri attori globali.

In una fase in cui il confronto tra gli Stati Uniti e i loro più diretti concorrenti appare più serrato – la ‘geopolitica’ dei vaccini è infatti solo l’ultima espressione della competizione con Mosca e Pechino – e Washington sembra possedere un ascendente limitato su alcuni alleati di lungo corso – come nel caso di Ankara – per Biden si delinea l’opportunità di ricollocare gli Stati Uniti al vertice della società internazionale e diventare il Presidente della ricostruzione. Colui il quale, insomma, dopo i fallimenti derivanti dall’isolazionismo trumpiano, eventualmente ricompatterà il fronte euroamericano in un complesso geopolitico unitario, rendendo metaforicamente l’Atlantico un ‘lago occidentale’. Il dilemma, tuttavia, sarà sul metodo. Da questo aspetto, infatti, potrebbe dipendere la possibilità di raggiungere con l’Europa un’intesa su base ampia, oppure di attestarsi sulla prospettiva più limitata di accordi legati a singoli temi o comunque non agli obiettivi generali (determinanti) delle rispettive politiche.  

Benché Biden si professi fautore del multilateralismo, di una visione atlantista volta a valorizzare il ruolo della NATO, di un approccio non muscolare ma  centrato sul dialogo e la diplomazia, sia i vincoli interni e sistemici legati alla differenza di rango internazionale e ruolo tra Europa e Stati Uniti sia gli incentivi derivanti da limitatissimi margini di manovra nella competizione con Russia e Cina, nella pratica, potrebbero ridimensionare l’attuale ottimismo verso una lettura cautamente realistica delle politiche che il nuovo Presidente deciderà di attuare. Quanto, insomma, Washington sarà disposta ad accettare un atteggiamento dialettico da parte europea e quanto, invece, userà le leve di cui dispone al fine di produrre un allineamento di posizioni funzionale solo alla conservazione del proprio primato sistemico?

Il grosso della partita concernente le relazioni euroatlantiche si giocherà probabilmente attorno alla questione della legittimità della leadership americana e della relazione tra una potenza insulare di rango egemonico come gli Stati Uniti e un complesso più o meno omogeneo, a seconda delle issue trattate, di medie potenze continentali, con la Gran Bretagna eventualmente impegnata nel ruolo di ‘battitore libero’.  Il lascito principale della Presidenza Trump, se di dote si può parlare in un caso del genere, è una legittimità del primato americano rispetto agli alleati europei ai minimi storici. Pur riconoscendo la superiorità materiale (economica e militare) di Washington, sul versante dei valori condivisi, l’adesione da parte europea a certe politiche della Casa Bianca è indubbiamente tiepida rispetto agli anni di Obama. Come intenderà muoversi Biden, ancora non è chiaro. Sarà in grado, insomma, di elaborare una narrativa aggregante, basata su livelli crescenti compatibilità tra le posizioni di Washington e quelle europee? Oppure pretenderà di ottenere conformità e supporto da parte degli alleati in base a una astratta – benché irrealistica – idea di omogeneità tra i regimi posti sulle due sponde dell’Atlantico?

In questa prospettiva, la questione dei rapporti con la Russia giocherà evidentemente un ruolo cruciale. Se per l’Europa raggiungere una qualche forma di compromesso con Mosca costituisce un obiettivo strategico auspicabile, per Washington al contrario ciò potrebbe costituire un fattore di indebolimento della sua posizione sistemica. Dunque, non sorprenderebbe se, nonostante le buone intenzioni iniziali, l’insicurezza derivamele dall’ipotesi di dover negoziare con l’Europa una posizione condivisa spingerà gli Stati Uniti ad assumere una postura più assertiva, ancorché probabilmente inefficace, con i propri alleati.

D’altra parte, rispetto al buon esito di tale processo di aggiustamento verso un maggiore equilibrio nei rapporti tra USA ed Europa e di riconoscimento reciproco del rispettivo ruolo funzionale, non vanno neppure ridimensionate eccessivamente le scelte europee. Se dinnanzi alla questione russa è legittimo che l’Europa spinga perché Washington mantenga una ragionevole propensione al compromesso anziché alimentare le tensioni in Ucraina, ciò risulterà una pretesa qualora i Paesi europei continuassero a contribuire al bilancio della NATO in maniera inadeguata, ovvero senza raggiungere il 2% del PIL come previsto dagli accordi. Diversamente da un comportamento proattivo tipico di medie potenze militarmente preparate e orientate a supportare fattivamente l’alleato più forte, se la discrasia tra adesione formale alla NATO e contributo materiale alla causa dell’alleanza perdurasse anche in questa fase, la condotta europea evocherebbe l’opportunismo tipico degli attori di secondo piano i quali, dalla relazione con la potenza più forte, cercano non di disegnare politiche, ma di trarre esclusivamente garanzia/protezione la minor costo.

Questo ultimo aspetto, in special modo, ha molto a che fare con la visione che gli europei hanno di loro stessi e di come si pongono nei confronti dell’America, ovvero di come concepiscono la loro strategia, qualora ci fosse, rispetto a quella di Washington. Al di là di qualunque considerazione sulle intenzioni e le capacità di Biden, per le potenze europee (Italia inclusa) definire il proprio interesse ed esplicitare la propria visione strategica (oppure iniziare a elaborane una nel caso ancora fosse opaca) costituisce la condizione imprescindibile per posizionarsi correttamente rispetto a un partner di lungo corso come gli Starti Uniti, quale che sia l’atteggiamento della loro Presidenza.

Marco Valigi


[1] Va ricordato che pur essendo una potenza proiettata sul Pacifico, gli Stati Uniti non fanno parte dei firmatari di questo trattato.

[2] Il significato attributo al termine classe dirigente è in questo contesto quello della cosiddetta “scuola elitista”


Le opinioni espresse sono personali e potrebbero non necessariamente rappresentare le posizioni di Europa Atlantica

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