Quali prospettive nella “special relationship” tra Stati Uniti e Regno Unito?

Con il passaggio da Trump a Biden cosa potrebbe cambiare tra Stati Uniti e Regno Unito? Una nuova stagione del multilateralismo e i legami storici tra Londra e Washington, potrebbero rilanciare anche il dialogo con l’Europa nella necessità di rafforzare i rapporti tra le due sponde dell’Atlantico

Nel simbolico e tradizionale refurbishment dello Studio Ovale voluto da Joe Biden, si è assistito a qualcosa di significativo: viene rimosso un busto di Winston Churchill, padre della patria imperiale britannica e icona di resilienza e, poco più in là, un ritratto di Franklin Delano Roosevelt torna a troneggiare sopra al caminetto, con gli occhi puntati sulle poltrone che ospitano i leader mondiali nei bilaterali. Da un lato, il campione del primato britannico, della visione imperiale del Regno e dall’altro la sua controparte statunitense, protagonista, con lui, degli accordi di Terranova e della Carta Atlantica, ispiratore ideale del multilateralismo con cui è stato forgiato l’ordine economico, politico e strategico mondiale del secondo dopoguerra. Artworks, potremmo dire, ma forse c’è molto di più per farci comprendere il senso del nuovo rapporto USA-UK all’alba dell’amministrazione Biden.

La Carta Atlantica, strumento, per Churchill, per riaffermare, in maniera vana, l’imperialismo britannico, per provocare i sovietici e per richiamarli alla responsabilità per contenere l’aggressività nazista, dopo l’iniziale ed utilitaristico, per Mosca, patto Ribbentrop-Molotov e sigillo, per Roosevelt e per gli USA, della leadership, in un mondo nuovo, tutto da costruire dopo la fine della guerra, quando ancora il successo era di là da venire e solo un’incrollabile fede nelle possibilità dell’America avrebbe potuto così lucidamente prefigurare.

Proviamo a leggere così una scelta “decorativa” di quello che è il luogo simbolo del potere presidenziale statunitense, in un mondo in cui, al di là del COVID, esistono sfide enormi e la ridefinizione della “Special Relationship” non potrà che essere profonda e funzionale alla nuova amministrazione americana.

Boris Johnson, del resto, è stato il primo a comprende cosa significasse quell’annuncio della AP, secondo cui il mondo era cambiato, repentinamente, in una notte di novembre e quanto significasse, per la sua prospettiva politica, un riflusso della “marea” unilateralista. Downing Street faceva pervenire, tra le prime cancellerie mondiali ed europee, le congratulazioni al nuovo Presidente eletto e, da politico non sprovveduto quale egli è, Boris Johnson non perdeva nemmeno un istante per dichiarare la sua soddisfazione, accantonando il Trumpismo, molto prima che il pericoloso meccanismo che ha condotto agli eventi del 6 gennaio, fosse non solo disinnescato, ma anche attivato.

In realtà, i punti di contatto tra Washington e Londra sono ampi e lo stesso Biden ha, nell’ordine, consultato Canada, Messico e quindi Regno Unito, nelle prime ore della transizione, a dimostrazione di quanto questo sia chiaro anche nella mente del neo-Presidente. Che il tempismo avesse importanza, però, lo si era capito con l’allontanamento, il 13 novembre, a riconteggi in corso, di uno dei personaggi chiave dello staff di Boris Johnson, l’hard brexiteer Dominic Cummings, un altro tipo “senza cravatta”, la cui influenza avrebbe potuto rivelarsi non funzionale all’avvio di un confronto collaborativo con Joe Biden sui tanti dossier aperti. L’accordo allo scadere del 2020 tra Londra e Bruxelles, forse, non è stato immune da questo cambio di stile, non solo in termini di “neckwear”, nel team di negoziatori britannici.  

Il nuovo Presidente americano, infatti, ha posizioni ben note sulla brexit (ebbe a chiamarla “pura follia”) e non più tenero fu nel descrivere l’attuale Primo Ministro; tutto ciò pesa moltissimo, negli USA, soprattutto per le ricadute sulla questione irlandese, che, a Washington, viene trattata alla stregua di una quasi politica interna e non c’è spazio, per gli Stati Uniti e per i Democratici, per “scherzare” sull’Irlanda e sull’applicazione dell’accordo del “Venerdì Santo”, anche alla luce del ruolo che lo stesso Bill Clinton ebbe nel negoziato.  Sulla bilancia, ci sono accordi commerciali e una “smoking gun” rappresentata dal ruolo di altri attori europei, primi tra tutti la Francia (che il Presidente Biden ha chiamato “il nostro più antico alleato”, si noti la coincidenza, proprio contro le giubbe rosse di Lord Cornwallis nella guerra di indipendenza) ed il Presidente Macron che, nell’agenda del telefono del 46esimo Presidente, ha trovato posto sul rigo immediatamente successivo a quello occupato da Downing Street.

Il neo-Presidente americano, infatti, non ha alcuna intenzione di dimostrarsi lontano dagli amici europei e dall’EU, anche in virtù del peso che l’Unione Europea potrà svolgere nell’approccio multilateralista che Biden darà alla sua azione internazionale e che non prevede che il “vecchio continente” diverga dalla linea degli Stati Uniti su tutta una serie di dossier che non possono essere affrontati solo con una “Global Britain” tutta ancora da disegnare, con spinte centrifughe da parte delle nazionalità che la compongono e con difficoltà evidenti nell’affrontare la pandemia.

Va da sé che su IranRussia, Cina, cambiamento climaticoNATO e sicurezza, Biden seguirà un approccio multilaterale, ben lontano dalle relazioni unilateralistiche di Trump, e Boris Johnson, sempre più solo, avrà chiaro come la marea “sovranista” montante del 2016, stia ritirandosi, non consentendo più di fare affidamento su un fronte che, per gli scorsi quattro anni, è sembrato essere granitico. Fortunatamente, Johnson condivide con Biden molte opinioni sui temi in agenda, a partire dal cambiamento climatico, e questo gli consentirà di allinearsi al multilateralismo della nuova amministrazione, senza dover fare troppe concessioni alla sua strategia mediatica e senza gravi contraddizioni politiche, soprattutto interne. Significativo il fatto che nel 2021, la Gran Bretagna dovrà essere l’autorevole ospite di appuntamenti come il G7 ed il Summit COP26, co-presieduto dall’Italia, a Glasgow, che sono tra le massime espressioni di quell’approccio multilaterale da cui Trump si stava disimpegnando e che Johnson dovrà, per rinsaldare la “Special Relationship”, sposare senza tentennamenti.

Inevitabile pensare come il Regno Unito dovrà quindi moderare le sue fughe solitarie e ricostruire, anche al di là della Manica, relazioni più collaborative con l’Unione Europea, che sarebbero utili anche all’Europa su molti temi, a partire da quello della sicurezza, a meno di non rischiare di trovare un interlocutore più rigido, a Washington, in termini di accordi, commerciali, strategici e politici. A tale proposito, non sfugge l’interesse europeo di ricostruire con Londra una seconda “Relazione Speciale”, nonostante le attuali criticità, che possa delegare, almeno in parte, alla mediazione di Downing Street il rammendo ed il riallineamento degli interessi di quello che durante la guerra fredda era definito “emisfero occidentale”. Non sfugge che questa “relazione” potrebbe avere un considerevole impatto sia in sede NATO, nella gestione del Mediterraneo meridionale e orientale (compresa la relazione complessa e fluida con la Turchia – a tale proposito si ravvisa che il neo SoD è stato già a capo del CENTCOM), sia nelle complesse relazioni con la Russia, con la necessità di limitare l’influenza del blocco di Visegrad in seno all’Unione Europea. La Commissione Von der Leyen intende esplicitamente rafforzare il suo ruolo di player anche politico, strategico ed industriale globale e questo obiettivo potrebbe essere facilitato proprio da una ridefinizione di un dialogo proficuo con il Regno Unito. Forse, proprio questa potrà essere una concreta possibilità per far svolgere quel ruolo di “Global Britain” che il Primo Ministro britannico intende ritagliare per il suo paese.

Antonello Fiorucci


Immagini tratte da Pixabay

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