Quali sfide per l’America di Biden in Medio Oriente?

L’analisi di Riccardo Redaelli e Alessia Melcangi per lo Speciale di Europa Atlantica su USA2020

Nell’ormai lontano 2008, un libro di Ken Pollack, A Path out of the desert, fece molto rumore nei circoli governativi di Washington, riflettendo anche l’aspirazione di molti politici a “sganciare” la politica estera americana dalle infide sabbie del Medio Oriente. Illusione vana: guerre civili, terroristi, nemici veri e presunti, alleati troppo intraprendenti…insomma tutto il caleidoscopio variopinto dell’instabilità di quella macro-regione ha finito per tenere gli Stati Uniti con gli scarponi inchiodati nei deserti mediorientali.

La presidenza di Joe Biden non farà probabilmente eccezione. Ma come si pongono le diverse potenze regionali nei confronti del nuovo inquilino della Casa Bianca e delle sue annunciate scelte politiche o come potrà recuperare credibilità la nuova Amministrazione? A essere moderatamente inquieti appaiono paradossalmente propri gli alleati storici degli Stati Uniti, ossia Israele, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti (EAU): paesi che hanno beneficiato – sotto la presidenza Trump – di un sostegno totale e aprioristico, che ha permesso loro ogni azione, anche la più temeraria (o efferata), senza timore di contraccolpi. Questa sorta di bonus geopolitico incondizionato sembra stia per finire, pur garantendo i vincoli di alleanza e amicizia. Forse anche per questo, il discusso premier israeliano Bibi Netanyahu vede nelle ennesime elezioni anticipate di marzo 2021 un mezzo per rafforzarsi all’interno e per poter dialogare con Biden da posizioni più sicure, rispetto alla precarietà del passato governo di coalizione. I sauditi, e in particolare l’erede al trono Mohammad bin Salman, sono in una posizione più difficile: le tante avventate iniziative politiche e militari da quest’ultimo volute (dallo Yemen all’embargo contro il Qatar, dai discutibili proxy usati in Siria all’ossessione anti-Iraniana, senza citare l’omicidio del giornalista Kashoggi) rendono il regno saudita un alleato necessario ma giudicato spesso severamente dall’entourage del partito democratico. E, per quanto utile, non basta la convergenza totale con la destra israeliana. Sicuramente gode di maggior credito la politica degli EAU, soprattutto dopo la firma degli “Accordi di Abramo” con Israele, che ha rafforzato l’immagine di quella che a Washington amano chiamare la “Piccola Sparta”. La realtà però è che Abu Dhabi è senz’altro piccola, ma è dubbio che sia veramente forte e determinata come Sparta, come dimostra la sua fallimentare strategia in Libia per combattere l’islam politico dei Fratelli Musulmani (vera “minaccia esistenziale” degli Emirati) e la Turchia, usando come un ariete il generale Haftar e contando sull’appoggio militare indiretto russo (tramite i mercenari del Wagner Group).

Proprio lo scenario libico sarà una delle cartine di tornasole della politica mediorientale di Biden. Fin dai tempi della presidenza Obama, Washington ha mantenuto un atteggiamento oscillante fra la prudenza, il disinteresse e la vera e propria evanescenza. Ma oggi quel paese vede l’emarginazione delle potenze europee (che pagano la fragilità della politica estera dell’Unione e le meschine rivalità fra i suoi stati membri) e l’ascesa come attori di riferimento strategico di una Turchia sempre meno ancorata alla Nato e di una Russia che da anni dimostra di saper sfruttare al meglio ogni occasione per rafforzare il suo ruolo e la sua presenza regionale. Libia, Yemen e Siria sono tre grandi conflitti (risolti o ancora in corso) in cui gli Stati Uniti hanno giocato poco, svogliatamente e soprattutto male le loro carte. E hanno dimostrato che attori locali e regionali, anche di peso limitato, dispongono di margini di iniziativa autonoma impensabili durante la Guerra Fredda o la breve illusione dell’Unilateralismo degli anni ’90. La capacità di condizionamento da parte delle grandi potenze, almeno in questa regione, è diminuita e le potenze locali faranno di tutto per mantenere questa relativa autonomia.

Ma è assolutamente evidente che la questione centrale per gli Stati Uniti nel Medio Oriente allargato rimane, come ormai da decenni, l’irrisolta questione iraniana. Il governo del presidente pragmatico Hassan Rowhani aveva puntato tutto sul raggiungimento di un compromesso sul programma nucleare (il celebre Joint Comprehensive Plan of Action – JCPOA) con il Presidente Obama. Scommessa perduta, purtroppo. Perché, dopo la firma dell’Accordo nel 2015, Teheran non ha raggiunto gli sperati vantaggi economici, mentre dall’insensato ritiro unilaterale deciso dal presidente Trump – attuato per compiacere gli alleati regionali e per l’ossessione anti-iraniana della sua disastrosa amministrazione –, l’Iran è entrato in una spirale di crisi economica e di radicalizzazione politica. Biden ha promesso di riportare Washington al tavolo del JCPOA: una promessa molto difficile da mantenere. In parte perché le sanzioni create da Trump non saranno facilmente eliminabili, ma soprattutto perché oggi a Teheran le fazioni degli ultra-radicale e dei conservatori ostili a ogni compromesso con l’occidente sono dominanti.

La “massima pressione” contro l’Iran vagheggiata da Trump si è risolta infatti in una pericolosa radicalizzazione del frammentato regime iraniano e in un ulteriore rafforzamento dell’ala massimalista dei Pasdaran. Stretto fra la crescente impopolarità e la drammatica crisi economica in patria, mentre all’esterno i rischi della sua iper-estensione regionale hanno accentuato l’ostilità dei suoi oppositori, la Repubblica islamica si avvia a nuove elezioni presidenziali che sanciranno con tutta probabilità il consolidamento della parte peggiore del regime. Che sembra voler porre condizioni volutamente irricevibili per il ritorno di Washington al tavolo dell’accordo nucleare, in parte come risentimento per il senso di “tradimento” subito. Ma in parte anche perché i gruppi più oltranzisti ritengono vantaggioso tatticamente sul piano interno mantenere alta la pressione, enfatizzando i meccanismi di securitization. Tutto ciò si scarica a livello regionale, in particolare in Iraq – paese lacerato da troppe irrisolte shatterbelt geopolitiche e identitarie – divenuto l’ambito privilegiato per le proxy war fra le contrapposte potenze.

Insomma, le sabbie mediorientali, ancora una volta, sembrano essere tanto pericolose quanto imprevedibili per le amministrazioni americane. Al nuovo presidente Biden il compito di ridisegnare una strategia più credibile, meno sbilanciata e che finalmente torni a perseguire un progetto coerente per l’intera regione, e non solo una giustapposizione di scelte contingenti scoordinate. Di certo, non potrà contare sull’aiuto dei vari protagonisti attivi su quel palcoscenico. Certo non sui nemici, ma difficilmente anche sugli amici.

Alessia Melcangi, ricercatrice e docente di Storia contemporanea del Nord Africa e del Medio Oriente, Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche (DISSE), La Sapienza Università di Roma; Non-resident Senior Fellow, North Africa and Middle East Program, Rafik Hariri Center for the Middle East, Atlantic Council, Washington  

Riccardo Redaelli, direttore del Master in Middle Eastern Studies (MIMES), Direttore del Centro di Ricerca sul Sistema Sud e il Mediterraneo Allargato (CRiSSMA), Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano


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