Da Obama a Biden passando per Trump. Come cambiano comunicazione e politica nell’America di oggi

Dalla vittoria di Barak Obama nella primarie democratiche al successo di Joe Biden, passando per i quattro anni di Donald Trump. Come è cambiata la comunicazione e la politca negli USA, nel tempo dei social network”. L’analisi di Alberto Pagani

Quando, alle primarie del partito democratico americano, Barack Obama conquistò la nomination per le elezioni presidenziali degli Stati Uniti, riconobbe di non essere mai stato il candidato con maggiori possibilità di successo. In carica c’era il 43° Presidente, il repubblicano George Walker Bush, figlio di George Herbert Walker Bush, che era stato il 41° Presidente, dal 1989 al 1993.

Bush figlio aveva goduto di una forte crescita di popolarità dopo gli attentati terroristici alle torri gemelle dell’11 settembre 2001. Era il Presidente della seconda guerra del Golfo (il padre era stato quello della prima), ma alla fine del suo mandato incrociò la drammatica grande recessione mondiale del 2008, scatenata l’anno precedente dalla crisi dei subprime e del mercato immobiliare americano. Fu grazie a queste particolari circostanze che si affermò per la prima volta la figura di un outsider alle elezioni presidenziali americane.

Inizialmente la candidatura di questo giovane e sconosciuto senatore afroamericano, dal nome strano, sembrava del tutto improbabile e senza alcuna possibilità di successo. Per contro, Hilary Clinton avrebbe dovuto essere una corazzata inarrestabile, con tutta la potenza del nome Clinton e dell’establishment americano nei motori, per portarla all’approdo della Casa Bianca senza troppe difficoltà. Tuttavia le cose non andarono come gli analisti politici ed i giornalisti di tutto il mondo prevedevano.

Quell’establishment che avrebbe dovuto spingerla si era mutato improvvisamente in una zavorra tale che anziché sostenerla l’affondò, e fu così che l’improbabile diventò realmente possibile. Lo spin doctor di Hilary Clinton era un vero guru dei sondaggi e dell’analisi politica, capace di sezionare e targhetizzare l’elettorato in maniera scientifica, per convincere ogni elettore con il messaggio più mirato ed efficace, mentre quello di Obama si chiamava David Axelrod[1], ed era uno sconosciuto nel mondo della comunicazione politica, perché era un pubblicitario, ed impostò la campagna delle primarie come se si trattasse di vendere un qualsiasi prodotto commerciale.

Poche parole, semplici, evocative, ripetute all’infinito: Yes we can, Change. Il messaggio era la biografia stessa di Obama, figlio di un immigrato africano, cresciuto da una madre sola, giovane, idealista, formatosi nel mondo del volontariato sociale. Infatti Obama lanciò la sua candidatura scrivendo due libri: i sogni di mio padre, la sua autobiografia, e L’audacia della speranza. Lo storytelling biografico evocava più un sistema di valori che un programma politico. Incarnava il sogno americano, l’idea che chiunque, contando sul proprio talento e sul proprio impegno, sfidando difficoltà e fatica, ce la può fare. Anche un ragazzo di colore, alto, dinoccolato e con il nome strano, può diventare il Presidente degli Stati Uniti d’America. Per finanziare la sua campagna l’outsider Obama puntò sulla Silicon Valley, la terra degli outsiders come lui, e bussò alle porte di quei giovani imprenditori che dal nulla avevano creato i colossi della New Economy. Non portò a casa solo il sostegno morale ed i cospicui finanziamenti che sperava di ottenere, ma anche l’aiuto materiale del lentigginoso e giovanissimo Chris Hughes, un ragazzo poco più che ventenne che, insieme al suo compagno di università Mark Zuckerberg, aveva fondato Facebook.

Hughes creò per lui MyBarackObama.com, che portò la comunicazione politica dall’era della televisione in quella del social network. Non si trattava infatti semplicemente del sito internet/vetrina del candidato alla Presidenza, ma di una piattaforma social vera e propria, cioè dello strumento con cui creare, organizzare e motivare milioni di sostenitori, attivisti e volontari.

Nella nuova era digitale il messaggio di Barak Obama colpì nel segno, arrivò forte e chiaro anche a chi era poco attento alla politica, infatti la sua candidatura riportò al volto elettori delusi, elettori che non avevano mai votato, giovani, millennials. Alle elezioni presidenziali Obama sconfisse John McCain, un degnissimo candidato, un Repubblicano serio, credibile, un eroe della guerra in Vietnam.

Le presidenziali del 2008, forse anche più dell’elezione che portò nel 1961 John Fitzgerald Kennedy alla Casa Bianca, rappresentarono un emblematico cambio di paradigma. C’è chi sostiene che allora sia stato decisivo il primo dibattito elettorale televisivo della storia, nel quale un giovane e brillante JFK, sorridente ed abbronzato, in abito scuro e cravatta sottile, fece apparire vecchio e triste il povero Nixon, nel suo completo grigio topo, che la televisione in bianco e nero confondeva con lo sfondo. Il sociologo e massmediologo Marshall McLuhan, che coniò la celebre espressione “il mezzo è il messaggio”, non avrebbe potuto trovare un esempio più calzante nel campo della comunicazione politica.

L’avvento di un nuovo strumento, in entrambi i casi, imponeva un modo nuovo, ed un linguaggio nuovo, per trasmettere all’elettorato un’idea, un’impressione, un’emozione. Tuttavia il medium è soltanto lo strumento che veicola qualcosa che, con una maggiore o minore capacità, evoca un sentimento. In entrambi casi fu vincente la capacità di generare speranza e fiducia nel futuro, che JFK sintetizzava nella metafora della nuova frontiera ed Obama in una sola parola: hope!  Lo storico Yuyval Hoah Harari[2], nel un suosaggio bestseller 21 lezioni per il XXI secolo, sostiene che “i referendum e le elezioni riguardano sempre i sentimenti, e non la razionalità delle persone.” Pensare che i cittadini, con il loro voto, rispondano alla domanda “che cosa pensi?” e non “che cosa provi?”, ritiene che sia un errore comune. Invece, nel bene e nel male, le elezioni ed i referendum non riguardano quello che pensiamo, ma quello che proviamo.[3] “L’assunto fondamentale della democrazia è che il sentire umano rifletta una misteriosa e profonda libera volontà, che questa libera volontà sia la struttura originale dell’autorità e che, anche se alcuni sono più intelligenti di altri, tutti sono

liberi allo stesso modo.[4] Ma, conclude così la sua riflessione il professor Harari, “questa fiducia nei sentimenti potrebbe rivelarsi il tallone di Achille della democrazia liberale. Perché, quando qualcuno, (a Pechino o a San Francisco) avrà messo a punto la tecnologia per controllare abusivamente i sentimenti e per manipolarli, la politica democratica si trasformerà in un teatrino di marionette emotive.”

L’elezione di Donald Trump avviene in una fase storica critica per tutto l’Occidente, e registra un cambiamento che, con diverse sfumature, ha attraversato tutte le democrazie liberali. Anche Trump, come il suo predecessore, era un candidato improbabile. Un miliardario di destra, con un linguaggio ed uno stile decisamente sopra le righe, totalmente estraneo alla politica dei partiti, delle carriere e delle “dinastie” che storicamente caratterizzano la politica americana. Anche Trump, a modo suo, è un outsider che sbaraglia l’establishment. Prima conquista a sorpresa la nomination repubblicana, e poi la Presidenza.

Ma come è possibile che un personaggio così improbabile conquisti la nomination repubblicana, doppiando Ted Cruz, Marco Rubio e John Kasich? Come è possibile che riesca poi a sconfiggere anche Hilary Clinton (questa volta vincitrice delle primarie democratiche) alle presidenziali? Analisti, sondaggisti e commentatori sono nuovamente colti di sorpresa. E’ curioso invece come un regista cinematografico, Michael Moore, già il 24 luglio 2016, nella conferenza-documentario “TrumpLand”[5] avesse elencato con lucidità i motivi per cui Hillary Clinton avrebbe perso[6], indicando come primo punto “La matematica del Midwest”.

Moore sosteneva che Trump si sarebbe concentrato “sui quattro stati blu della cosiddetta “Rust Belt” a nord dei Grandi Laghi: Michigan, Ohio, Pennsylvania e Wisconsin” dove, dopo aver analizzato i dati delle primarie, aveva compreso il suo vantaggio[7]. Il regista ricordava quanto fosse arrabbiata la Middle class e quanto lo fossero gli operai. Una rabbia che a suo avviso sarebbe stata riversata nelle urne[8]. Inoltre Moore vedeva nella candidatura di Trump  l’ultimo baluardo del “furioso uomo bianco”[9], sostenendo che l’era patriarcale non fosse ancora pronta per una Presidente[10], che a suo dire era impopolare anche fra le giovani donne, in quanto rappresentante della “vecchia politica”, e tra i fans di Bernie Sanders[11], anche per via della scelta del vice[12].

Ricordando l’elezione di un improbabile wrestler professionista a governatore del Minnesota, negli anni ’90, Moore sostiene che gli elettori “non l’hanno fatto perché sono stupidi, né perché pensavano che Jesse Ventura fosse un grande statista o un fine intellettuale politico. Lo hanno fatto solo perché potevano”. Proprio come hanno fatto con Donald J. Trump, eleggendolo Presidente degli Stati Uniti.

Per quanto l’analisi del regista possa sembrare grossolana ed ideologizzata, coglieva un punto centrale delle elezioni del 2016: come accadde con Obama nel 2008, gli elettori americani volevano un cambiamento radicale, che potesse rappresentare la rottura del “sistema”. Trump rappresentava ai loro occhi proprio quel cambiamento. Questo sentimento venne senz’altro aiutato dall’attività in internet di Cambridge Analityca, l’arma segreta che lo stratega della campagna elettorale di Trump, Steve Bannon[13], aveva messo in campo. Bannon aveva cominciato a lavorare al suo ambizioso programma già nel 2013.

L’idea era costruire profili dettagliati di milioni di elettori americani su cui testare l’efficacia di molti di quei messaggi populisti che furono poi alla base della campagna elettorale di Trump. Bannon approvò una spesa di circa un milione di dollari per acquisire (pare illegalmente) i dati personali di milioni di elettori americani da Facebbok, [14] grazie alla collaborazione del manager Alxander Nix[15] e dello psicologo Aleksandr Kogan[16]. Di nuovo siamo di fronte ad un’innovazione tecnologica paradigmatica dell’uso della rete. Anche Barak Obama, nella campagna per la sua seconda elezione aveva utilizzato sapientemente e massicciamente Big Data ed A.I., ma con modalità e capacità manipolatorie dell’opinione pubblica assolutamente non confrontabili a quelle messe in campo da Steve Bannon per l’elezione di Donald Trump, che rievoca espressione del prof. Harari, citata precedentemente: “quando qualcuno, (a Pechino o a San Francisco) avrà messo a punto la tecnologia per controllare abusivamente i sentimenti e per manipolarli, la politica democratica si trasformerà in un teatrino di marionette emotive”.

Le elezioni presidenziali degli Stati Uniti d’America sono sempre al centro del dibattito pubblico mondiale. Nel 2020 l’affluenza alle urne è stata la più alta dal 1908. Dopo quattro anni di presidenza Trump si ripresenta agli elettori in un contesto decisamente sfortunato, ed ostile alla sua rielezione.

La carta della crescita economica su cui aveva scommesso gli sfugge di mano, e l’epidemia Covid 19, gestita in maniera piuttosto approssimativa e superficiale, gli costa molto. Il consenso che aveva conquistato nella prima parte del mandato, effetto di trascinamento soprattutto della sua inaspettata elezione, viene vanificato dagli eventi dell’ultimo anno.

In questo contesto avviene la competizione elettorale con il candidato democratico Biden che lo sconfiggerà alle presidenziali. Biden non può certo essere definito un outsider, come i suoi due predecessori. E’ un politico di lungo corso, il più anziano Presidente mai eletto negli Stati Uniti. con alle spalle ha tutta una vita di esperienza nei palazzi del potere di Washington D.C. Da quando, nel lontano 1972, venne eletto per la prima volta Senatore per lo Stato del Delaware, Biden non ha mai perso un’elezione.

Gli anni a fianco di Obama, nel ruolo di vicepresidente degli Stati Uniti, hanno fatto sì che Biden sia praticamente identificabile come il candidato dell’establishment. E allora come mai si è invertita la tendenza e Sleepy Joe (così lo chiamava dispregiativamente il suo avversario per tutta la campagna elettorale) vince così largamente? 

Biden è uno dei maggiori esponenti dell’ala moderata del Partito Democratico, nato nel 1942 da una famiglia di umili origini di discendenza irlandese, e di fede cattolica. Si era già candidato alle primarie del Partito Democratico per le presidenziali del 1987, quando gli USA stavano uscendo dal secondo mandato dell’anziano e popolarissimo Presidente repubblicano Ronald Reagan. Apparteneva alla generazione dei baby boomers, gli americani nati tra gli anni quaranta e cinquanta, che erano molto numerosi ed influenti, e pareva essere uno dei candidati più carismatici e con maggiori chance di successo, soprattutto dopo il ritiro di Gary Hart. Commise errori nella campagna elettorale che lo costrinsero a ritirarsi, e alla fine fu Michael Dukakis ad aggiudicarsi la nomination, per essere poi sconfitto malamente da George Bush (padre).

Quando ci riprova le condizioni sono molto diverse rispetto ai lontani anni ottanta. Quella del 2020 è la campagna elettorale più costosa di sempre, circa 14 miliardi di dollari, nonostante la pandemia. Un fiume di denaro, praticamente il doppio del 2016. Il primo indicatore dell’apeal dei due candidati è il fatto che la macchina elettorale Democratica ha raccolto il doppio di quella repubblicana. Solitamente il candidato che ha maggiore facilità nella raccolta fondi è quello che ha anche maggiori possibilità di successo, ed il vantaggio nella disponibilità economica aumenta conseguentemente le sue chances;  è la profezia che si auto avvera. 

La maggior parte di queste risorse viene investita in pubblicità, televisiva in primis, sms marketing, e nei costi per il funzionamento dello staff elettorale, in ciascuno dei 50 stati dell’Unione. Dunque marketing politico ed organizzazione. Se è vero l’assunto del professor Harari che l’epressione del voto non è un’azione razionale, ma è dominata dalla componente emotiva, l’umanizzaione del personaggio è essenziale, perché lo stile comunicativo del candidato sia coinvolgente e credibile, l’elettore si senta partecipe delle sue posizioni e si convinca a votare per lui.

Alla base delle strategie elettorali ci sono sempre dei target specifici. L’ascesa di Trump è stato sintomo di una radicalizzazione degli americani. La sua elezione è stata la conseguenza di questa tendenza, non la causa, per quanto il presidente uscente abbia contribuito a diffondere con le sue posizioni estremiste una visione del mondo polarizzata e radicalizzata. In fondo le persone votano per chi sentono più affine.

Il politologo Francis Fukuyama, nel suo libro Identità, sostiene che la politica stia diventando sempre più una questione identitaria. In un mondo globalizzato, nella società che Baumann definiva liquida, priva di punti di riferimento forti, dove il singolo individuo può sentirsi smarrito, il bisogno di definire e vedere riconosciuta la propria identità porta il cittadino a votare per chi percepisce come suo credibile portavoce.

Per ottenere l’obiettivo di essere percepiti tali i candidati vengono supportati da team di esperti in comunicazione, psicologia e sociologia, che cercano sfruttare al meglio l’enorme potenzialità dei media, tradizionali e digitali, con una strategia comunicativa coerente ed efficace. Le tecniche di marketing politico, con cui ogni candidato adegua la propria identità al suo target elettorale, che utilizzano sempre piattaforme diverse (social network, newsletter, giornali online e spot televisivi) in maniera integrata e con uno stile specifico, disegnano il profilo e la fisionomia del candidato. L’ identitaà politica di Trump è stata sin da principio caratterizzata da posizioni estremiste, anticonformiste ed esplicitamente volte a sollevare polemiche. Il monopolio dell’attenzione pubblica è ottenuto proprio grazie al suo comportamento da outsider, volutamente anti-politically correct.

Durante il suo mandato però si sono palesate le degenerazioni di questo continuo “one man show”. Secondo gli analisti fact-checker del Washington Post, Trump avrebbe espresso oltre 16mila affermazioni false dall’inizio del suo mandato; significa una media di più di trecento rivendicazioni infondate per mese. Non si può dire quindi che le fake news fossero un punto di debolezza dell’amministrazione Trump, perché rispondevano ad una precisa e deliberata strategia di comunicazione.

Nella campagna presidenziale 2020 il presidente uscente ha continuato sulla stessa linea, dipingendosi come “one man against the world”, uno contro tutti, irriverente e sempre vittorioso (anche contro il coronavirus). Ogni aspetto che lo riguarda indica volontà di affermazione sopra gli altri, e questo risponde allo scopo di colpire una tipologia preciso di elettore. Donald Trump è un prodotto perfetto del politainment, figlio della trasformazione in esperienza emotiva della politica moderna. Nelle sue due campagne elettorali ha sdoganato l’uso sistematico del falso in politica, ha radicalizzato il confronto politico ed ha così dato un duro colpo alla democrazia americana. Lo dimostra il fatto che l’elezione di Biden da una parte di elettorato è stata percepita “illegittima” perché Trump, con suoi “I won the election” ed i banner anti-fakenews, ha manipolato la narrazione degli eventi e, di conseguenza, una parte di opinione pubblica.

Gli eventi di Capitol Hill ne sono soltanto la tragica conseguenza. Non bisogna sottovalutare il forte impatto sulla società che può avere la comunicazione politica, e le sue conseguenze concrete si sono potute vedere nel comportamento delle persone che, per la prima volta nella storia delle elezioni presidenziali americane, hanno reagito al risultato delle urne con un’azione concretamente eversiva.

Il Presidente della prima potenza mondiale, di qualunque partito sia, contribuisce con le sue parole a plasmare il mondo, per questo sarebbe meglio che fossero sempre parole responsabili ed equilibrate. Nella campagna delle presidenziali 2020 la differenza del tono di Biden da quelle di Trump è stata evidentissima, essendo il democratico decisamente più pacato dell’avversario, anche nelle critiche più forti, come quelle relative alla gestione della pandemia.

Si potrebbe dire che la sua fisionomia comunicativa si sia definita in negativo rispetto a quella di Trump, utilizzando a proprio vantaggio il malcontento degli ultimi mesi. Biden ha scelto di rivolgersi a una platea più attenta ai contenuti che alla loro spettacolarizzazione. Seguendo le ore della presidenza Obama ha cercato di trasmettere un messaggio di inclusività, senza assume toni aggressivi. Ha puntato sui temi opposti a quelli dal presidente uscente, dal cambiamento climatico, al sistema assistenziale, alle questioni razziali. Anche i suoi comizi si sono tenuti nel pieno rispetto delle regole anti-contagio (persino nella forma di drive-in), all’opposto di quelli organizzati da Trump. La strategia comunicativa dei democratici si è concentrata proprio sull’enfatizzare queste differenze tra i due contendenti.

Sulla rete il budget investito è stato enorme, sia sui canali Google che sui social, tanto che solo a Facebook, tra agosto e novembre, sono andati ben 74 milioni di dollari.  Le sponsorizzazioni su YouTube e Ads, le campagne display, e gli spot con testimonial come Snoop Dogg, nonché la comunicazione live dei candidati Biden ed Harris, doveva generare traffico e portare le persone sul sito IWillVote.com (riporponendo in modo aggiornato la strategia di MyBarakObama.com), dove era possibile informarsi sulle modalità di voto e richiedere di votare a distanza, registrandosi sulle liste elettorali (procedura obbligatoria in USA). Tutti gli utenti che avevano visitato il sito sono stati poi raggiunti attraverso un sistema di email marketing, basato su messaggi personalizzati, che li hanno portati ad esprimere realmente il voto.

Per convincere i ragazzi tra i 18 e i 20 anni a votare, sponsorizzando contenuti su TikTok, Snapchat e Fortnite, non tanto per spiegare il programma politico, quanto per invogliare al voto, mostrare come si fa, e spingere poi a votare davvero. La comunicazione di Biden non era particolarmente originale o fantasiosa (appello al voto, il sostegno degli Obama, l’impegno attivo della moglie Jil, con l’obiettivo di rendere più simpatico ed umano il profilo di Biden), ma era compensata da quella della vice, Kamala Harris, molto popolare sui social.

Nel complesso si può dire che la campagna elettorale è stata “tecnicamente” quasi perfetta, ma c’è da chiedersi se la vittoria di Biden sia più dovuta alla forza del suo progetto politico, all’efficacia della comunicazione dello staff dem, all’antipatia suscitata dal suo avversario ed alle sue difficoltà oggettive, o ad un cambiamento degli orientamento politici profondi della società americana.

Oggi è presto per dirlo, ci vorrà ancora un po’ di tempo per capire se la schiacciante vittoria elettorale di Biden su Trump segna l’inizio della fine politica della grande onda globale del populismo nazionalista o rappresenta la rivincita dell’establishment sugli outsider. Comunque, per la maggioranza degli americani la sua vittoria è stata una speranza di ripresa da tempi caotici e incerti. Joe Biden è il candidato più votato della storia del Paese e quello che è certo è che il 20 di gennaio si è insediato alla Casa Bianca un uomo che dà più peso alle parole, e al modo in cui vengono dette, di quello precedente.


[1] David Axelrod fu ingaggiato anche da Mario Monti per promuovere la sua immagine ed il partito Scelta Civica, che aveva creato per le elezioni politiche del 2013. Malgrado la tecnica comunicativa, basata sullo storytelling, fosse più o meno la medesima, il successo che produsse fu indubbiamente minore di quello di Obama.

[2] Yuval Noah Harari è uno storico israelinao, professore dell’Università di Gerusalemme, autore di saggi divenuti bestseller tutti pubblicati in Italia da Bompiani: Da Animali a Dei del 2014 (ancora oggi un best seller mondiale); Homo Deus del 2017; e il recente 21 lezioni per il XXI secolo. Nei suoi libri il Harari sostiene che il futuro dell’umanità, cioè della assoluta maggioranza degli uomini, viene deciso da una assoluta minoranza che egli definisce come il “buco nero del potere” e la cui influenza cresce esponenzialmente attraverso il controllo delle informazioni sui media, sempre più sofisticato e pervasivo con metodi di intelligenza artificiale. La narrazione liberale, dice, comincia a mostrare molte crepe anche per quanto riguarda la sua dichiarata connessione con la libertà. Infatti la libertà individuale non è solo tarpata dal blocco dell’informazione, come avviene nei regimi autoritari, ma anche dall’inondazione, spesso pilotata, di disinformazioni e di distrazioni come sta sempre più avvenendo ai giorni nostri.

[3] “Se la democrazia fosse una questioni di decisioni razionali, non ci sarebbe motivo di garantire alla gente il suffragio universale – o forse qualunque diritto di votare. E’ cosa nota e documentata che su specifiche questioni

economiche e politiche alcuni son o più informati e razionali di altri. Dopo il voto sulla Brexit, l’eminente biologo Richard Dawkins protestò sostenendo che alla vasta maggioranza del pubblico britannico – compreso lui stesso – non si sarebbe dovuto chiedere di votare al referendum perché no ava la necessaria competenza politico-economica “A questa stregua si potrebbe indire un plebiscito nazionale per decider Einstein ha fatto tutto giusto con la sua algebra o permettere ai passeggeri di decide su quale pista dovrebbe atterrare il pilota”. Yuval Noah Harari, 21 lezioni per il XXI secolo, Bompiani, 2018, p. 83.

[4] “E quando si tratta del sentire, Einstein e Dawkins non sono migliori di nessun altro. (…) Come Einstein e Dawkins, anche una cameriera non istruita possiede una libera volontà, quindi il giorno delle elezioni i suoi sentimenti – rappresentati dal su voto – contano tanto quanto quelli di chiunque altro.” Ibidem, p. 83.

[5] https://www.huffingtonpost.it/michael-moore/5-motivi-per-cui-donald-trump-vincera_b_11166616.html

[6] Moore aveva avvertito gli statunitensi e anche il mondo che il miliardario, ostacolo dai suoi stessi compagni di partito, avrebbe schiacciato l’ex First Lady: “Donald J. Trump vincerà a Novembre. Questo miserabile, ignorante, pericoloso pagliaccio part-time, e sociopatico a tempo pieno, sarà il nostro prossimo presidente. Presidente Trump. Forza, pronunciate queste parole perché le ripeterete per i prossimi quattro anni: “PRESIDENTE TRUMP”. In vita mia non ho mai desiderato così tanto essere smentito”. Ibidem

[7] “Trump è avanti ad Hillary negli ultimi sondaggi in Pennsylvania mentre ha pareggiato in Ohio. Pareggiato? Come può la corsa essere così ravvicinata dopo tutto quello che Trump ha detto e fatto? Be’ forse perché ha detto (correttamente) che il sostegno dei Clinton al NAFTA ha contribuito a distruggere gli stati industriali dell’Upper Midwest”. Ibidem

[8] “Trump colpirà Clinton sul supporto che Hillary ha accordato al TPP e ad altre politiche commerciali che hanno sontuosamente fottuto gli abitanti di questi 4 stati. Durante le primarie in Michigan Trump, all’ombra di una fabbrica Ford, ha minacciato l’azienda che se, avesse portato avanti il piano di chiudere la fabbrica e trasferirla in Messico, lui avrebbe applicato una tariffa del 35% su ogni vettura fabbricata in Messico e rispedita agli Stati Uniti. È stata musica per le orecchie degli operai del Michigan. Inoltre, quando Trump ha minacciato i vertici della Apple che li avrebbe costretti a fermare la produzione di iPhone in China, per trasferirla esclusivamente in America, be’ i cuori sono andati in estasi e Donald ne è uscito trionfante, una vittoria che sarebbe dovuta andare al governatore vicino, John Kasich. Da Green Bay a Pittsburgh, questa America, amici miei , è come il centro dell’Inghilterra: al verde, depresso, in difficoltà, le ciminiere che punteggiano la campagna con la carcassa di quella che chiamiamo Middle Class. Lavoratori arrabbiati, amareggiati, ingannati dall’effetto a cascata di Reagan ed abbandonati dai Democratici che ancora cercano di predicare bene ma, in realtà, non vedono l’ora di flirtare con un lobbista della Goldman Sachs che firmerà un gran bell’assegno prima di uscire dalla stanza. Quello che è successo nel Regno Unito con la Brexit succederà anche qui. Elmer Gantry rivive nelle vesti di Boris Johnson e dice qualunque cazzata riesca ad inventarsi per convincere le masse che questa è loro occasione! L’occasione per opporsi a tutti loro, quelli che hanno distrutto il loro Sogno Americano! E ora l’Outsider, Donald Trump, è arrivato a dare una ripulita. Non dovete essere d’accordo con lui! Non deve nemmeno piacervi! È la vostra Molotov personale da lanciare ai bastardi che vi hanno fatto questo! Mandate un messaggio! TRUMP è il vostro messaggero!”. Ibidem

[9]  “La nostra era patriarcale, durata 240 anni, sta arrivando alla fine. Una donna sta per prendere il sopravvento! Com’è successo? Sotto i nostri occhi. Ci sono stati segnali d’allarme, ma li abbiamo ignorati. Nixon, il traditore, che ci ha imposto il Titolo IX, legge che stabilisce pari opportunità nei programmi scolastici sportivi. Poi hanno lasciato che le donne guidassero jet commerciali. Prima che ce ne rendissimo conto, Beyoncé prendeva d’assalto il campo del Super Bowl (il nostro gioco) con un esercito di Donne nere, col pugno alzato, a dichiarare che la nostra supremazia è finita. Ah, l’umanità.” Ibidem

[10] Con un linguaggio poco politicaly correct Moore aveva elaborato il probabile sillogismo di maschilisti e razzisti: “Ed ora dopo aver sopportato per otto anni un uomo nero che ci diceva cosa fare, dovremmo rilassarci e prepararci ad accogliere i prossimi otto anni con una donna a farla da padrone? Dopodiché, per i successivi otto anni ci sarà un gay alla Casa Bianca! Poi toccherà ai transgender! Vedete che piega abbiamo preso. Finiremo col riconoscere i diritti umani anche agli animali ed un fottuto criceto guiderà il paese. Tutto questo deve finire”. Ibidem

[11] “Quando il sostenitore medio di Bernie si recherà alle urne quel giorno per votare, seppur con riluttanza, per Hillary, esprimerà il cosiddetto ‘voto depresso’: significa che l’elettore non porta con sé a votare altre 5 persone”

[12] “Scegliere un ragazzo bianco, moderato, insipido e centrista come candidato alla vicepresidenza non è proprio la mossa vincente per dire ai millennial che il loro voto è importate”. Ibidem

[13] Bannon, già numero uno del magazine ultraconservatore Breitbart News, entrò a far parte del board della società Cambridge Analytica di cui è stato vicepresidente dal giugno 2014 all’agosto 2016, quando divenne uno dei responsabili della campagna elettorale di Trump. Fu lui che aiutò a lanciare la società grazie ai finanziamenti dei suoi ricchi sostenitori, a partire dal burattinaio informatico miliardario Robert Mercer, affascinato dall’intelligenza artificiale, e dalla figlia Rebekah, finanziatori generosi delle varianti più conservatrici della politica americana e non solo.

[14] “Nel 2013 sbarca a Londra un giovanotto canadese di 24 anni. Ha in tasca un PhD sulle «Previsioni nelle tendenze della moda» e un’idea sovversiva: rivoluzionare il marketing politico con una specie di «porta a porta» digitale. Si raccolgono i profili delle persone, si analizzano e poi si confeziona un messaggio su misura. Wylie prepara il contenitore e fonda Cambridge Analytica, una società di analisi. Nel 2014 l’incontro, anzi l’impatto con Steve Bannon. Christopher lo descrive alla reporter Cadwalladr in questi termini: «Ero il giovane gay, vegano, canadese che stava fornendo a Steve Bannon gli strumenti per la sua guerra psicologica». Per convincere il sessantaquattrenne direttore di Breibart , la voce online della destra radicale americana, il «gay-vegano-canadese» usa la metafora dei sandali Crocs: «Non si può dire che siano belli, eppure tutti li vogliono». Ora si trattava di mettere la Brexit e poi Trump al posto dei sandali.” Il testo integrale dell’articolo di Giuseppe Sarcina, pubblicato sul Corriere della Sera, si può leggere qui: https://www.corriere.it/esteri/18_marzo_21/facebook-steve-bannon-ex-stratega-trump-supervisore-cambridge-analytica-3260a46a-2cbb-11e8-af9b-02aca5d1ad11.shtml

[15] “Non poteva mancare la figura del manager. Eccolo: Alexander Nix, 42 anni, di Londra, studi all’Eton College (la scuola dell’establishment britannico), laurea all’Università di Manchester. Nel 2003 lascia la finanza per occuparsi di «comportamento e comunicazione politica». Dirige la Strategic Communication Laboratories Group, fino a quando Bannon e Mercer lo scelgono come amministratore delegato di Cambridge Analytica. 
Nix, a quanto pare, sbrigava anche il lavoro sporco. Adesso è nei guai: ieri è stato sospeso dalla società per un video trasmesso da Channel 4 News . Si vede il distinto manager offrire «belle ragazze dell’Ucraina» per discreditare l’avversario politico di un suo cliente nello Sri Lanka. Prostitute e, forse, anche tangenti. Armi di complemento nella «guerra psicologica» dichiarata, unilateralmente, da Bannon e i suoi.” Ibidem.

[16] “Dove e come procurarsi i profili dei navigatori? Ci pensa Aleksandr Kogan, 31 anni, nato in Moldova, cresciuto a Mosca fino all’età di 7 anni, quando la famiglia emigrò negli Stati Uniti. Ha studiato Psicologia a Berkeley e ha conseguito un PhD nell’Università di Hong Kong. Nel 2012 diventa assistente alla cattedra di psicologia a Cambridge, in Gran Bretagna. Conduce una serie di ricerche sofisticate, ma per la Analytica escogita un trucco da imbonitore digitale. Crea la app Thisisyourdigitallife che offre «un esame della personalità compiuto da un team di psicologi». Kogan la colloca sulla piattaforma Facebook e aspetta. Abboccano in 270 mila: scaricano la app che, in realtà, è una specie di sifone usato per risucchiare i dati sensibili dei sottoscrittori e dei loro amici. In totale 51 milioni di profili sottratti senza il consenso degli interessati. Materiale prezioso per gli intrugli di Bannon.” Ibidem


Immagini tratte da Pixabay

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