Incognite e questioni aperte sul futuro della Striscia di Gaza

Dopo gli scontri dei giorni scorsi, una fragile tregua per ora sembra reggere. Ma tra le molteplici problematiche e le incognite, quali prospettive per il futuro della pace e della sicurezza sia in Israele che nella striscia di Gaz

Chiunque volesse provare a ricostruire la storia della striscia di Gaza nel suo complesso rapporto con Israele e con il resto del mondo palestinese, si troverebbe a dover districare una matassa di situazioni e relazioni afferenti a categorie che urtano pesantemente contro le categorie giuridiche e politiche  che si pensano – rectius “si penserebbero?” – consolidate tra lo strumentario dell’analisi politica e della politica internazionale.

Innanzitutto, cosa è Gaza?

Giuridicamente parlando, dovrebbe trattarsi di una exclave del territorio palestinese sotto l’amministrazione palestinese, che tuttavia non è uno stato e questo complica il tutto a maggior ragione che, secondo alcune interpretazioni, l’occupazione israeliana non è mai cessata, stante che Israele ne controlla le acque territoriali, i confini e il commercio con l’estero. Un ulteriore elemento di confusione è dato dal fatto che il potere amministrativo, o quel che ne rimane, è esercitato da Hamas in pieno conflitto con Al – Fatah, che invece lo esercita nel restante territorio palestinese e in aperta inimicizia l’uno con l’altro.

E infine, si tratta di un potere  sostanzialmente autocratico, visto che non si è proceduto ad elezioni dal 2006, ed esercitato manu militari da parte di una organizzazione terroristica – per l’appunto Hamas – che come ci ricorda Boaz Ganor in una attenta analisi nel Jerusalem Post, è estremamente razionale ed ha meticolosamente pianificato gli attacchi cui assistiamo in questi giorni.

In altri termini, non è possibile definire Gaza con precisione utilizzando le nostre usuali categorie, a meno di non ricorrere al vecchio concetto di “protettorato” (in questo caso israeliano), ma anche questa ipotesi alla fine risulta una forzatura in quanto non esiste uno Stato di Gaza e allo stesso modo non regge la definizione di territorio occupato in quanto, sic et sempliciter, non esiste una autorità israeliana – militare o civile – che eserciti un reale controllo.

Probabilmente, allo stato attuale, la natura della striscia di Gaza potrebbe essere meglio identificata come quella di uno stato spurio, ossia mancante di uno dei tre requisiti per dirsi stato (ordinamento giuridico originario, territorio e popolo) in cui manchi il primo dei requisiti, ossia l’ordinamento giuridico originario, la sovranità, in altri termini qualcosa di simile ai territori che nel medioevo si trovavano sotto il controllo degli ordini cavallereschi e crociati con la differenza che a “dettare legge” (nel vero senso della parola) non sono più gli ordini cavallereschi, ma una spregiudicata organizzazione paramilitare finanziata anche da stranieri.

In questo senso Gaza, per tali entità esterne che finanziano Hamas rappresenta una potenzialità, ma anche un grande pericolo: perché una sua reale indipendenza,  una reale sovranità, da sola o con il resto del territorio palestinese, e l’entrata in pieno nel gioco diplomatico internazionale, potrebbe decretare  la riscrittura degli equilibri nell’area, e questo lo sa bene anche Israele.

E’ necessario prendere coscienza che Gaza, in questo momento, occupa – per così dire – la stessa “nicchia ecologica” storica che fu occupata negli anni 30 del secolo scorso da Danzica, con tutti i rischi che ne conseguono.

Essa potrebbe costituire un detonatore formidabile ed Israele potrebbe non avere aspirazione a far cessare il problema, abbandonando definitivamente il controllo della striscia, oppure a portare fino in fondo la sua azione, imponendo magari manu militari – insieme ad altre potenze dell’area – la pacificazione definitiva e la messa in sicurezza della striscia.

Prendiamo atto infatti che tale stato fantasmatico della striscia potrebbe essere funzionale a troppi interessi: da cui sorge spontaneo il parallelo con l’operazione “Piombo fuso”, che ha rappresentato, per così dire, il prototipo di altre operazioni simili, tese semplicemente a depotenziare e possibilmente azzerare l’aspetto militare ed offensivo di Hamas e di chi per lei senza realmente mutare il corso delle cose.

La domanda è: se Gaza decidesse di proclamarsi indipendente e sovrana come città – stato, abbandonando di fatto i vecchi schemi e reclamando – magari con il sostegno dell’ONU – una sua dimensione politica internazionale,  in quanti ne sarebbero danneggiati? Quali e quanti, tra neo -ottomani, integralisti islamici d’importazione, fautori più o meno occulti di una qualche “grande Israele etnica” ne risulterebbero danneggiati? Gaza rappresenta attualmente l’ultima parte della Palestina araba ancora sostanzialmente integra dalla colonizzazione israeliana e l’ultima (e unica) parte della Palestina ad essere integralmente di fede islamica, e quindi in qualche modo facente parte della  umma musulmana: in altri termini, uno strumento utile per tutti.

Quasi con sorpresa degli osservatori internazionali, sia Israele che Hamas hanno accettato la tregua proposta dall’Egitto e sembra che entrambe le parti la stiano rispettando.

Un copione imprevisto, dato che gli eventi dei giorni precedenti sembravano far precipitare la situazione verso uno sviluppo molto, troppo simile a quanto avvenuto ai tempi dell’operazione Piombo fuso, il che ha portato alcuni commentatori a  ritenere che alla fine l’unico, reale elemento che ha spinto verso la tregua sia stato, paradossalmente, l’esaurimento delle munizioni da parte di Hamas e l’ottima prova dimostrata dal sistema Iron Dome.

Non si può escludere che questi punti di vista abbiano un corposo fondo di verità,  purtuttavia siamo in presenza, innegabilmente, di un tipo di escalation abbastanza inedito e forse ancora più preoccupante, che travalica in maniera sostanziosa la “classica” questione palestinese.

L’aspetto che rende gli eventi di questi giorni particolarmente inquietanti e preoccupanti: il fattore più squisitamente etnico. Se infatti finora in Israele non si era mai definitivamente virato verso lo stato etnico e religioso, con le ultime leggi varate da Netanyahu circa la definizione dello Stato, questa mutazione genetica si è verificata, d’altronde in maniera perfettamente coerente, si potrebbe dire, con quello che sta avvenendo da ormai decenni nella West Bank. Adesso che anche i non ebrei con passaporto israeliano si sono sentiti “declassati” (a torto o a ragione) a “cittadini di serie B”, la tensione ha assunto diversi e più temibili connotati perché rischia di far divenire la questione  palestinese come un tassello di un problema etnico più grande ed in cui l’ultimo lembo di territorio etnicamente integro risulta essere proprio Gaza: il che la avvicina ancora di più a Danzica.

La rivolta cui abbiamo assistito nasce inizialmente tra gli arabi israeliani, (la famigerata questione dello sfratto  a Gerusalemme est), e va ad investire direttamente la questione dello status di queste popolazioni, alle quali per la prima volta nella storia del paese è stata data a livello legislativo (con effetti costituzionali) una definizione etnico – religiosa, cosa che era stata accuratamente evitata (sebbene i fatti andassero ben altrimenti, ma almeno non vi era stata questa consacrazione ufficiale) in tutta la storia del paese. Con il risultato che, almeno in potenza, potranno esistere diversi livelli di cittadinanza nell’ambito dello Stato.

Con questi presupposti, la questione palestinese potrebbe finire per essere “affogata” in una più ampia questione araba che già esisteva, ma solo a livello di rapporti e situazioni tra Israele e gli altri stati arabi, e ora esiste  palesemente e conclamatamente anche all’interno di Israele: la politica estera diventa politica etnica, la politica militare diventa questione di polizia.

Questo cortocircuito potrebbe avere quindi l’effetto di eliminare i confini dello Stato ma, assurdamente, nel senso più maligno in cui si possa interpretare questo concetto ossia, banalmente e terribilmente, di legittimare di fatto “la caccia all’arabo versus la caccia all’ebreo” indipendentemente dal proprio status di cittadinanza legale.

E’ possibile che la fragile tregua regga, vista l’impossibilità di Hamas di proseguire l’azione, ma è necessario considerare che se prima era una organizzazione senza territorio (il suo potere sulla striscia di Gaza è illegale da tempo, stante che non si fanno più elezioni dal 2006) potrebbe ora conoscere una nuova laterale legittimazione e ricevere nuova linfa proprio dalla de-territorializzazione del confitto e dalla conseguente entrata in ballo, pesantemente, degli arabi israeliani.

Ed è proprio Israele a questo punto che rischia di trovarsi in un vicolo cieco politico e militare perché a meno che la situazione non cambi radicalmente, potrebbe essere difficile intravedere altre opzioni, nella gestione della presente e delle future crisi, che non sia quella militare – poliziesca.  

Sarah Ibrahimi Zijno 


Immagine tratta da Pixabay.com

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