L’Afghanistan tra Coronavirus, Stato islamico e talebani. L’analisi di Bertolotti

Quali riflessi potrà avere la pandemia di Coronavirus sulla complessa e precaria situazione in Afghanistan e quanto pesano le tensioni interne e la minaccia del terrorismo jihadista? Il punto di vista di Claudio Bertolotti, Direttore di START InSight.

I talebani hanno dichiarato di essere disponibili a un cessate il fuoco nelle zone dell’Afghanistan colpite dal Coronavirus Covid-19. Un annuncio che segue la dichiarazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite con la quale viene chiesto alle parti in guerra di avviare una tregua immediata al fine di garantire la distribuzione di aiuti umanitari in tutte le aree del paese colpite dalla pandemia.

Il 4 aprile, i servizi segreti afghani hanno annunciato di aver catturato 20 jihadisti tra i quali Abdullah Orakzai, alias Aslam Farooqi, il leader dello Stato islamico Khorasan (ISKP) – franchise afghano dell’omologo nato in Iraq e poi in Siria – responsabile degli attacchi che, lo scorso 25 marzo, hanno provocato oltre 50 vittime tra le comunità sikh e sciite di Kabul

Due fatti rilevanti che definiscono l’attuale situazione in Afghanistan, dove gli accordi tra Stati Uniti e talebani hanno aperto alla possibilità di un disimpegno significativo delle truppe statunitensi dalla guerra più lunga mai combattuta da Washington.

L’accordo, firmato a Doha lo scorso 29 febbraio, prevede la riduzione militare statunitense, da 12.500 a 8600 uomini (e di conseguenza della NATO) entro 135 giorni, e il ritiro completo entro 14 mesi; i talebani si sono invece impegnati a non ospitare in Afghanistan organizzazioni terroristiche e a ridurre la violenza.

La NATO schiera oggi in Afghanistan oltre 16mila soldati nei di ranghi “Resolute Support”, l’operazione di addestramento e supporto alle forze afghane, di questi 8mila sono americani e 800 italiani. 300mila sono le forze di sicurezza afghane: un numero elevato che però non corrisponde a una sufficiente capacità di operare. Sull’altro fronte, i talebani avrebbero 50/70mila combattenti e fino a 200mila inserendo nel computo gli elementi di supporto; 10mila sarebbero invece i miliziani dello Stato islamico Khorasan.

Al di là dei risultati che potranno concretizzarsi, l’accordo è un evento storico per due ragioni: la prima è il riconoscimento formale dei talebani come legittimi interlocutori; la seconda è l’avvio del disimpegno militare statunitense, almeno quello delle truppe convenzionali.

Ma il negoziato prevede come primo passo la liberazione di circa 5.000 prigionieri talebani in mano al governo di Kabul; in cambio, i talebani rilascerebbero 1.000 prigionieri: di fatto un’imposizione al governo afghano, non preventivamente consultato, che ha aperto a una serie di resistenze che hanno già posticipato gli incontri intermedi che avrebbero dovuto portare al tavolo delle trattative i due attori.

Ma proprio la diffusione del Coronavirus in Afghanistan potrebbe portare allo sblocco di questo empasse. Il governo afghano potrebbe sfruttare la necessità di alleggerire il peso di un sistema carcerario pesantemente colpito dalla diffusione del virus rispondendo in tempi brevi alla premessa dell’accordo con i talebani, che prevede appunto il rilascio dei 5.000 prigionieri – numero che potrebbe essere compreso nel totale dei 10.000 detenuti (principalmente donne, minori e malati) che Kabul ha annunciato di volere rimettere in libertà a causa della pandemia. Le resistenze politiche che si sono sollevate da più parti potrebbero qui trovare la soluzione che toglierebbe l’imbarazzo del rilascio dei talebani.

Un’opzione che potrebbe influire favorevolmente su un accordo molto difficile in cui i seguaci del movimento che fu del mullah Muhammad Omar si stanno imponendo da una posizione di forza e con l’accusa, rivolta al governo guidato da Ashraf Ghani, di voler minare il percorso negoziale. Ciò che in realtà i talebani stanno cercando di imporre è una posizione sempre più subordinata dello stato afghano, equiparato, in termini di importanza e legittimità, a tutte le altre componenti afghane: dalla società civile ai gruppi di potere informali, all’opposizione parlamentare. Dunque al governo afghano i talebani intendono riservare un ruolo al pari di tutti gli altri soggetti, privandolo di quella legittimità che a livello internazionale e diplomatico gli è invece riconosciuta.

Ma la presa di posizione dei talebani sfrutta a proprio vantaggio e in maniera efficace il peso dei gravi problemi di governabilità e di rappresentanza politica nazionale. A livello politico, cinque anni di assenza di azione di governo –  frutto del compromesso che nel 2014 portò al potere la diarchia Ghani-Abdullah e dei rispettivi gruppi di potere – hanno creato le premesse per un irrimediabile distacco tra centro e periferia. L’azione di governo, già debole a Kabul come nelle altre città, è assente nelle aree periferiche e rurali. Un’instabilità politica a cui si accompagna un diffuso disagio sociale ed economico a cui si sommano la corruzione, l’insufficienza di servizi essenziali, il mancato rispetto dei diritti umani e, infine, gli effetti sul breve-medio periodo del Coronavirus, che lo Stato afghano non è in grado di contenere e che investirà sempre più, insieme alla popolazione, le già deboli unità militari nazionali, infliggendo loro un colpo definitivo dal quale non potranno risollevarsi.

A livello militare, la capacità di controllo del territorio è ormai ridotta al minimo. Le forze di sicurezza sono in posizione difensiva, incapaci di condurre azioni operative in maniera autonoma ed efficace: meno del 20 percento dei reparti è in grado di operare in maniera autonoma. In aumento costante il numero di perdite in combattimento, le diserzioni e i mancati rinnovi delle ferme volontarie: le forze afghane sono destinate al collasso.

Nessuna pace, nessun accordo sicuro: il rischio è di aprire nuove conflittualità tra i due contendenti che non si riconoscono l’un l’altro.

Il Governo afghano, per quanto militarmente equipaggiato, si troverà da solo a fronteggiare i talebani, in un possibile scenario da guerra civile dove si contrapporranno le componenti disposte alla condivisione del potere con i talebani (in prevalenza pashtun) e quelle che si opporranno a qualunque compromesso, in particolare le componenti tagike, uzbeche a hazara.

L’obiettivo dei talebani è l’imposizione dell’Emirato islamico: ora sempre più vicino e di cui sono consapevoli sia Washington sia Kabul, perché con il disimpegno statunitense potrebbe non esserci più alcun ostacolo.

Claudio Bertolotti è Direttore di START InSight


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